Testo dell’audizione del 20 maggio 2024 del prof. Marco Pelissero alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, in relazione disegno di legge c. 1660 Governo, recante “disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”.
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Il disegno di legge in esame alla Camera dei deputati presenta contenuti eterogenei che, in relazione al tema della sicurezza, evidenziano un collettore comune costituito dall’inasprimento delle pene, dalla introduzione di nuove fattispecie incriminatrici e dal potenziamento delle misure di prevenzione. Il presente disegno di legge prosegue sulla linea già tracciata dall’avvio della legislatura con l’introduzione dell’art. 633-bis c.p. (d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 conv. in l. 30 dicembre 2022, n. 199) e successivamente con il d. l. D.l. 15 settembre 2023, n. 123 conv. con modif. in l. 13 novembre 2023, n. 159. È in atto non solo un ampliamento del ricorso al diritto penale, in contrasto con i principi di proporzionalità e sussidiarietà del controllo penale e in funzione essenzialmente simbolico-comunicativa, senza che ciò significhi garantire strumenti dotati di maggior efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva; è in atto un progressivo spostamento del baricentro delle riforme legislative verso un diritto penale della prevenzione, sia nella struttura delle fattispecie incriminatrici sia nel potenziamento delle misure di prevenzione con una sempre più marcata virata verso un diritto penale d’autore che si allontana dal diritto penale del fatto.
Svilupperò i miei rilievi, considerando in modo specifico le parti del disegno di legge che incidono sul diritto penale sostanziale e che meriterebbero una più meditata riflessione da parte del legislatore.
Art. 1. (Introduzione dell’articolo 270-quinquies.3 e modifica all’articolo 435 del codice penale in materia di delitti con finalità di terrorismo e contro l’incolumità pubblica)
Art. 1, comma 1, lett. a) – Introduzione dell’articolo 270-quinquies.3 c.p.
Il nuovo art. 270-quinquies.3 c.p. arretra ulteriormente la tutela rispetto a quanto già prevede, in tema di auto-addestramento, l’art. 270-quinquies c.p. che punisce la condotta di chi, avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, ponga in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo. La norma oggi vigente richiede che alla condotta di addestramento si accompagnino condotte successive dirette in modo univoco alle condotte di cui all’art. 270-sexies c.p. La proposta di riforma prevede la rilevanza penale già del mero procurarsi o detenere materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’articolo 1, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.
La norma è finalizzata a dare attuazione alla Direttiva (UE) 2017/541 sulla lotta contro il terrorismo e che sostituisce la decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio e che modifica la decisione 2005/671/GAI del Consiglio, in particolare all’art. 8, in forza del quale «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché sia punibile come reato, se compiuto intenzionalmente, l’atto di ricevere istruzioni per la fabbricazione o l’uso di esplosivi, armi da fuoco o altre armi o sostanze nocive o pericolose ovvero altre tecniche o metodi specifici al fine di commettere o di contribuire alla commissione di uno dei reati di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere da a) ad i)». Il tenore di questa disposizione non obbliga, di per sé, ad ampliare la disciplina vigente nella direzione di cui al disegno di legge, in quanto il “ricevere istruzioni” sembra implicare un rapporto consapevole con chi le fornisce. È vero, tuttavia, che l’undicesimo considerando della direttiva prevede che «la qualificazione come reato dell’atto di ricevere un addestramento a fini terroristici integra il reato esistente consistente nell’impartire addestramento e, in particolare, risponde alle minacce derivanti da coloro che preparano attivamente la commissione di reati di terrorismo, compresi coloro che in ultima istanza agiscono da soli. L’atto di ricevere addestramento a fini terroristici comprende l’acquisizione di conoscenze, documentazione o abilità pratiche. L’autoapprendimento, anche attraverso Internet o la consultazione di altro materiale didattico, dovrebbe altresì essere considerata ricevere addestramento a fini terroristici qualora derivi da una condotta attiva e sia effettuato con l’intento di commettere o di contribuire a commettere un reato di terrorismo». Dunque, l’espansione criminalizzante che pervade la politica criminale dell’Unione europea in tema di contrasto al terrorismo sembra deporre per una estensione del controllo penale anche alla “acquisizione di conoscenze, documentazione o abilità pratiche”.
