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17 Luglio 2020


Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?)

Sulla riforma del delitto di abuso d'ufficio ad opera del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (art. 23)



 

1. È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale di ieri, 16 luglio 2019, ed è in vigore da oggi, il ‘decreto semplificazioni’ (d.l. 16 luglio 2020, n. 76). Si tratta, secondo la sintesi del comunicato stampa diffuso subito dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, lo scorso 7 luglio, di “un intervento organico volto alla semplificazione dei procedimenti amministrativi, all’eliminazione e alla velocizzazione di adempimenti burocratici, alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, al sostegno all’economia verde e all’attività di impresa. Il decreto interviene, in particolare, in quattro ambiti principali: semplificazioni in materia di contratti pubblici ed edilizia, semplificazioni procedimentali e responsabilità, misure di semplificazione per il sostegno e la diffusione dell’amministrazione digitale, semplificazioni in materia di attività di impresa, ambiente e green economy”.

Sul versante delle responsabilità degli amministratori pubblici, l’idea (e la corrispondente scelta politica) di fondo è che la ripresa del Paese – questo il nesso con l’emergenza Covid-19 – possa essere facilitata da un allentamento delle responsabilità. Il concetto è espresso benissimo nel titolo di una slide mostrata durante la conferenza stampa del Presidente Conte (minuto 8:05 del video), che in proposito ha parlato di “una piccola rivoluzione”: “funzionari pubblici: basta paura, conviene sbloccare”. E in effetti, anche solo a voler considerare il messaggio di moralizzazione veicolato a funzionari ed amministratori pubblici – in un paese che continua a fare i conti quotidianamente con il malaffare nella pubblica amministrazione – di rivoluzione si tratta: dal volto feroce della legge ‘spazza-corrotti’ si passa al più mite e comprensivo decreto-semplificazioni. L’impressione, per quanto si dirà, è che da un eccesso - di penalizzazione - si passi a un altro - di depenalizzazione.

Le responsabilità interessate dal provvedimento d’urgenza, in chiave limitativa, sono quella erariale e quella penale. Chi conosce la pubblica amministrazione sa che la responsabilità erariale è particolarmente temuta, a differenza della responsabilità disciplinare, raramente affermata, e della responsabilità penale, che ha spesso il volto di una tigre di carta, scontando elevati tassi di ineffettività in buona parte imputabili alla mannaia della prescrizione del reato. Si comprende allora perché il Governo, ponendosi l’obiettivo di allentare le responsabilità degli amministratori pubblici, sia intervenuto, anzitutto, sulla responsabilità erariale: una forma di responsabilità che, unitamente a quella disciplinare, meriterebbe maggiore attenzione da parte dei penalisti, come suggerisce anche e proprio la riforma in commento.

 

2. L’azione di responsabilità per danno erariale, da parte dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, è disciplinata dall’art. 1 l. 14 gennaio 1994, n. 20, ai sensi del quale tale responsabilità “è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”. Il decreto-semplificazioni (art. 21) apporta due modifiche a questa disciplina.

La prima riguarda la “prova del dolo”: si prevede espressamente, intervenendo sul testo dell’art. 1 l. n. 20/1994, che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Agli occhi del penalista sembra lapalissiano; senonché va considerato che, secondo alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile, per la responsabilità erariale sarebbe sufficiente la prova del dolo in relazione alla condotta. L’estensione dell’onere probatorio rende pertanto più difficile affermare la responsabilità. Che poi sia ragionevole ritenere responsabile chi ha agito con colpa, per quanto grave, e non chi ha agito con dolo, sia pure in relazione alla sola condotta e non all’evento di danno, è lecito dubitare.

La seconda e più rilevante modifica, questa volta di carattere transitorio, perché limitata ai fatti commessi dall’entrata in vigore del decreto semplificazioni e fino al 31 luglio 2021, si sostanzia in una sorta di ‘scudo erariale’: la responsabilità (al netto della citata regola sull’onere della prova) “è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta” (sic). In altri termini, per il prossimo anno è stata abolita la responsabilità erariale per colpa grave, salva tuttavia l’ipotesi di danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente, rispetto ai quali si prevede che non si applichi la predetta limitazione di responsabilità. “Basta paura, conviene sbloccare”: a questo si riferiva la citata slide che ha accompagnato la conferenza stampa del Presidente Conte, aggiungendo che ci saranno “più rischi per il funzionario che tiene fermi procedimenti e opere, non per quello che li sblocca”: è infatti più rischioso non agire che agire, andando esenti da responsabilità, in caso di condotta omissiva, anche se vi è colpa grave. Che questo messaggio di fondo e la relativa disciplina siano ragionevoli e compatibili con il principio del buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), nonché ammissibili, sul piano dell’etica pubblica e dei doveri di comportamento del pubblico funzionario, è quanto meno dubbio. Davvero la semplificazione amministrativa – la sburocratizzazione del pachiderma pubblico – può ammissibilmente essere realizzata, in un paese afflitto dal malcostume diffuso nella p.a., invitando funzionari e amministratori pubblici a ‘fare’, anche superficialmente e maldestramente, piuttosto che a ‘non fare’, rischiando di risponderne? Possiamo davvero accettare una simile direttiva di gestione della cosa pubblica, anche solo temporanea? Con quali possibili effetti permanenti, poi?

