1. Premessa – Nell’ambito della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro legata all’ emergenza da Covid-19, un profilo particolarmente problematico, foriero di preoccupazioni nel mondo imprenditoriale, è quello della potenziale responsabilità penale del datore di lavoro in caso di contagio del lavoratore avvenuto non solo presso il luogo di lavoro, ma anche nel corso degli spostamenti effettuati per recarsi presso la sede lavorativa e/o per raggiungere la propria abitazione.
Sul punto, risulta chiarissimo il dettato di cui all’art. 42, comma 2, del D.L. 17.3.2020, n. 18 (c.d. “Decreto Cura Italia”)[1], che fa rientrare i contagi da Covid-19 avvenuti “in occasione di lavoro” nell’ambito degli infortuni sul lavoro indennizzabili dall’INAIL.
Proprio l’utilizzo della locuzione “in occasione di lavoro” lascia intendere un ambito di rilevanza più esteso dell’infortunio sul lavoro (quanto meno sotto il profilo dell’indennizzabilità), che lo astrae dal mero svolgimento dell’attività lavorativa e lo ricollega anche alle attività ad essa strumentali o addirittura connesse a quelle strumentali[2]: la medesima espressione “in occasione di lavoro”, infatti, si rinviene negli artt. 2 e 210 del DPR 1124 del 1965, avente ad oggetto il Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, che ricomprendono – tra le fattispecie indennizzabili – “tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni”.
L’ambito di rilevanza sotto il profilo assicurativo degli infortuni sul lavoro è ulteriormente specificato dall’art. 2, comma 3 del citato DPR n. 1124 del 1965 che, con una disposizione ripresa in modo pedissequo dall’art. 210, comma 3 per i lavoratori del settore agricolo, prevede espressamente che “Salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”.
La norma cristallizza, quindi, la risarcibilità dell’infortunio c.d. “in itinere”, verificatosi cioè lungo il percorso di andata o di ritorno dal luogo di lavoro e di spostamento da un luogo di lavoro all’altro o lungo il percorso di andata o di ritorno dal luogo di consumazione del pasto a quello di lavoro.
Dall’indennizzabilità di un infortunio non consegue automaticamente una responsabilità (né civile, né tantomeno penale) del datore di lavoro; tale principio, per quanto ovvio, è stato comunque ribadito anche dall’INAIL, che, con la comunicazione del 15.5.2020, ha chiarito che “non si possono confondere… i criteri applicati dall’Inail per il riconoscimento di un indennizzo a un lavoratore infortunato con quelli totalmente diversi che valgono in sede penale e civile, dove l’eventuale responsabilità del datore di lavoro deve essere rigorosamente accertata attraverso la prova del dolo o della colpa”[3].
Ciò nondimeno, ci si può interrogare, da una prospettiva strettamente penalistica, sui presupposti e le condizioni che consentano di muovere un rimprovero al datore di lavoro nel caso in cui abbia luogo un infortunio “in occasione di lavoro” – quindi anche un infortunio in itinere – e verificare se i medesimi presupposti e condizioni possano trovare applicazione anche nel caso in cui un lavoratore sia stato contagiato dal Covid-19 nel tragitto che percorre per recarsi sul luogo di lavoro o per tornare presso la propria abitazione.
2. L’infortunio in itinere in ambito penale. – Passando ad affrontare il tema della possibile rilevanza penale dell’infortunio in itinere, non possono che richiamarsi sinteticamente, da un lato, i riferimenti normativi e, dall’altro, gli approdi giurisprudenziali che disegnano i limiti della responsabilità penale del datore di lavoro.
Sotto il primo profilo, le norme che devono essere prese come riferimento sono gli artt. 589, comma 2 e 590, comma 3 c.p., che qualificano come fattispecie aggravate rispettivamente l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime “commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”: per aversi responsabilità in ambito penale del datore di lavoro, pertanto, occorrerà dimostrare la sussistenza di un nesso causale tra l’“evento-infortunio” e la “omissione colposa” delle cautele previste per la tutela della sicurezza dei lavoratori.
