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09 Novembre 2022


La chiusura dei porti alle navi umanitarie nel diritto internazionale: diritti ed obblighi di Stati e capitani


1. Il dovere di prestare assistenza a chi si trovi in pericolo in mare rappresenta un’antica tradizione, un obbligo morale e giuridico, ed una norma consuetudinaria di diritto internazionale, da tempo codificata in numerosi strumenti giuridici vincolanti (Papanicolopulu, 2016). Tale dovere è imposto in primo luogo al capitano di una nave che si trovi ad assistere ad una situazione di distress. Difatti, la Convenzione SOLAS - acronimo di Safety of Life at Sea - impone direttamente al capitano di una nave l’obbligo di prestare soccorso a chiunque si trovi in difficoltà in mare, a patto che questo non comporti una situazione di pericolo per le persone a bordo della nave soccorritrice (Capitolo V, Regolamento 33 (1)).

 

2.Tuttavia, anche gli Stati sono destinatari di obblighi. Nel campo del diritto internazionale del mare e del diritto SAR (acronimo di Search and Rescue, ossia ricerca e soccorso), difatti, gli Stati hanno due obblighi fondamentali: per quel che riguarda gli Stati costieri, quello relativo alla costituzione ed al mantenimento di adeguate strutture di ricerca e soccorso al largo delle proprie coste, integrato dal dovere di collaborare con le organizzazioni SAR di nazioni adiacenti, anche per mezzo di accordi regionali, e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso con gli Stati vicini (Articolo 98, para 2, Convenzione UNCLOS); per quel che concerne gli Stati di bandiera, invece, il dovere di prescrivere ai comandanti delle navi battenti la propria bandiera di soccorrere le persone che si trovino in pericolo in mare, indipendentemente dalla loro nazionalità (Articolo 98, para 1, Convenzione UNCLOS). Nel sistema giuridico italiano, tale obbligo è previsto dall’Articolo 490 del codice della navigazione, che stabilisce che “quando la nave […] è del tutto incapace di manovrare, il comandante della nave soccorritrice è tenuto a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo”. Sempre lo stesso codice, all’Articolo 1158, stabilisce la misura della reclusione fino a due anni in caso di omissione di soccorso.

È inoltre importante ricordare che la norma sull’obbligo di soccorso, ormai parte del diritto consuetudinario internazionale, trova applicazione nel sistema giuridico italiano per mezzo del rinvio operato dall’Articolo 10 della Costituzione.

Recentemente, tuttavia, il dovere di salvataggio ed i suoi corollari, come il dovere di sbarcare le persone soccorse in un porto sicuro, sono stati messi in discussione da numerosi governi Europei, che mirano a liberarsi dalla responsabilità dell’accoglimento dei migranti per mezzo di discutibili interpretazioni della normativa internazionale in vigore. L’ultimo, celebre caso riguarda le navi ONG Geo Barents, Humanity I, ed Ocean Viking, bloccate fuori dalle acque territoriali italiane sulla base di un decreto interministeriale adottato dai ministri di interno, difesa, e delle infrastrutture e dei trasporti.

 

3.I fatti. Tra fine ottobre ed inizio novembre 2022, le navi Geo Barents di Medici Senza Frontiere, battente bandiera norvegese, Humanity 1, della ONG Sos Humanity e battente bandiera tedesca, Ocean Viking, operata dalla ONG Sos Mediterranée e battente bandiera norvegese hanno soccorso rispettivamente 572, 179, e 234, migranti al largo delle coste della Libia. Circa 400 migranti sono stati invece salvati nel mar Ionio dalla nave Diciotti della guardia costiera italiana. È interessante sottolineare, infatti, che a fine ottobre sono sbarcate a Crotone circa mille persone, in gran parte soccorse dalla nave Diciotti e da varie unità della Guardia di Finanza.

A seguito delle operazioni di soccorso, le navi delle ONG hanno inviato ripetute richieste per un porto di sbarco, senza ricevere risposta da nessuno dei governi ai quali tali richieste sono state dirette. In particolare, Sos Mediterranée ha richiesto l’intervento di Grecia, Spagna e Francia per ottenere l’indicazione di un porto sicuro per la sua nave, dopo aver inviato, invano, la stessa richiesta ai Centri di coordinamento del soccorso marittimo di Malta ed Italia. In seconda istanza, la Ocean Viking ha richiesto ai governi di Francia, Spagna e Grecia un’azione diplomatica per riuscire a sbloccare la situazione di stallo che si è venuta a creare a largo delle coste italiane. Nel corso della giornata dell’8 novembre, infine, la Ocean Viking ha ottenuto l’indicazione di un porto di sbarco in Francia.