 

3. Sul versante della responsabilità penale, il decreto semplificazioni (art. 23) apporta una rilevante modifica alla disciplina del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), che tocca il nucleo della fattispecie legale, risultante dalla precedente riforma del 1997. Le parole violazione “di norme di legge e di regolamento” sono sostituite dalle seguenti: violazione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. La fattispecie per il resto rimane invariata: continua a prevedere, come condotta alternativa, l’inosservanza dell’obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi, nonché il duplice evento, alternativo, dell’ingiusto vantaggio patrimoniale e del danno ingiusto, oggetto del dolo intenzionale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che agiscano nello svolgimento delle loro funzioni o del servizio.

Non ripercorro qui la “tormentata storia normativa dell’abuso d’ufficio” (così Mario Romano, nel suo Commentario): una figura di reato che giunge ora alla sua quarta formulazione, dal 1930, e la cui instabilità è figlia del ruolo complesso che le viene attribuito, assolvendo a una “funzione repressiva di chiusura dell’insieme dei reati dei pubblici amministratori” (così, ancora, Mario Romano). La storia dell’abuso d’ufficio, come conferma l’ultimo capitolo che ora stiamo leggendo, è la storia della continua ricerca, per via normativa e giurisprudenziale, della delimitazione di una fattispecie di chiusura del sistema, configurabile “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”. Se la ‘valvola’ dell’abuso d’ufficio non viene opportunamente stretta – conferendo alla fattispecie legale contorni definiti, compatibili con il principio di precisione (da qui nasceva, con la riforma del 1997, il riferimento alla “violazione di norme di legge e di regolamento”, in luogo del generico “abuso dell’ufficio”) – il rischio è che la suddetta “funzione repressiva di chiusura” trasmodi in panpenalizzazione; se però quella valvola risulta troppo stretta, il rischio è inverso e non meno preoccupante – in termini di impunità e di inefficacia preventiva dell’incriminazione – specie in un sistema nel quale, come ricordavo, quando l’intervento penale nel settore pubblico si ritrae spesso non trovano spazio, come invece sarebbe opportuno, forme diverse di responsabilità, come quella disciplinare, che potrebbero appagare la domanda di giustizia delle vittime e fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica (lo conferma un dato: il numero dei procedimenti disciplinari avviati è di gran lunga inferiore a quello dei procedimenti penali).

Ancora una volta, come in occasione delle precedenti riforme, l’obiettivo politico-criminale è di circoscrivere l’area dell’abuso d’ufficio penalmente rilevante. In questa occasione, l’intento dichiarato è di rasserenare funzionari e amministratori pubblici, chiamati a ‘darsi da fare’ per facilitare la ripresa del paese. Si legge nella citata slide, che ha accompagnato la conferenza stampa del Presidente Conte: “stop alla paura della firma: i funzionari pubblici devono poter sbloccare lavori e spese (es. riforma abuso ufficio)”. Già ho segnalato il radicale cambio di passo del messaggio politico-criminale: dalla legge spazza-corrotti, che incute timore già solo col nome, al rassicurante ‘basta paura’ del decreto-semplificazioni. Né si tratta, come in materia erariale, di allentare la morsa della responsabilità solo transitoriamente, in ragione di contingenti esigenze dipendenti dall’emergenza sanitaria e dai suoi effetti sul c.d. sistema paese.

