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  Opinioni  
15 Giugno 2020


Obblighi datoriali di tutela contro il rischio di contagio da Covid-19: un reale ridimensionamento della colpa penale?

Spunti sull'art. 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (convertito nella legge 5 giugno 2020, n. 40)



1. Nel corso dell’esame in sede referente del disegno di legge di conversione del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. decreto liquidità) è stato introdotto l’articolo 29-bis, dedicato agli "obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19"[1].

L'addenda emendativa, oggi definitivamente confluita nella legge 5 giugno 2020, n. 40 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie generale n. 143 del 6 giugno 2020), prevede che ”ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale[2].

L’intervento corrisponde a una precisa esigenza emersa in concomitanza alla ripresa delle attività lavorative e produttive conseguente all'ingresso nella c.d. "fase 2", caratterizzata dall'allentamento e, dunque, dalla parziale modifica delle prescrizioni contenitive in vista di un graduale ritorno alla normalità: quella cioè di attenuare la preoccupazione del fronte imprenditoriale per l'eventuale responsabilità del datore di lavoro connessa a possibili casi di infezione da coronavirus contratta da propri dipendenti.

Nella medesima direzione di ridimensionamento dell'area di responsabilità, si muove anche il rapporto 'Iniziative per il rilancio Italia 2020-22' del Comitato di esperti in materia economica e sociale (la cosiddetta task force guidata da Vittorio Colao), nel quale – al punto 1.i della sezione dedicata a "imprese e lavoro motore dell'economia" – si suggerisce di "escludere il 'contagio Covid-19' dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie". Più nel dettaglio, si spiega che "il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da Covid-19, anche nei settori non sanitari, pone un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività", suggerendo, per ridurre il rischio di responsabilità penale, che "l'adozione, e di poi l'osservanza, dei protocolli di sicurezza, predisposti dalle parti sociali (da quello nazionale del 24 aprile 2020, a quelli specificativi settoriali, ed eventualmente integrativi territoriali), costituisca adempimento integrale dell’obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 del codice civile", evidenziandosi che "essendo la materia della sicurezza sul lavoro, intesa come contenuto dell'obbligo di sicurezza, e quella relativa ai contratti, di competenza statale esclusiva, è la legislazione nazionale che deve prevedere questo meccanismo, a garanzia dell'uniformità su tutto il territorio nazionale di una disciplina prevenzionale". In questi termini, il datore che adempie all'obbligo di sicurezza, "non andrebbe incontro né a responsabilità civile né a responsabilità penale, pur in presenza di un eventuale riconoscimento da parte dell'Inail dell'infortunio su lavoro da contagio Covid-19".

In termini più generali, si tratta di una preoccupazione che, come si vedrà, si innesta su un terreno già di per sé estremamente complesso e che è stata ulteriormente accentuata dall'equiparazione, disposta dal secondo comma dell’articolo 42 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto Cura Italia, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27) a fini assicurativi, dei casi di infezione da coronavirus in occasione di attività lavorative a veri e propri infortuni sul lavoro.

 

2. Per inquadrare la tematica e cogliere portata e senso dell'innovazione, è necessario ricordare come, tra le molte peculiarità del microsistema della sicurezza sul lavoro, vi è quella per cui, a fronte della spinta alla positivizzazione delle regole e dell’apparente guadagno in termini di determinatezza e conoscibilità del precetto, è ancora prevalente, in sede giurisprudenziale, il ricorso quale parametro della colpa a regole cautelari dai contenuti elastici, massicciamente presenti (pur se travestite da cautele rigide) nel corpus normativo, a partire dal d.lgs. n. 81 del 2008; l'effetto che ne deriva è l'ingenerare regole di accertamento ambigue e ibride, nelle quali i tratti semplificatori tipici della colpa specifica vengono riferiti a cautele elastiche che, pur essendo formalizzate, presentano tutti i requisiti contenutistici della colpa generica.