Proprio con riferimento a questi aspetti (nesso di causa e condotta colposa), assumono rilievo i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
In relazione al nesso di causalità, la Suprema Corte ha individuato come unica circostanza esimente per il datore di lavoro il comportamento abnorme del lavoratore: tale parametro, peraltro, nel tempo ha assunto caratteristiche sempre più puntuali, tanto da portare la Suprema Corte ad affermare che “il comportamento del lavoratore può rilevare quale limite alla responsabilità del datore di lavoro solo quando risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, sicché tra gli obblighi del datore di lavoro è ricompreso il dovere di prevenire l'eventuale comportamento negligente o imprudente del lavoratore” (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 50000 del 2018)[4].
Sotto il profilo più strettamente soggettivo, invece, il comportamento esigibile a carico del datore di lavoro ha acquisito caratteristiche di sempre maggiore ampiezza: la giurisprudenza di legittimità, infatti, prendendo le mosse dall’art. 2087 c.c., secondo cui “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, è giunta ad affermare che – pur non potendosi pretendere da parte del datore di lavoro la creazione di un ambiente lavorativo “a rischio zero” che sia volto a prevenire anche eventi rischiosi impensabili – questi “debba predisporre tutte quelle misure che nel caso concreto e rispetto a quella specifica lavorazione risultino idonee a prevenire i rischi tecnici dell'attività posta in essere”. In altri termini, il datore di lavoro viene riconosciuto come “titolare di una posizione di garanzia e, pertanto, ha l’obbligo, non solo di disporre le misure antiinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, perché garante dell'incolumità fisica di questi ultimi” (cfr. Cass. n. 50000 del 2018, cit.).
Applicando tali principi all’istituto dell’infortunio in itinere, è certamente possibile escludere la responsabilità penale del datore di lavoro nei casi in cui l’evento infortunistico si verifichi per cause del tutto estranee alla sua posizione di garanzia (ferma restando la indennizzabilità dell’infortunio da parte dell’INAIL, al ricorrere di tutte le condizioni previste dal DPR 1124 del 1965): ci si riferisce, in particolare, alle ipotesi in cui l’occasionalità dell’infortunio rispetto al rapporto di lavoro non rientra nell’ambito in cui il datore di lavoro deve esercitare la sua vigilanza sull’attività del lavoratore e, quindi, l’impedimento dell’evento fuoriesce dalla posizione di garanzia del primo rispetto al secondo.
È il caso, ad esempio, del lavoratore che venga coinvolto in un incidente stradale sul mezzo pubblico che lo conduce al lavoro: nessuna possibilità di influenza, infatti, ha il datore di lavoro sulla scelta da parte del lavoratore del mezzo con cui recarsi a svolgere la propria attività.
Diverso, invece, è il caso del lavoratore che – alla guida di un veicolo aziendale – subisca un infortunio a causa di un difetto di manutenzione del mezzo: con riferimento a tale ipotesi, la Suprema Corte ha affermato che “Il ruolo di datore di lavoro ricoperto dall’imputato gli imponeva di fornire al proprio lavoratore attrezzature da lavoro (qual è certamente il veicolo per il suo conducente) in condizioni di efficienza e comunque tali da far si che esse non costituissero pericolo per la salute e la sicurezza dei lavoratori” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 37747 del 2013). In particolare, la Cassazione ha escluso qualunque rilevanza sia del fatto che il lavoratore fosse a conoscenza del difetto del mezzo sia del fatto che l’incidente si era verificato mentre il mezzo viaggiava ad una velocità non adeguata alle condizioni della strada.
3. Infortunio in itinere e contagio da Covid-19. – I menzionati principi trovano applicazione anche nel caso specifico del contagio da Covid-19 avvenuto sul mezzo che conduce il lavoratore al proprio luogo di lavoro, caso con riferimento al quale devono essere presi in considerazione anche gli specifici parametri comportamentali elaborati a livello normativo e convenzionale: infatti, dapprima il DPCM del 22.3.2020 ha previsto l’applicazione del Protocollo condiviso di regolamentazione sottoscritto il 14.3.2020 tra le parti sociali e, successivamente, il DPCM del 26.4.2020 ha previsto l’applicazione del predetto Protocollo, come modificato il 24.4.2020.