 

4. Tre sono gli interventi attraverso i quali il decreto-semplificazioni ha fortemente ridimensionato l’abuso d’ufficio, arretrando in modo corrispondente l’avamposto della tutela penale nel settore della p.a.:

1) è stata esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute in regolamenti: l’abuso potrà infatti essere integrato solo dalla violazione di “regole di condotta…previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti primarie;

2) si è precisato che rileva la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche” ed “espressamente previste” dalle citate fonti primarie;

3) si è altresì precisato che rilevano solo regole di condotta “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

 

4.1. Quanto al primo intervento, mentre il riferimento agli atti aventi forza di legge pare superfluo, sembra irragionevole l’esclusione dei regolamenti dal novero delle fonti normative la cui inosservanza può dar luogo all’abuso d’ufficio. Proprio nei regolamenti, spesso frutto di processi di delegificazione, si rinvengono infatti regole di condotta espresse e specifiche, relative alla funzione o al servizio esercitato in una determinata amministrazione pubblica e, pertanto, più vicine al caso concreto e capaci di orientare e uniformare l’operato degli amministratori. Il buon andamento della p.a. non può essere tutelato efficacemente se si consente di violare impunemente, con dolo intenzionale di ingiusto profitto patrimoniale o di danno ingiusto, i regolamenti che le amministrazioni si danno, spesso attraverso procedimenti particolarmente complessi. Né – in chiave di semplificazione (obiettivo più generale, si ricordi, dell’intervento riformatore) – è auspicabile un processo di ri-legificazione, che potrebbe risultare quale effetto indiretto dell’abolizione dell’abuso d’ufficio per violazione di norme di regolamento. Più di una ragione, a mio avviso, suggerisce dunque un auspicabile passo indietro, in sede di conversione in legge del decreto.

 

4.2. Quanto al secondo intervento, vincolando l’abuso penalmente rilevante alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta la riforma mira a ridurre l’area applicativa dell’incriminazione escludendo che la violazione di principi generali possa integrare l’abuso d’ufficio. Il problema si è posto, tra l’altro e in particolare, con riferimento ai principi espressi nell’art. 97 Cost. (doveri costituzionali di imparzialità e buon andamento della p.a.). Secondo un orientamento giurisprudenziale, criticato da una parte della dottrina per l’eccessiva dilatazione della fattispecie legale, l’art. 97 Cost. rileverebbe nella sua parte immediatamente precettiva, sul versante dell’obbligo di imparzialità, “che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni” (cfr. Cass. Sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096, Giorgino, CED 265464; Cass. Sez. VI, 21 febbraio 2019, 22871, Vezzola, CED 275985; Cass. Sez. VI 2 aprile 2015, n. 27816, Di Febo, CED 263933: “in tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di legge può essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A. nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione”). Tale principio costituzionale, nella sua portata precettiva, è stato fino a ieri richiamato dal riferimento alle ‘norme di legge’, contenuto nell’art. 323 c.p.; un riferimento che resta anche dopo la riforma in commento. Sicché non sembra potersi escludere che, valorizzando la portata precettiva della disposizione costituzionale, la giurisprudenza possa comunque ravvisare, nell’art. 97 Cost., una espressa e specifica regola di condotta ai sensi della riformulata fattispecie dell’abuso d’ufficio.

Lo sforzo di circoscrivere l’incriminazione alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta è diretto a incrementare la capacità selettiva alla fattispecie legale e a garantire una maggiore prevedibilità delle conseguenze degli illeciti nell’attività amministrativa. Senonché in sede di conversione in legge del decreto sarebbe a mio avviso opportuno considerare come un simile obiettivo – unitamente a quello di una maggiore efficacia dell’incriminazione, in chiave preventiva – possa essere meglio perseguito dando rilievo non solo alla fonte delle regole di condotta, ma anche al loro contenuto. Si potrebbe ad esempio inserire un inciso che dia rilievo alle regole “attinenti alle funzioni e al servizio esercitato”.

 

4.3. Quanto infine al terzo intervento, esso come si è detto attribuisce rilevanza alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale da parte del soggetto agente. Stante la nozione omnicomprensiva di cui agli artt. 357 e 358 c.p., può trattarsi tanto di un funzionario amministrativo quanto di un esponente politico, titolare di una carica elettiva (ad es., un sindaco o un parlamentare) o di un ufficio attribuitogli per nomina politica (ad es., un ministro o un assessore). Ciò significa, in altri termini, escludere che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità, possa integrare un abuso d’ufficio penalmente rilevante.