Ancora, e agli stessi fini, va richiamata la tendenza a fare ricorso a vere e proprie clausole generali, il cui più significativo esempio è rappresentato dall’art. 2087 c.c., che attribuisce all’imprenditore (con il quale in questo caso il datore di lavoro va a coincidere) l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro: un obbligo tanto ampio quanto indeterminato, limitandosi il precetto a individuare il soggetto su cui grava l’obbligo e i destinatari della tutela, senza fornire ulteriori informazioni sulla condotta da tenere o sull’esistenza di poteri impeditivi.

Ora, sebbene parte della giurisprudenza abbia in talune occasioni provato a riempire la clausola aperta rappresentata dall’art. 2087 c.c., precisando che tale obbligo non vada esteso a ogni cautela possibile e innominata, ma riferito solo a comportamenti che trovino fondamento in fonti del diritto di rango primario o secondario o suggeriti dalla tecnica e che siano concretamente individuati e individuabili[3], l’elasticità strutturale della fattispecie civilistica ha stimolato, sul fronte penale, interpretazioni altrettanto ‘elastiche’, dirette a estendere la portata della posizione di garanzia/protezione del datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti. È sufficiente ricordare, in proposito, la lettura secondo cui l’art. 2087 c.c., come tutte le clausole generali, finirebbe per assumere una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento al caso concreto e alla sottostante realtà socio-economica, che consentirebbe di supplire a ogni lacuna della normativa, inevitabilmente non in grado di contemplare tutti i fattori di rischio.

In sostanza, alla norma, per tale via, viene riconosciuta la funzione di ulteriore fonte di regole cautelari, la cui inosservanza viene a fondare la colpa del datore di lavoro: una vera e propria norma di chiusura del sistema prevenzionistico, che finisce per ampliare a dismisura la diligenza richiesta al datore, che non si esaurisce quasi mai nel rispetto delle regole cautelari scritte.

 

3. In questo contesto problematico di base, è evidente come la perdurante incertezza scientifica sulle precise caratteristiche del virus e sulle sue potenzialità di trasmissione ponga il datore di lavoro, nella gestione della sicurezza, di fronte a un fattore di rischio ancora nuovo e in gran parte eterogeneo rispetto all'attività lavorativa, con tutte le difficoltà legate all'esatta perimetrazione di un livello di rischio accettabile nella ripartenza delle attività lavorative, finendo per amplificare i timori di una iperpenalizzazione in ambito antinfortunistico.

Ad accentuare tali preoccupazioni ha contribuito l'evoluzione della normativa emergenziale. Il riferimento è, in particolare, a quanto disposto dal ricordato art. 42 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto Cura Italia, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27), che ha confermato, anche per le infezioni da virus SARS-CoV- 2, l’applicazione del principio generale in base al quale le malattie infettive contratte in occasione di lavoro (ad esclusione di quelle inquadrate come malattie professionali) sono considerate infortuni sul lavoro ai fini della relativa assicurazione obbligatoria[4].

Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, vi è stata su tale articolo una presa di posizione da parte dell'Inail. La circolare 20 maggio 2020, n. 22, in qualche modo anticipando i contenuti della disposizione oggi in esame, ha riconosciuto che “la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33”. Ancora, si è aggiunto come “il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario”. Si è conclusivamente esplicitato inoltre che “il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. Così come neanche in sede civile l’ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo nella determinazione dell’evento”[5].

Ciò nonostante, è stata pressante l'invocazione, da parte del mondo imprenditoriale, di un intervento chiarificatore di rango legislativo. Si è così giunti alla proposta emendativa citata in apertura, la quale, finalizzata a introdurre elementi di certezza, sembra muovere dalla piena consapevolezza della tendenza espansiva della prassi e puntare a ridefinire, con specifico riferimento al segnalato rischio di contagio, il contenuto dell’obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore gravante, ai sensi dell'art. 2087 c.c., sui datori di lavoro pubblici e privati.