Sul punto, appare in primo luogo peculiare l’obbligatorietà dell’applicazione delle norme ivi contenute per la prosecuzione delle attività di cui era consentito lo svolgimento durante il c.d. “lockdown” o per la ripresa delle attività precedentemente sospese: valga per tutti il disposto dell’art. 2, comma 6 del DPCM del 26.4.2020, secondo cui “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all’allegato 6, nonché per i rispettivi ambiti di competenza il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministero delle infrastrutture e dei traporti, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all’allegato 7, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all’allegato 8”[5]. Tale prescrizione normativa è provvista di autonoma sanzione allo stesso art. 2, comma 6 del DPCM del 26.4.2020: “La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.
Il Protocollo di cui all’allegato 6, oltre a ribadire il “massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, già previsto dal Protocollo del 14 marzo 2020, afferma inoltre espressamente che “È essenziale evitare aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa (commuting), con particolare riferimento all’utilizzo del trasporto pubblico. Per tale motivo andrebbero incentivate forme di trasporto verso il luogo di lavoro con adeguato distanziamento fra i viaggiatori e favorendo l’uso del mezzo privato o di navette”[6].
Ancora, il Protocollo di cui all’Allegato 7, al paragrafo 2, aggiunge che “Ove sia presente un servizio di trasporto organizzato dal datore di lavoro per raggiungere il cantiere, va garantita e rispettata la sicurezza dei lavoratori lungo ogni spostamento, se del caso facendo ricorso a un numero maggiore di mezzi e/o prevedendo ingressi ed uscite dal cantiere con orari flessibili e scaglionati oppure riconoscendo aumenti temporanei delle indennità specifiche, come da contrattazione collettiva, per l’uso del mezzo proprio. In ogni caso, occorre assicurare la pulizia con specifici detergenti delle maniglie di portiere e finestrini, volante, cambio, etc mantenendo una corretta aerazione all’interno del veicolo”.
Ebbene, dalle prescrizioni sopra ricordate discendono indicazioni cautelari (più o meno stringenti) a carico del datore di lavoro, che dovrà quantomeno adoperarsi per favorire l’uso del mezzo privato da parte dei lavoratori o per mantenere in modalità di lavoro agile i lavoratori che sono costretti ad utilizzare i mezzi pubblici per recarsi al lavoro e che non hanno possibilità di accedere a sistemi di trasporto alternativi; si tratta di prescrizioni che, ove non rispettate, potrebbero integrare – a carico del datore di lavoro – quei profili di colpa rilevanti ai fini della sua posizione di garanzia.
Individuato il “comportamento-modello” che ci si attende dal datore di lavoro (e dunque i profili della sua potenziale condotta colposa), occorre ulteriormente interrogarsi sul tema della sussistenza del nesso di causa tra l’utilizzo del mezzo di trasporto da parte del lavoratore e il verificarsi dell’“evento-contagio”: è proprio questo l’aspetto più problematico, sotto il profilo probatorio, nella prospettiva dell’accertamento della responsabilità penale del datore. Al di là di casi limite e prevalentemente di scuola (quale, ad esempio, quello del lavoratore che con certezza non ha avuto contatti con altri pazienti contagiati e che ha lasciato la propria abitazione unicamente per recarsi al lavoro o quello di più lavoratori contagiati che non hanno avuto tra loro contatti se non sulla navetta aziendale, poi risultata non correttamente sanificata), sarà infatti molto difficile – se non ‘diabolico’ - dimostrare in modo univoco e al di là di ogni ragionevole dubbio[7] che il contagio del lavoratore sia avvenuto proprio “in occasione” dell’utilizzo del mezzo di cui si è servito per recarsi al lavoro.
Conclusivamente, possiamo convenire che in tema di contagio da Covid-19 e infortunio in itinere la responsabilità penale del datore di lavoro si presenta come ipotesi particolarmente problematica da accertare, alla luce dell’onere probatorio al quale sarebbe chiamata ad adempiere la Pubblica Accusa: in primo luogo, dovrà dimostrare che il datore di lavoro non abbia adottato tutte le cautele necessarie per tutelare i lavoratori, evitando agli stessi “aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa”[8]; in secondo luogo, che l’avvenuto contagio sia univocamente riconducibile all’utilizzo, da parte del lavoratore, del mezzo di trasporto (pubblico o privato) a sua disposizione per recarsi in azienda.
