* Testo preparato per il Convegno della Associazione tra gli studiosi del processo penale G. D. Pisapia, svoltosi a distanza il 27-28 novembre 2020 sul tema «L’immediatezza nel processo penale».
1. Profili della personalità del maestro: una lente bifocale per leggere la realtà. – Il ricordo di Delfino Siracusano che vi offro scaturisce da un lavoro di scavo nella memoria, fatto «con il cuore in mano», come si usa dire a Milano, e non con la penna tra le dita. È l’onda dei sentimenti a dominare quando si evoca la figura di un maestro al quale si è stati legati da una affettuosa devozione.
Per cercare di definirne compiutamente la personalità, userò tre chiavi di lettura che chiamerei «massime», tre aspetti del suo modo di accostarsi alla realtà definibili come canoni del suo vivere nel sociale.
La prima «massima» che mi sembra di poter scorgere nel suo credo è la seguente: «viene prima l’uomo e poi il suo sapere, tecnico, scientifico, artistico». Declinata in campo giuridico, suona sostanzialmente così: «prima l’uomo e poi il giurista». Ho avuto più volte occasione di sperimentare questo atteggiamento stando con lui o dialogando con lui. Se si parlava di una persona del mondo universitario o forense, egli prima esprimeva il suo giudizio sull’uomo e poi si pronunciava sul suo profilo professionale. Qualsiasi soggetto meritava per lui una considerazione sul piano della capacità di comunicare con gli altri e della condivisione dei valori fondamentali del vivere civile. Poi veniva la valutazione della sua cultura e della sua affidabilità scientifica o professionale.
Questa lente bifocale era per Delfino Siracusano non già una artificiosa scala di valori, ma un naturale approccio alle altre persone. Per lui bisognava capire come è veramente l’interlocutore nel suo foro interno e poi prestare attenzione al suo modo di collocarsi nel campo dei diversi saperi.
Una cosa è comunque certa e sfugge alle inevitabili approssimazioni del ritratto psicologico. I suoi giudizi sugli altri erano quasi sempre allineati ai parametri dettati da una innata benevolenza. Non l’ho mai sentito esprimere valutazioni pungenti su questo o quel collega, né fare riserve sul successo professionale di un avvocato penalista.
Questo aspetto della sua personalità può essere ancor meglio compreso alla luce della sua parentela con una massima medioevale che suona così: «omnis praesumitur bonus, qui non probetur malus». È un po’ un antecedente della presunzione di innocenza che costituisce la pietra angolare della nostra disciplina. Ed è proprio questo canone ad offrire il criterio valutativo insito nella personalità di Delfino Siracusano.
Anche quando si manifestavano contrasti tra alcuni di noi nel mondo della procedura penale, ne soffriva. Quante volte mi ha frenato nel discorso che facevo lamentando sgarbi o scorrettezze di altri. Delfino privilegiava il dialogo e la mano tesa. Non perché temesse lo scontro, non per debolezza o ignavia. Il suo temperamento era così: contro la disgregazione e per la coesione.
Del resto, la sua fiducia nel principio di uguaglianza sul piano della affidabilità degli homines novi lo induceva anche ad un atteggiamento parallelo nel modo di presentare se stesso agli altri. È stato il meno baronale di tutti i processualpenalistici della sua generazione. Il suo modo semplice e senza paludamenti di offrirsi agli altri lo faceva percepire come lo studioso autorevole con il minor tasso di «professoralità». Era felice se poteva parlare anche con i più giovani e conoscere i temi della loro ricerca. E, appunto, non faceva distinzioni in base alle “stellette” dei docenti universitari. Non gli interessava il grado della posizione accademica, ma la qualità della ricerca. Né aveva qualche interesse per i grandi o piccoli giochi degli strateghi della lottizzazione universitaria, desiderosi di piantare bandierine di un certo colore nelle diverse sedi.
2. Il suo culto per l’aristocrazia delle intelligenze vivaci. – La seconda «massima» che contribuisce a far intendere la personalità di Delfino Siracusano si può riassumere così: «vanno preferite le persone dotate di una intelligenza vivace e brillante».
Era questa una eccezione al principio dettato dalla sua innata benevolenza, destinata a sfociare in un egualitarismo in bonam partem. Delfino Siracusano era preso da una irresistibile fascinazione: i soggetti dotati di creatività e prontezza nel capire i problemi al punto da saper prospettare subito ragionevoli soluzioni appartengono ad una vera aristocrazia. L’intelligenza brillante nella forma e nella sostanza era per lui l’apice nella scala dei valori riguardanti la categoria degli uomini di cultura.
Forse questa predilezione per le menti scattanti gli veniva dall’esercizio della professione di avvocato. La prontezza nella trattazione delle questioni è connaturale alla pratica della udienza penale dove spesso si deve prendere posizione subito su un problema sorto nel dibattimento, senza poter attingere a tutto il sapere che è custodito nella giurisprudenza e nei lavori degli studiosi.
Sotto questo profilo, il maestro aveva una qualità agli antipodi di quella del giurista erudito la cui bravura si misura non sui tempi di lavoro, ma sulla quantità di informazioni, raccolte nelle lunghe e laboriose ricerche condotte sul materiale bibliografico. Sono questi gli studiosi che amano citare ed essere citati.