Inserendo una disposizione che preveda che l’adozione di pre-date misure di contenimento costituisca assolvimento dell’obbligo di sicurezza, l'effetto pratico perseguito è che- considerata la peculiarità della situazione - ciò che si può esigere dai datori di lavoro è soltanto l’adozione, l'applicazione e il mantenimento delle prescrizioni contenute nei protocolli espressamente richiamati (e successive modificazioni e integrazioni[6]) e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33.

 

* * *

 

4. Rinviando a un più articolato commento sugli effetti e le implicazioni della norma, si può in questa sede avanzare solo qualche breve considerazione a primissima lettura sul principio stabilito, per il quale il rispetto delle prescrizioni contenute nei protocolli citati corrisponde, nella sostanza, all'assolvimento dell’obbligo di cui all’articolo 2087 c.c. ai fini della tutela contro il rischio di contagio.

Ai fini della responsabilità penale sembrerebbe dunque che l'intento legislativo sia quello di fissare la misura della diligenza richiesta al datore di lavoro all'interno di misure preventive condivise e frutto della migliore scienza ed esperienza del momento, al fine di impedire in futuro che, in fase di accertamento giudiziale, si attui un recupero di responsabilità per colpa fondato sulla clausola generale di cui all'art. 2087 c.c., laddove il contagio si sia verificato pur in presenza dell'adozione e dell'efficace attuazione delle misure protocollari stabilite.

 

4.1. Pur chiara nelle intenzioni, la norma lascia tuttavia residuare non pochi dubbi in merito all'effettiva capacità di raggiungere gli obiettivi perseguiti.

Se è vero che l'art. 42, rettamente inteso, si limita a qualificare l’infezione virale da Covid-19 quale infortunio sul lavoro soltanto ai fini della sua protezione indennitaria nell’ambito del sistema dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail, senza entrare nel campo della responsabilità datoriale né stabilendo alcun rilievo di tale qualificazione a fini penali o civili, è altrettanto vero che l’ordinamento penale non contempla alcuna differenza normativa tra infortunio e malattia professionale. Tuttavia, combinandosi l'equivocità della disposizione con l’indeterminatezza degli obblighi datoriali, per di più in un contesto complicato come quello pandemico, appare comprensibile e forse giustificabile l’avvenuto acuirsi del timore di una facile, per quanto erronea, equazione: malattia da Covid-19 = infortunio sul lavoro = responsabilità penale del datore di lavoro.

È altresì innegabile che già gli ordinari criteri di imputazione della responsabilità, se rettamente applicati, possano essere idonei a scongiurare interpretazioni eccessivamente penalizzanti per i datori, a partire dalla verifica del nesso causale (alla stregua dei parametri elaborati dalle Sezioni unite Franzese), connotata in questo caso da un evidente ed elevato tasso di complessità, sino a quella della colpa, fondata sui parametri della concretizzazione del rischio, dello scopo della norma violata, del comportamento alternativo lecito e soprattutto della misura soggettiva.

Senonché, una volta superato lo scoglio causale, sul versante soggettivo un approccio realistico, che tenga conto della concreta declinazione delle dinamiche processuali e delle tendenze giurisprudenziali, non può che indurre a un certo scetticismo in merito all’effettiva ‘tenuta’ dei ricordati principi. E così, l’opportunità dell’intervento può essere misurata e apprezzata al metro dei potenziali effetti attuali e futuri che, da questo punto di vista, potrà sprigionare: oggi, innescando una responsabilizzazione ulteriore dei datori di lavoro in ordine alla necessità di attuare e mantenere effettive misure preventive corrispondenti a quelle previste da protocolli e linee guida condivisi, che riproducono le best practices del settore; domani, in chiave di possibile esonero della responsabilità datoriale per violazione dell'art. 2087 c.c.

Un duplice effetto di tutela, dunque: per i datori, delimitando il novero delle matrici colpose addebitabili ed escludendo che si possa pretendere, sempre e comunque e a posteriori, che qualcosa di meglio e di più si sarebbe potuto (e dovuto) fare; ma anche (e forse soprattutto) per i lavoratori e per le loro aspettative di sicurezza. Senza tralasciare i riverberi benefici connessi alla ripresa e al rilancio delle attività economiche e dei livelli occupazionali.