Il governo italiano ha risposto alle richieste di sbarco emanando un decreto interministeriale con cui impone alle ONG ferme davanti al porto di Catania di sostare presso tale porto solo per il tempo strettamente necessario allo sbarco dei naufraghi più vulnerabili. Difatti, come anticipato, il decreto interministeriale del 4 novembre, firmato dai Ministri dell’interno, dei trasporti e della mobilità sostenibile e della difesa, vieta alla nave Humanity 1, della ONG Sos Humanity, di “sostare nelle acque territoriali italiane…oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed in precarie condizioni di salute”. Analogo decreto è stato adottato la sera del 6 novembre con riferimento alla nave Geo Barents della ONG Medici Senza Frontiere.

 

4. Com’è noto, il governo italiano richiede che i migranti salvati in acque internazionali facciano domanda di protezione internazionale a bordo delle navi umanitarie, così da radicare la responsabilità per l’accoglimento o il respingimento della domanda d’asilo in capo agli stati di bandiera delle navi in oggetto. In questo modo, in base alla posizione del governo italiano, l’Italia potrebbe concedere un porto di sbarco, per poi inviare i richiedenti asilo nel paese Europeo che si è dichiarato disponibile a riceverli. Questa posizione si basa sull’ormai noto Regolamento di Dublino III, il cui Articolo 13 attribuisce la competenza ad esaminare la domanda di protezione internazionale allo Stato membro la cui frontiera è stata varcata illegalmente dal richiedente in provenienza da un paese terzo. Sulla base di una lettura combinata di tale disposizione e dell’Articolo 91 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che stabilisce che le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui battono bandiera, gli stati costieri, in particolare l’Italia, sostengono che la competenza ad esaminare le richieste d’asilo dei migranti salvati nelle acque internazionali tra Italia e Libia spetti ai “flag States”, gli Stati di bandiera delle navi soccorritrici.

Tuttavia, la decisione di respingere i migranti soccorsi dalle navi ONG ed imporre loro di proporre domanda di protezioni internazionale ai “flag States” potrebbe porre l’Italia in violazione dei propri obblighi internazionali, così come contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come ricordato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza emessa nel caso Sharifi c. Italia e Grecia (ricorso n.16643/09), infatti, il mancato accesso alla procedura d’asilo o a qualsiasi altro rimedio legale all’interno del porto di attracco (nel caso di specie si trattava del porto di Ancona) configura una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (che prevede il divieto di respingimenti collettivi). La Corte osservava infatti come, all’interno del porto di Ancona, i ricorrenti fossero stati riconsegnati ai capitani dei ferry-boat da cui erano sbarcati, senza aver avuto accesso ad un interprete o a chiunque potesse fornire loro informazioni relativamente alla richiesta di protezione internazionale ed alla relativa procedura (para 242). La Corte evidenziava dunque come ci fosse un chiaro nesso tra le espulsioni collettive dei ricorrenti ed il fatto che in tal modo era stato impedito loro di fare domanda di protezione internazionale. Pertanto, la Corte EDU riteneva importante sottolineare che il sistema di Dublino deve essere applicato in modo compatibile con la Convenzione e che nessuna forma di respingimento o di rimpatrio collettivo ed indiscriminato potrebbe essere giustificata con riferimento a tale sistema. Risulta quasi superfluo, a questo punto, evidenziare come un eventuale respingimento dei naufraghi rimasti sulle navi delle ONG si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ed esporrebbe l’Italia al pericolo di nuove pronunce di condanna, così come successo nel 2012 con l’ormai celebre caso Hirsi Jamaa c. Italia.

 

5. Inoltre, la posizione del governo italiano incontra altri limiti, che parrebbero militare contro la possibilità che i migranti soccorsi dalle navi umanitarie presentino domanda di asilo direttamente a bordo di tali imbarcazioni. Tali limiti fanno riferimento alla posizione del comandante della nave soccorritrice ed ai suoi obblighi.