In assenza della prova relativa a questo secondo aspetto, sarà impossibile riconoscere la responsabilità del datore di lavoro ai sensi degli artt. 589 o 590 c.p., anche in presenza di una sua eventuale acclarata negligenza.
Per completezza, è opportuno poi ricordare che in caso di infortuni occorsi “in occasione del lavoro” l’Autorità Giudiziaria può applicare nei confronti del datore di lavoro le fattispecie contravvenzionali previste dall’art. 55 del D. Lgs. 81 del 2008. Sul punto, occorre fare una distinzione tra le contravvenzioni che puniscono le violazioni del datore di lavoro riferibili sic et simpliciter all’ambito della sicurezza, quelle che sanzionano violazioni correlate a rischi specifici connessi all’attività lavorativa e quelle che rendono penalmente perseguibili le violazioni legate all’aggiornamento e alle modalità di redazione del Documento di Valutazione dei Rischi.
La prima categoria di contravvenzioni sembra poter venire in considerazione nel caso del contagio verificatosi durante il percorso che conduce il lavoratore dalla propria abitazione al luogo di lavoro: si pensi, ad esempio, alla fattispecie di cui all'art. 55, comma 5, lett. c) D. Lgs. 81 del 2008, che punisce con “l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.340,18 a 5.807,48 euro” la violazione dell'art. 18, lett. f), cioè l’omessa richiesta da parte del datore di lavoro di”osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione”. La violazione de qua potrebbe essere ravvisata nel caso in cui il datore di lavoro, pur avendo assunto delle specifiche previsioni che tutelino il lavoratore nel percorso casa-lavoro e viceversa (i.e., stabilendo dei rimborsi spesa nel caso di utilizzo dell’auto personale o mettendo a disposizione una navetta aziendale), non abbia richiesto espressamente l’osservanza di tali previsioni, dandone specifica pubblicità ai lavoratori.
Si pensi, ancora, alla contravvenzione di cui all’art. 55, comma 5, lett. d) D. Lgs. 81 del 2008, che punisce “con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.675,23 a 6.700,94 euro” la violazione dell’art. 18, lett. d) ossia la mancata fornitura da parte del datore di lavoro “ai lavoratori [de]i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente”. Tale violazione potrebbe essere rinvenuta nella condotta del datore di lavoro che, pur avendo fornito ai lavoratori dispositivi di protezione individuale idonei a prevenire il contagio sul luogo di lavoro, non estenda la sua condotta preventiva alla tutela dei suoi dipendenti negli spostamenti dalla propria abitazione al luogo di lavoro (e viceversa): un esempio concreto potrebbe essere quello del datore di lavoro che non metta a disposizione dei lavoratori mascherine da utilizzare non (solo) nell’ambiente lavorativo, ma specificamente all’esterno (appunto, nel percorso casa-lavoro e viceversa).
Non sembrano, invece, poter avere rilievo le fattispecie contravvenzionali che sanzionano violazioni collegate a rischi specifici connessi all’attività lavorativa[9], poiché - fatte salve determinate attività[10] - il rischio biologico di contagio da COVID-19 non può essere ascritto al novero dei rischi specifici da tenere in considerazione ai fini della tutela della sicurezza dei lavoratori, con riferimento alla prevenzione del contagio nel tragitto casa-lavoro (e viceversa).