 

4.2. Venendo alle perplessità, legate soprattutto all'effettivo conseguimento dei fini perseguiti, è evidente come la previsione di adeguatezza non esaurisca tutto il ventaglio delle cautele ipotizzabili e delle imputazioni colpose addebitabili.

Anzitutto perché, come sappiamo, oggi il fuoco della colpa specifica ibrida è principalmente incentrato sulle prescrizioni contenute nel TU 81 del 2008, di talché il peso dell'art. 2087 c.c., in fondo, tende a diminuire e ad assumere i contorni di norma di chiusura (pur dai potenziali effetti espansivi). Ma soprattutto poiché, oltre che per quanto in precedenza detto anche per ciò che emerge dalla semplice lettura del contenuto di molte cautele descritte nei protocolli richiamati dall'art. 29-bis, residuerà sempre un margine di accertamento della effettiva idoneità tecnica e strutturale delle procedure normativamente previste; si pensi, a titolo esemplificativo, al funzionamento della strumentazione per la misurazione della temperatura al momento dell’ingresso sui luoghi lavorativi.

Di conseguenza, non si potrà prescindere – in qualsivoglia contestazione in materia – da una perdurante quota di residua colpa generica, legata a doppio filo alla fisiologica genericità di alcune prescrizioni (configuranti regole cautelari elastiche) e alla necessità (che pone una stringente similitudine con quanto previsto per la colpa medica) di adeguarle alle specificità del caso concreto, per il tramite (quantomeno) di un'appropriata manutenzione degli strumenti, di una corretta attuazione dei protocolli estesa alla vigilanza sul rispetto da parte dei lavoratori delle cautele adottate e di una verifica – ex ante e in concreto – della loro idoneità allo scopo. Non è casuale, allora, che dallo stesso art. 29-bis continui a essere richiesto al datore, oltre all’adozione delle misure previste nei protocolli e nelle linee guida, proprio il loro mantenimento, con ciò esigendo un'opportuna attività organizzativa per la loro efficace attuazione.

Ricavare dal rispetto dei protocolli e delle linee guida indicate nella norma – frutto di concertazione tra le parti sociali – una sicura esclusione di responsabilità dovrebbe necessariamente passare per una diversa e più esplicita scelta politica, vale a dire per una opzione legislativa che escluda espressamente ogni responsabilità penale (per colpa specifica e generica) del datore di lavoro in caso di rispetto delle cautele inserite nelle fonti richiamate, che impedisca di attribuire rilievo penale ad ogni altro comportamento pur produttivo dell’evento infausto, riconducibile ad altre pur possibili violazioni cautelari[7].

 

4.3. Si può allora immaginare – concludendo – un complessivo ridimensionamento della 'drammaticità' della questione e della portata innovativa della norma.

Da un lato, infatti, si può sdrammatizzare il profilo emergenziale del problema. A ben vedere, infatti, quella che è stata vissuta come un'emergenza nell'emergenza è stata percepita come tale soprattutto in virtù dell'enfatizzato fraintendimento dell'art. 42 e delle sue ricadute in termini di responsabilità penale dei datori di lavoro, la cui innegabile problematicità, in termini generali, non pare oggi particolarmente accresciuta dai postumi dell'emergenza Covid-19.

Dall'altro lato, vanno anche ridimensionate – per le ragioni che sono state sin qui esposte – le aspirazioni in termini di non punibilità dell'intervento legislativo così come congegnato; intervento che sarebbe più corretto 'declassare' da scudo penale (termine improprio, da abbandonare nel lessico penalistico, lasciando presupporre una irragionevole pretesa di impunità di soggetti certamente responsabili) a norma di indirizzo, dal valore 'pedagogico', quale guida dell'interpretazione giurisprudenziale nei casi complessi di contagio da Covid-19 in ambito lavorativo.