L’intervento riformatore si giustifica in ragione dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali, non andati esenti da critiche, che a determinate condizioni ritengono configurabile l’abuso d’ufficio in ipotesi di eccesso di potere, sotto forma di sviamento, che ricorre quando nei provvedimenti discrezionali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello per cui è attribuito (cfr., ad es., Cass. Sez. VI, 13 aprile 2018, n. 19519, Filzola, CED 273099; Cass. Sez. VI, 13 marzo 2014, n. 32237, Novi, CED 260428). In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della Cassazione, affermando che “sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione” (Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011, n. 155, Rossi, CED 251498).

Dietro alla figura dell’eccesso di potere si annida il rischio dell’invasione del sindacato e del controllo penale nell’attività amministrativa e, in particolare, nella gestione politica. I commenti giornalistici, nei giorni scorsi, hanno non a caso instillato – a ragione o a torto – il sospetto che dietro alla modifica dell’abuso d’ufficio via sia un intervento ad personam, a beneficio di questo o quel sindaco. E in questi giorni sono stati riportati dati statistici che mostrano l’enorme divario tra l’elevato numero di contestazioni dell’abuso d’ufficio (circa 7.000 negli ultimi anni per i quali si dispone di dati: il 2016 e il 2017) e i provvedimenti definitivi di condanna che non arrivano a 100, negli anni considerati). Sono dati che si prestano peraltro a più letture. Se si guarda alle contestazioni, a parte dover considerare come una p.a. con sacche di inefficienza sia esposta alle denunce dei cittadini scontenti, si ha l’impressione che le procure possano abusare dell’abuso d’ufficio, utilizzandolo come un apriscatole per avviare procedimenti e indagini volti a controllare l’operato dei pubblici amministratori, in vista della contestazione di reati più gravi (ad es., la corruzione). Se si guarda poi allo scarso numero delle condanne si può avere l’impressione dell’infondatezza delle contestazioni, senza però considerare l’incidenza della prescrizione del reato, di certo elevata. Quello stesso dato, unitamente a quello che segnala come pochi dei procedimenti avviati arrivino al dibattimento, ci dice però anche che la sfiducia nella capacità della giurisprudenza di selezionare gli abusi penalmente rilevanti, compresi gli eccessi di potere, è eccessiva e nel complesso infondata.  

L’impressione è invece che il decreto-semplificazioni rifletta una simile sfiducia e che il legislatore, preoccupato di semplificare, abbia cercato di risolvere con un colpo d’accetta un problema tanto reale – come sembrerebbero testimoniare i dati relativi ai procedimenti iscritti – quanto estremamente complesso. E’ un problema che, in sede di conversione in legge, sarebbe a mio avviso opportuno rimettere al prudente apprezzamento della giurisprudenza, eliminando dalla norma il riferimento ai margini di discrezionalità.  

Solo attraverso una valutazione in concreto può infatti procedersi, come è doveroso, ai distinguo imposti dal carattere accessorio del diritto penale rispetto al diritto pubblico e amministrativo. La discrezionalità, nella pubblica amministrazione, è pervasiva e multiforme: discrezionalità amministrativa, discrezionalità tecnica e discrezionalità politica. E l’esperienza insegna che gli abusi si annidano spesso nelle maglie della discrezionalità, che nascondono l’uso strumentale di poteri e funzioni per interessi privati. Distinguere l’area della discrezionalità, e le forme di discrezionalità tra loro, è operazione spesso non facile. E se è ragionevole escludere il sindacato del giudice penale nei confronti della vera e propria discrezionalità politica, che ha carattere assoluto e riguarda il merito delle scelte di indirizzo, non altrettanto mi sembra possa dirsi della discrezionalità amministrativa, che implica una comparazione tra l’interesse pubblico primario e gli interessi secondari, e della discrezionalità tecnica, che richiede una valutazione di fatti alla stregua di canoni scientifici e tecnici (si pensi ad es. a una procedura di valutazione comparativa tra più candidati a una borsa di studio): due forme di discrezionalità, queste ultime, che sono in vario modo ancorate a criteri e parametri di esercizio, spesso individuati da regole specifiche ed espresse, contenute in leggi o regolamenti. Davvero ha senso escludere l’abuso d’ufficio in caso di violazione di simili regole, realizzata con l’intento di perseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale o di recare un danno ingiusto? A me pare che non sia ragionevole, in chiave di prevenzione e repressione delle offese ai beni, di rango costituzionale, del buon andamento e dell’imparzialità.