In primo luogo, bisogna ricordare che il dovere di soccorrere i naufraghi non si esaurisce con le operazioni di assistenza in mare ma implica anche l’effettivo sbarco di tutte le persone soccorse in un porto sicuro. Tale obbligo, per il capitano della nave soccorritrice, è espressamente previsto dalle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, stilate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) nel 2004 (Risoluzione MSC 167 (78)). Si porrebbe dunque in contrasto con il diritto internazionale la condotta di un comandante che, a seguito di un’operazione di soccorso, ometta di sbarcare tutte le persone soccorse in un posto sicuro. Le linee guida, inoltre, stabiliscono che il porto sicuro di sbarco debba essere fornito entro un tempo ragionevole. Sembra superfluo ricordare che nessun porto libico può essere qualificato quale luogo di sbarco sicuro, a causa della situazione di instabilità politica che caratterizza il paese nordafricano, del mancato rispetto dei diritti umani dei rifugiati cosi come dimostrato da report di ONG quali Amnesty International e Human Rights Watch e di organizzazioni internazionali come l’ONU, ed a causa della circostanza che il governo di Tripoli non è parte della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati.

 

6. Inoltre, giova sottolineare che il comandante della nave soccorritrice non è in alcun modo tenuto a richiedere alle persone soccorse se vogliano presentare domanda di protezione internazionale. Tale regola è contenuta nella guida sul salvataggio in mare redatta da UNHCR, IMO e Camera di Commercio Internazionale, che specifica che il capitano non è responsabile della determinazione dello status di rifugiato delle persone soccorse.  Da un lato, la guida chiarisce che né il comandante né l'equipaggio della nave sono responsabili della determinazione dello status delle persone soccorse che si trovino sulla nave. Dall'altro lato, la regola in oggetto può essere interpretata come un'affermazione del principio secondo cui tutti, una volta soccorsi, devono essere trattati allo stesso modo, indipendentemente dal loro status di richiedenti asilo, potenziali rifugiati o "normali" migranti. Anche l’interpretazione delle norme di diritto del mare e diritto dei rifugiati fornita dall’UNHCR chiarifica che il comandante di una nave non è l’autorità competente a determinare lo status di coloro che ricadono temporaneamente sotto la propria tutela, a seguito di un’operazione di salvataggio.

 

7. Un altro punto da sottolineare, relativamente ai doveri del comandante della nave soccorritrice, riguarda la rilevanza del divieto di discriminazione nel contesto dell’obbligo di soccorso marittimo. Non sembra esserci alcun dubbio relativamente all’esistenza di un trattamento discriminatorio tra i migranti inizialmente sbarcati nel porto di Catania e coloro ai quali non è stato permesso di scendere dalle navi delle ONG. Tale trattamento discriminatorio si pone in netto contrasto con il diritto internazionale dei diritti umani e con le norme del diritto del mare che regolano l’obbligo di salvataggio. Difatti, pur non menzionando esplicitamente il divieto di discriminazione, l’articolo 98(1) UNCLOS prescrive che i comandanti soccorrano qualsiasi persona in pericolo in mare. Com’è noto, l’obbligo di soccorso si esaurisce solo con lo sbarco delle persone soccorse in un luogo sicuro. È dunque chiaro come vi sia, in capo al comandante della nave soccorritrice, l’obbligo di sbarcare senza indugio tutti i migranti soccorsi e presenti a bordo della nave. Analogamente alla convenzione UNCLOS, anche la Convenzione SOLAS e la Convenzione SAR stabiliscono che i comandanti debbano prestare assistenza alle persone in pericolo in mare "indipendentemente dalla nazionalità o dallo status di [tali persone] o dalle circostanze in cui si trovano".  La Convenzione di Bruxelles per l'unificazione di alcune norme di diritto in materia di assistenza e salvataggio in mare, del 1910, è ancora più chiara e si spinge fino a stabilire che l'assistenza deve essere fornita "a qualunque persona, anche nemica, trovata in mare, in pericolo di vita" (art.11).