L'auspicio più realistico è che, introducendosi nel tessuto normativo indizi di certezza del diritto – in termini di riconoscibilità del precetto e prevedibilità della risposta sanzionatoria – e prospettandosi, in questo ambito, il passaggio verso un'eteronormazione, si possano in ogni caso attenuare le più macroscopiche problematiche legate all'accertamento della colpa generica, soprattutto allontanando la tentazione di un pericoloso scivolamento verso la logica semplificatoria del giudizio ex post, per la quale – a posteriori – si può e si potrà sempre pretendere qualcosa in più da parte dei datori di lavoro.

 

 

[1] Sull'intervento normativo in esame e sulla responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio, si vedano, a prima lettura e per tutti, G. Accinni, Necessaria una norma di copertura delle responsabilità, in Il Sole 24 ore, 16 maggio 2020, p. 3; D. Amato, Contagio da Covid-19 "in occasione di lavoro" e responsabilità datoriale: è davvero necessario uno scudo penale?, in Giurisprudenza penale web, 2020, 6; S. Dovere, Le misure anti Covid-19 nei luoghi di lavoro: dalla (sicura) emergenza sanitaria alla (temuta) emergenza sanzionatoria, in corso di pubblicazione in Labour and Law issues (LLI); Id., Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia insieme, 22 aprile 2020; Id., La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell'emergenza da Covid-19, ivi, 5 maggio 2020; F. Compagna, in La responsabilità penale da "contagio" sui luoghi di lavoro. Chiarimenti a margine della circolare Inail del 20 maggio 2020, in Il penalista, 25 maggio 2020; D. Piva, Contagi sul lavoro, i limiti necessari alla «colpa» penale, in Il Sole 24 ore, 5 giugno 2020, p. 30.

[2] Il comma 14 dell'articolo 1 del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (recante "Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19") stabilisce che "le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale", aggiungendo che "le misure limitative delle attività economiche, produttive e sociali possono essere adottate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con provvedimenti emanati ai sensi dell'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020 o del comma 16".

Va altresì segnalato quanto previsto, sul punto, anche dall’art. 2 del d.P.C.m. 17 maggio 2020, attuativo del dl 33/2020 (recante “Misure di contenimento del contagio per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive industriali e commerciali”), che rinvia espressamente al protocollo di cui sopra e ad altri protocolli, allegandoli all’atto normativo stesso. L’art. 2, infatti, prevede che “sull'intero territorio nazionale tutte le attività produttive industriali e commerciali, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 1, rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid- 19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 12, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del Covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 13, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del Covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 14”.

[3] Fra le varie, si vedano Cass. 14 gennaio 2005, n. 644; Cass. 1° febbraio 2008, n. 2491; Cass. 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; da ultimo Cass. 11 febbraio 2020, n. 3282).

[4] Tale articolo, infatti, recita: “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell'allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante 'Modalità per l'applicazione delle tariffe 2019'. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

[5] La prima circolare Inail (la n. 13 del 3 aprile 2020) ha, invece, individuato le fattispecie professionali per le quali viene riconosciuta una presunzione semplice di contrazione in occasione di lavoro (della malattia in oggetto), demandando, per le altre fattispecie, la definizione dell’eventuale sussistenza dell’occasione di lavoro all’accertamento medico-legale (quest’ultimo - afferma la circolare - "seguirà l’ordinaria procedura, privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale").

[6] Il Protocollo condiviso tra Governo e parti sociali del 24 aprile scorso integra il protocollo precedentemente stipulato il 14 marzo dalle stesse parti; come recita in premessa il testo del Protocollo, “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di Covid-19. Il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione. Il presente protocollo contiene, quindi, misure che seguono la logica della precauzione e seguono e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria”.

[7] In questo senso, S. Dovere, Le misure anti Covid-19 nei luoghi di lavoro: dalla (sicura) emergenza sanitaria alla (temuta) emergenza sanzionatoria, cit., § 4.2.