Se la norma non dovesse essere modificata in sede di conversione in legge, è peraltro verosimile che, per evitare lacune di tutela, ed esiti irragionevoli, la giurisprudenza valorizzi la modalità alternativa dell’abuso d’ufficio, non interessata dalla riforma in commento. Mi riferisco alla omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto “o negli altri casi prescritti”. Valorizzando quest’ultima locuzione si potrebbe dare rilievo tanto ai regolamenti, quanto alle norme che esprimono principi generali, quanto, soprattutto, alle regole di condotte caratterizzate da più o meno ampi margini di discrezionalità.

 

5. Qualche riflessione meritano i problemi di diritto intertemporale, rispetto ai quali si presentano due principali e più verosimili scenari: quello della conversione in legge senza emendamenti o con emendamenti.

Se la nuova fattispecie venisse tradotta in norma di legge, la limitazione dell’area del penalmente rilevante comporterebbe, in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, una parziale abolitio criminis, limitatamente ai fatti di abuso d’ufficio commessi: a) in violazione di norme di regolamento; b) in violazione di norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse; c) in violazione di regole di condotta che lasciano residuare margini di discrezionalità. L’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2, co. 2 c.p. e dell’art. 673 c.p.p., comporterebbe l’archiviazione dei procedimenti in fase di indagine, il proscioglimento nei processi in corso e la revoca delle sentenze passate in giudicato (porrebbe peraltro al giudice dell’esecuzione complesse questioni circa la ricorrenza delle ipotesi di cui sopra, in particolare di quelle sub b) e c). Da segnalare peraltro - problematicamente - che la tesi dell'abolitio criminis potrebbe forse essere messa in dubbio qualora si riuscisse a dimostrare che il fatto abbia conservato rilevanza penale, senza soluzione di continuità, in quanto riconducibile alla modalità alternativa della condotta già presente al tempo del fatto e integrata dall'omessa astensione. 

Se invece il Parlamento dovesse convertire il decreto-legge con emendamenti, volti a ri-ampliare la portata applicativa dell’incriminazione (ad es., tornando a dare rilievo ai regolamenti e alle regole di condotta caratterizzate dall’esercizio di discrezionalità), verrebbe in rilievo l’art. 2, co. 6 c.p., nella versione risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dichiarata nel 1985 dalla Corte costituzionale (sent. n. 51. V., per tutti, G. Marinucci, E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., 2001, p. 284 s.): la parziale abolizione del reato non avrebbe effetto in relazione ai fatti pregressi (ai fatti, cioè, commessi prima del 17 luglio 2020, data di entrata in vigore del d.l. n. 76/2020) e interesserebbe solo i fatti c.d. concomitanti (cioè quelli commessi durante il periodo in cui il decreto-legge è rimasto in vigore, prima di essere convertito con emendamenti: una considerazione, quest’ultima, che lascia intravedere, addirittura, possibili effetti criminogeni del decreto-semplificazioni). Resterebbe peraltro il problema dei proscioglimenti pronunciati nel periodo di vigenza del decreto-legge, in relazione a fatti pregressi, con sentenze diventate definitive prima della conversione in legge con emendamenti che restituiscano al fatto rilevanza penale. Quale il rimedio processuale, in una simile evenienza? Forse nessuno.

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6. I complessi problemi di diritto intertemporale che pone, paradossalmente, il decreto-semplificazioni, conseguono a ben vedere a una discutibile scelta di fondo: quella di ricorrere al decreto-legge, anziché alla legge, per modificare una norma penale, per di più in assenza di un accordo tra le forze di maggioranza e all’interno del Consiglio dei Ministri. L’abuso d’ufficio è infatti stato approvato dal Consiglio dei Ministri, il 7 luglio scorso, con la formula “salvo intese”.

La vicenda della riforma dell’abuso d’ufficio suggerisce, in questa prospettiva, una più ampia riflessione. E’ infatti di questi giorni un forte richiamo alla centralità assegnata dalla Costituzione al Parlamento, nell’azione politico-normativa, dopo mesi in cui la decretazione d’urgenza, da parte del Governo, è diventata la regola, imposta dalla necessità e, appunto, dall’urgenza, di fronteggiare un’inedita emergenza. Si è trattato, secondo quanto prevede la Costituzione, di intervenire subito, per adottare misure varie – a partire da quelle preventive e di sostegno all’economia –, che i normali tempi dell’iter parlamentare non avrebbero consentito di adottare tempestivamente. Il richiamo alla centralità del Parlamento è venuto nei giorni scorsi addirittura dalla Presidente del Senato Casellati, nell’annunciare il voto in Senato sulla conversione in legge del Decreto-rilancio (d.l. n. 34/2020) e il correlato dibattito parlamentare sulla proroga dello stato di emergenza. In un’intervista al TG5, andata in onda sabato 11 luglio, la Presidente Casellati si è così espressa: "mi auguro che il voto sia l'inizio di una democrazia compiuta, perché in Parlamento e al Senato siamo ormai gli invisibili della Costituzione". Sono parole preoccupanti, pronunciate dalla seconda carica dello Stato, che certificano la crisi della legalità parlamentare, da tempo segnalata dagli studiosi, anche tra i penalisti. E’ una crisi che nasce da lontano – ben prima della pandemia – e rispetto alla quale, noto per inciso, la questione oggi di attualità – la proroga dello stato di emergenza – non mi sembra abbia particolare rilievo, al di là della polemica politica, considerato che il Codice della protezione civile (art. 24 d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1) attribuisce al Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente, il potere di deliberare e prorogare lo stato di emergenza.