La formulazione testuale delle disposizioni analizzate è sufficiente a dimostrare che il divieto di discriminazione è parte integrante del dovere di soccorso. Ciò è sottolineato anche dalle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, secondo cui "tutte le persone hanno il diritto di essere soccorse nel rispetto del principio di non discriminazione, indipendentemente dal loro status o da altre condizioni".  Pertanto, né gli Stati, né tantomeno i capitani delle navi soccorritrici possono operare distinzioni di trattamento basate sulla nazionalità, sullo status o su altre qualità personali delle persone in pericolo. A tal proposito, risulta grottesco il tentativo del governo di operare distinzioni tra le posizioni dei migranti salvati, sulla base di un non meglio precisato concetto di vulnerabilità, in quanto tutte le persone soccorse si trovano attualmente in una situazione di forte stress e disagio psicofisico, determinati sia dalla traversata del Mediterraneo in condizioni disumane, sia dal fatto che molte di loro hanno soggiornato nei tristemente noti campi di “accoglienza” libici e portano sul corpo i segni di tale soggiorno. In queste condizioni, risulta evidente che uno sbarco selettivo dalle navi soccorritrici si pone nettamente in contrasto con il quadro giuridico internazionale.

 

8. Infine, dal punto di vista del diritto penale italiano, è noto che la Corte di Cassazione (sentenza 20 febbraio 2020, n.6626) ha recentemente stabilito che Carola Rackete agì correttamente, rispettando le disposizioni sul salvataggio in mare, quando la capitana della Sea Watch 3 entrò nel porto di Lampedusa violando il divieto di ingresso firmato dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini. La Cassazione, richiamando gli strumenti di diritto internazionale relativi al salvataggio in mare, tutti ratificati dallo Stato italiano, ha infatti ricordato come l’obbligo di prestare soccorso non si esaurisca nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare ma comporti l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro. Alla luce di tale decisione, dunque, la condotta dei comandanti delle navi ONG bloccate a Catania che si rifiutino di ripartire, portando con sé il “carico residuale” (locuzione utilizzata dal Ministro Piantedosi per indicare quei migranti che non sono stati ritenuti sufficientemente vulnerabili dalle autorità ed il cui sbarco, dunque, non è ancora stato permesso) sarebbe da considerarsi scriminata ex art. 51 c.p. E’ opportuno sottolineare, per completezza, che la base giuridica del divieto di ingresso nei porti italiani è recentemente cambiata – la base giuridica di tale divieto, all’epoca dei fatti della Sea Watch 3, era rappresentata dal decreto Sicurezza-bis, adottato su proposta dell’allora ministro degli interni Matteo Salvini, mentre oggi bisogna far riferimento al decreto Lamorgese, che prevede l’applicazione di norme penali in caso di trasgressione del divieto (in luogo delle precedenti sanzioni amministrative). Tuttavia, ciò non muta le citate conclusioni sull’applicabilità della scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica, così come stabilito dalla Cassazione nel caso Sea Watch 3.

In aggiunta, vale la pena rilevare incidentalmente che si potrebbe delineare, nel caso oggetto del presente contributo, l’illegittima privazione della libertà personale dei migranti ancora presenti a bordo delle navi bloccate nel porto di Catania, così come successo nel 2018 con la nave della guardia costiera italiana Diciotti e nel 2019 con la nave della ONG Spagnola Open Arms, quando l’allora Ministro degli interni non aveva consentito, per giorni interi, lo sbarco dei migranti presenti a bordo delle navi. Analogamente, lo Stato italiano sta esercitando sulle imbarcazioni delle ONG ferme al porto di Catania poteri idonei ad incidere sul godimento effettivo di diritti fondamentali da parte di coloro che si trovino a bordo. A tal proposito, va ricordato che, sulla base dell’Articolo 1 CEDU, i migranti presenti a bordo delle navi suddette si trovano attualmente sotto la giurisdizione italiana.

 