Delfino Siracusano, invece, non ha mai fatto sfoggio di citazioni nel suo argomentare, anche se era uno studioso coltissimo che aveva coltivato pure gli studi di procedura civile e di diritto penale sostanziale. Si può dire che egli rappresenti, dal punto di vista del temperamento, l’opposto di Franco Cordero la cui sconfinata erudizione, ostentata in tutti i suoi scritti, contribuiva ad alimentare il mito dell’intellettuale extra ordinem con cui era difficile dialogare. Si rischiava di essere soffocati dal peso della sua straripante biblioteca. Al contrario, era naturale per Delfino Siracusano far percepire agli interlocutori un messaggio di open door, vale a dire di offerta di un canale aperto da imboccare per ragionare insieme sulle patologie e sul futuro del nostro processo penale.
3. La procedura penale vivente e la prova come colonna portante del processo. – La terza «massima», intesa come si è detto quale regola dell’agire nel sociale, che aiuta a capire la fisionomia del maestro è quella che si riferisce al suo credo di processualpenalista. E si riassume nel principio secondo cui il processo penale ha una funzione di garanzia la cui effettività è imperniata sulla prova, che ne costituisce la colonna portante.
Per Delfino Siracusano la procedura penale era uno dei grandi amori della sua vita. Lo si capiva da come ne parlava, per dare la giusta importanza alle questioni di fondo: la scelta del rito accusatorio; la difesa, dopo il 1989, del nuovo modello di fronte alla svolta conservatrice della Corte costituzionale; l’avversione al doppio binario nella tutela delle garanzie processuali.
Il maestro credeva nell’impegno ad investire nelle nuove generazioni e nel ruolo della nostra Associazione come luogo di formazione e di crescita della cultura processuale. Del resto proprio lui che concepiva come una missione il consolidamento del dialogo e la ricerca della coesione tra gli studiosi della materia non poteva non avere una naturale propensione a irrobustire le fondamenta dell’edificio associativo.
Non bisogna dimenticare che la passione per gli studi sul processo penale era maturata in lui e si era sviluppata senza la sollecitazione di un maestro. E forse questo suo essere privo di una paternità scientifica ha contribuito a rendere più che mai forte il suo sentimento di appartenenza ad una famiglia, quella dei processualpenalisti, che del resto egli stesso aveva concorso a formare.
A Torino Giovanni Conso, pur non avendo un processualista alle sue spalle, aveva però potuto contare sull’inserimento nella scuola di un grande maestro del diritto penale come Francesco Antolisei. E, analogamente, Franco Cordero, che pure non veniva dalla cerchia di uno studioso di procedura penale, aveva però avuto per un certo periodo stretti rapporti professionali e scientifici con un autorevolissimo studioso del processo civile come Enrico Allorio. Delfino Siracusano invece aveva mosso i primi passi all’Università di Catania come assistente volontario del prof. Scarano, ordinario di diritto penale, che non aveva certo uno standing accademico paragonabile a quello dei mentori di Conso e Cordero.
Il giovane Siracusano non ha però mai pensato di imbarcarsi nella battaglia contro il “cenerentolismo”, vale a dire contro la ghettizzazione degli studi sul processo penale che, negli anni del dopoguerra, venivano generalmente bollati come lavori a basso contenuto scientifico. Questa ribellione contro l’emarginazione decretata nei confronti della nostra disciplina, vestita con i panni della sorella povera rispetto al diritto penale, aveva condotto Giovanni Conso a vivere il rapporto con i penalisti in una visuale distorta che alimentava un complesso di inferiorità, da superare facendo crescere sempre più la autonomia della procedura penale, anche a costo di creare un sempre più profondo fossato tra il diritto sostanziale e quello processuale.
Delfino Siracusano ha seguito la strada opposta. Invece di enfatizzare la separazione, ha cercato di aprire un ponte verso il mondo accademico dei penalisti per superare ogni steccato tra le due materie. Probabilmente questa opzione non è dovuto ad una preordinata strategia e va spiegata alla luce di una genuina convinzione del maestro il quale avvertiva che sia nella esperienza professionale forense, sia in certi settori della procedura penale, come quello del diritto delle prove, la reductio ad unum delle due discipline è del tutto giustificata.
In questa prospettiva si spiega bene la scelta dell’argomento della sua prima monografia. Lo Studio sulla prova delle esimenti nel processo penale (1959) mette in evidenza la autentica fisionomia culturale del suo autore. Il giovane studioso vuole capire il giudizio penale nel suo momento apicale in cui l’intreccio tra diritto penale e processo è al massimo livello e la prova assume la sua più alta funzione di strumento valutativo necessario ai fini del convincimento.
Da qui viene fuori la cifra identificativa del suo lavoro di giurista come sarà confermato dai contributi successivi in tema di struttura della motivazione e con riguardo ai rapporti tra cassazione e giudizio di rinvio. Il filo rosso della sua ricerca è quello che mira ad esplorare i nessi logici e giuridici tra i mezzi di prova e la formazione del giudizio in fatto del giudice.
Si può dunque ben dire che il pensiero giuridico di Delfino Siracusano è più allineato al messaggio carneluttiano del «tornare al giudizio» che non al monito di Giovanni Conso che invitava a «tornare alla procedura» invocandone l’autonomia rispetto al diritto penale sostanziale ma al tempo stesso rendendola estranea ai temi più raccordati a quest’ultimo come la prova e il convincimento del giudice.
Anche all’interno della Commissione ministeriale per il nuovo codice, il maestro ha portato il contributo della sua straordinaria capacità di modellare gli istituti del processo penale per soddisfare le reali esigenze di accertamento del fatto, nel pieno rispetto delle garanzie che consentono all’imputato di strappare alla parte pubblica e al giudice il monopolio della prova.
In lui c’era l’uomo che conosceva la prassi e la trasferiva al giurista in un dialogo costante e fruttuoso.