E’ però vero che le parole della Presidente del Senato, al di là dell’occasione, manifestano un problema effettivo, acuito – ribadisco, ancor prima dell’emergenza coronavirus – da pratiche che hanno sempre più marginalizzato il Parlamento: l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza, in assenza di effettive ragioni di necessità e urgenza – è anche questo, a me pare, il caso della riforma dell’abuso d’ufficio – e l’eccessivo ricorso al voto di fiducia, che impedisce di fatto il dibattito parlamentare e la possibilità di emendare disegni di legge, compresi quelli d’iniziativa del Governo, anche per la conversione di decreti-legge.

Chi, come noi, segue e studia l’evoluzione del sistema penale, non può fare a meno di notare come la denunciata invisibilità del Parlamento ponga un serio problema di legittimità costituzionale tutte le volte in cui il decreto-legge è il veicolo normativo per introdurre o modificare norme incriminatrici. L’art. 25, co. 2 Cost., come è noto, assegna al Parlamento la scelta del se, cosa e come punire: il monopolio delle scelte politico-criminali, che devono essere adottate nella dialettica tra maggioranza e opposizione, all’esito del dibattito parlamentare. Orbene, anche chi non concepisca la riserva di legge in senso formale, e ammetta che il decreto-legge possa essere fonte del diritto penale, in situazioni di effettive necessità e urgenza, non può non guardare con seria preoccupazione a quel che è accaduto con la riforma del delitto di abuso d’ufficio, inserita, tra disposizioni eterogenee, nel c.d. decreto semplificazioni. Come ho ricordato, e come è stato ampiamente riportato dai media, la riforma è stata approvata “salvo intese” in occasione della riunione del Consiglio dei Ministri del 7 luglio. La pratica dell’approvazione “salvo intese” – sempre più frequente nell’ultimo decennio – è stata da ultimo autorevolmente denunciata da Sabino Cassese, in un’intervista al Messaggero relativa proprio al d.l. semplificazioni (v. anche, sul tema, l’intervista a Il dubbio di Francesco Clementi). Quella pratica marginalizza il ruolo del Consiglio dei Ministri e fa sì che i testi normativi non vengano presentati e approvati dall’organo collegiale: “ormai il Consiglio dei Ministri è diventato un organo di ratifica di decisioni prese altrove”. Salvo intese – con le parole del prof. Cassese – “vuol dire che non c’è accordo, che si raggiungerà successivamente, in negoziati tra le forze politiche, ma è grave anche che nel Consiglio dei Ministri non vengano veramente discussi i testi normativi, che sono preparati altrove, negli incontri tra rappresentanti dei partiti”. Ed è ancor più grave, mi sentirei di aggiungere, quando si tratta di mettere mano al codice penale. La riserva di legge in materia penale è messa in crisi non solo dalla invisibilità del Parlamento, ma anche da un Consiglio dei Ministri che approva “salvo intese” una riforma in materia penale. E non si tratta – si badi bene – di una approvazione salvo intese tecniche, che rimette ad altra sede la definizione di aspetti tecnici e di dettaglio. La nuova fisionomia dell’abuso d’ufficio non risulta dal dibattito parlamentare, come imporrebbe l’art. 25, co. 2 Cost., e non risulta nemmeno, come presuppone l'art. 77, co. 2 Cost., da una deliberazione collegiale del Consiglio dei Ministri che approvi un determinato testo normativo, che è diventato noto al pubblico solo al momento della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Che ciò sia compatibile con i principi costituzionali è lecito dubitare, a dir poco. Ed è a mio avviso un compito della dottrina, nel suo ruolo di coscienza critica, farlo notare.