9. Come risolvere allora l’impasse nei porti italiani? Chi scrive ritiene che gli Stati Europei, a prescindere dalle esplicite richieste del governo italiano, debbano applicare i principi di leale cooperazione e di solidarietà nella gestione delle emergenze di carattere migratorio. Il preambolo della Convenzione di Ginevra del 1951 invoca la "solidarietà internazionale" nella risoluzione del problema delle migrazioni forzate, "considerando che dalla concessione del diritto d’asilo possano risultare oneri eccezionalmente gravi per alcuni Paesi". La Convenzione procede a sottolineare che “una risoluzione soddisfacente dei problemi di cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha riconosciuto l’importanza ed il carattere internazionali non può essere conseguita senza solidarietà internazionale”. Nell'ambito del diritto d'asilo dell'UE, questi principi sono contenuti nell'articolo 80 TFUE, tangibile concretizzazione del principio di solidarietà che dovrebbe guidare le politiche UE in materia di migrazione. La solidarietà è, infatti, uno dei valori fondanti dell'Unione Europea ed un principio guida della politica d'asilo dell'UE sin dall'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Di conseguenza, la disposizione contenuta nell'articolo 80 TFUE prevede che le politiche Europee in materia di diritto d'asilo e la loro attuazione siano disciplinate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità, comprese le implicazioni finanziarie di tali responsabilità. Inoltre, l'articolo 4, paragrafo 3 TUE prevede che gli Stati membri dell'UE debbano seguire "il principio di leale cooperazione" e "aiutarsi reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati".

Il problema è tuttavia rappresentato dal fatto che gli Stati Europei non mostrano alcuna solidarietà o volontà di cooperare tra loro per la risoluzione dei problemi legali alle migrazioni forzate. Per tornare alla vicenda oggetto del contributo, è ormai noto che Malta continua ad ignorare le richieste di coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso condotte nelle proprie acque. Difatti, i migranti soccorsi dalla nave Geo Barents sono stati salvati nella regione SAR maltese, ma senza che tale Stato si assumesse la responsabilità della conduzione e del coordinamento delle operazioni di soccorso. Questo significa che non vi è un governo che possa ritenersi responsabile per l’individuazione di un porto di sbarco. Bisogna infatti ricordare che nel 2004, il Maritime Safety Committee (MSC) dell’Organizzazione Marittima Internazionale ha adottato alcuni emendamenti al capitolo V della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) ed ai capitoli 2, 3 e 4 dell'allegato alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio in mare (Convenzione SAR). Tali emendamenti sono entrati in vigore il 1° luglio 2006. A seguito degli emendamenti, il paragrafo 1-1 del capitolo V/33 della Convenzione SOLAS, e il paragrafo 3.1.9 dell'allegato alla Convenzione SAR impongono ai governi l'obbligo di cooperare al fine di garantire un luogo sicuro di sbarco per le persone soccorse in mare. Secondo gli emendamenti, la responsabilità di fornire un luogo sicuro di sbarco, o di garantire che tale porto venga prontamente individuato, ricade in prima istanza sul governo responsabile della regione SAR in cui sono stati recuperati i superstiti. Tuttavia, bisogna ricordare che la circostanza che uno Stato abbia coordinato l’operazione di soccorso per il tramite del proprio servizio di coordinamento marittimo, non implica che il diverso Stato costiero al quale è richiesta l’autorizzazione per lo sbarco sia liberato dal dovere di dare accoglienza nei propri porti ad una nave in difficoltà. Ad ogni modo, purtroppo, Malta non ha ratificato gli emendamenti in oggetto, e non è dunque tenuta al rispetto di queste regole.

 

10. È dunque il caso di auspicare una rapida adozione degli strumenti di cooperazione proposti nel settembre 2020 dalla Commissione Europea, e che compongono il pacchetto di proposte del nuovo Patto Europeo sulla migrazione e l’asilo. Tali strumenti prevedono ad esempio che la Commissione possa stabilire che uno Stato Membro si trova in una situazione di crisi dovuta ad un eccezionale afflusso di cittadini di paesi terzi che arrivano in modo irregolare sulle coste dello Stato interessato e possono inficiare il funzionamento del sistema di asilo e di accoglienza nazionale. In tale situazione, il nuovo patto stabilisce una serie di misure di solidarietà, atte ad evitare il collasso del sistema di asilo dello Stato in difficoltà. Nessuno degli strumenti ricompresi nel nuovo patto, tuttavia, prevede che si possano bloccare le operazioni di sbarco dei migranti soccorsi dalle navi ONG. Piuttosto, si prevede che le persone sbarcate siano ricollocate sulla base delle misure di solidarietà decise dalla Commissione. Forse questo potrebbe contribuire ad evitare situazioni come quella oggetto del presente contributo, che continuano a mettere in pericolo la vita ed i diritti di esseri umani che nulla hanno a che vedere con le dinamiche politiche interne degli Stati Europei interessati.