In questa prospettiva, da ultimo, mette conto evidenziare altresì quelle fattispecie contravvenzionali che rendono penalmente perseguibili le violazioni legate all’aggiornamento e alle modalità di redazione del Documento di Valutazione dei Rischi (c.d. “DVR”), la cui applicabilità presuppone il superamento di un nodo interpretativo a monte di tutta la normativa in materia di tutela della sicurezza con riferimento al contagio da COVID-19. In altre parole, occorre comprendere se l’emergenza sanitaria che ha determinato l’adozione delle norme oggetto delle correnti riflessioni implichi o meno la necessità di procedere ad un aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi[11]. Ove si pervenga alla conclusione della necessità di procedere al suddetto aggiornamento, potrebbero trovare applicazione:
a) la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 55, comma 3, D. Lgs. 81 del 2008, secondo cui “È punito con l’ammenda da 2.233,64 a 4.467,29 euro il datore di lavoro che adotta il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [i.e., il DVR] … senza le modalità di cui all’articolo 29, commi 2 e 3”; in particolare, l’art. 29, comma 3 D. Lgs. 81 del 2008 prevede la necessità di aggiornare il DVR “in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità”. Pertanto, ove si ritenga necessario l’aggiornamento del DVR con la previsione del rischio biologico legato al contagio da COVID-19 e il datore di lavoro non proceda a tale aggiornamento, questi potrebbe essere ritenuto sanzionabile penalmente con la suddetta contravvenzione;
b) la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 55, comma 4 D. Lgs. 81 del 2008, secondo cui “È punito con l’ammenda da 1.116,82 a 2.233,64 euro il datore di lavoro che adotta il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [i.e., il DVR], in assenza degli elementi di cui all’articolo 28, comma 2, lettere a), primo periodo, ed f)”, ossia in assenza di “una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa”; ove quindi, l’aggiornamento del DVR sia intervenuto, ma manchi di tale requisito, ne potrà derivare una responsabilità penale del datore di lavoro.
[1] Così l’art. 42, comma 2: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”.
[2] Si pensi, ad esempio, all’infortunio avvenuto nello svolgimento dell’attività sindacale, cfr. Cass., n. 13882 del 2016.
[3] Nello stesso senso, si veda anche la circolare n. 22 del 2020 dell’INAIL, secondo cui “Non possono … confondersi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative…”.
[4] In senso conforme, cfr. Cass. Pen., Sez. IV, n. 15124 del 2016; Cass. Pen., Sez. IV, n. 37986 del 2012; Cass. Pen., Sez. IV, n. 23292 del 2011.
[5] Il principio è stato da ultimo ribadito dall’art. 29-bis della L. 40 del 2020, rubricato “Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19”, che testualmente afferma: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
[6] In termini analoghi si esprime anche il Protocollo di cui all’Allegato 7.
[7] Sulla necessità di dimostrare con certezza – ai fini della sussistenza del reato colposo – il nesso di causalità tra la condotta oggetto di contestazione e l’evento verificatosi, si richiama la celebre sentenza Franzese delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, secondo cui “In tema di reato colposo omissivo improprio, l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell'omissione dell'agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano l'esito assolutorio del giudizio” (cfr. Cass., Sez. Un., n. 30328 del 2002). Il principio è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità successiva, anche con pronunce recenti: si vedano, per tutte, Cass., Sez. IV, n. 46392 del 2018; Cass., Sez. IV, n. 50005 del 2017; nonché Cass., Sez. IV, n. 43786 del 2010. Si ritiene, altresì, utile ricordare che con la riforma attuata dalla legge n. 46 del 2006, il canone dell’assenza di ogni ragionevole dubbio per pronunciare la condanna dell’imputato è stato cristallizzato nel corpus normativo all’interno dell’art. 533, comma 1 c.p.p.
[8] Si pensi, a titolo esemplificativo, alla disposizione del Protocollo del 24.4.2020 che incentiva l’utilizzo dei mezzi di trasporto privati anziché di quelli pubblici, al fine di ridurre la possibilità di contagio.
[9] Si fa riferimento alla fattispecie contravvenzionale dell'art. 55, comma 5, lett. c) D. Lgs. 81 del 2008, che punisce con "l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.340,18 a 5.807,48 euro" la violazione dell'art. 18, lett. e), ossia l'omessa adozione da parte del datore di lavoro delle "misure appropriate affinchè soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico", o dell'art. 36, comma 2 lett. a), ossia alla mancata adeguata informazione da parte del datore di lavoro a ciascun lavoratore "sui rischi specifici cui è esposto in relazione all'attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia".
[10] È il caso, ad esempio, del personale medico e paramedico delle strutture ospedaliere.
[11] Il tema della necessità di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi è stato affrontato da R. Guariniello, La Sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus”, Wolters Kluwer Italia, 2020, che conclude nel senso della doverosità dell’aggiornamento.