Questa forte retrocessione della punibilità rischia di dare rilevanza a tipologie di autore, piuttosto che a fatti connotati, seppure in una dimensione di anticipazione della tutela, da una dimensione di pericolo astratto. Non a caso lo stesso considerando europeo non manca di evidenziare i rischi di questa anticipazione di tutela: «Nel contesto di tutte le circostanze specifiche del caso, tale intenzione può essere dedotta ad esempio dal tipo di materiale consultato e dalla frequenza della consultazione. Pertanto, scaricare un manuale al fine di fabbricare esplosivi per commettere un reato di terrorismo potrebbe essere assimilato all’atto di ricevere un addestramento a fini terroristici. Al contrario, il semplice fatto di visitare siti web o di raccogliere materiale per finalità legittime, ad esempio a scopi accademici o di ricerca, non è considerato ricevere addestramento a fini terroristici ai sensi della presente direttiva».
Sarebbe, allora, opportuno, se proprio si intende mantenere la fattispecie, sopprimere l’avverbio “consapevolmente” e anticipare nella formulazione della norma la finalità di terrorismo o di eversione, in modo che sia chiaro che è questa specifica finalità a dover sorreggere la condotta (per come è attualmente collocata nel testo del disegno di legge, la finalità potrebbe essere letta come connotazione oggettiva del materiale contenente le istruzioni): in tal modo si potrebbe fare a meno anche del ridondante avverbio “consapevolmente”.
«Chiunque, fuori dei casi di cui agli articoli 270-bis e 270-quinquies, con finalità di terrorismo, consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’articolo 1, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, è punito con la reclusione da due a sei anni».
In ogni caso, anche in questa versione, il disvalore della fattispecie rimarrebbe totalmente incentrato sulla finalità perseguita, in violazione dei principi di materialità e di offensività. Questa tendenza delle fonti dell’Unione europea ad ampliare e a far retrocedere il controllo penale in funzione di prevenzione del terrorismo richiederebbe, anche da parte della Corte costituzionale, un attento vaglio sulle norme attuative di tali fonti in relazione al rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, in quanto l’attuazione delle norme di fonte eurounitaria deve comunque tradursi in norme rispettose dell’impianto dei principi fondamentali a cui si ispira il nostro sistema costituzionale.
Segnalo altresì che il massimo della pena è irragionevolmente superiore al limite minimo di pena previsto per il vigente art. 270-quinquies c.p. che presenta una indubbia maggiore gravità; la cornice edittale si presenta manifestamente sproporzionata per eccesso se confrontata con quella ancor più grave di partecipazione all’associazione ex art. 270-bis c.p. che ha un minimo edittale di cinque anni, inferiore al massimo (sei anni) previsto per il reato di cui si propone l’introduzione.
Art. 1, comma 1 lett. b) – Modifica all’articolo 435 c.p.
La norma anticipa la tutela penale rispetto al delitto di cui al comma 1 dell’art. 435 c.p.: «chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie o sostanze indicate al medesimo comma, o su qualunque altra tecnica o metodo per il compimento di taluno dei delitti non colposi di cui al presente titolo puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni». La relazione al disegno di legge chiarisce che si trarrebbe di una fattispecie di reato a dolo specifico, connotato dalla «finalità della consumazione di taluno dei delitti non colposi puniti nel titolo sesto del libro secondo del Codice penale, concernente i reati contro la pubblica incolumità». La struttura della norma non è costruita in tal senso: è necessario, pertanto, delimitare la fattispecie con il dolo specifico presente nel comma 1 per evitare pericolosi ampliamenti della fattispecie: nel testo proposto l’espressione “per il compimento di taluno dei delitti non colposi…” potrebbe essere letta in funzione della connotazione oggettiva della tecnica o del metodo, piuttosto che come indicativa di un dolo specifico di direzione finalistica della condotta.
Art. 7. (Modifiche all’articolo 10-bis della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di revoca della cittadinanza)
La norma non ha una rilevanza penale diretta, ma costituisce un effetto della condanna penale per alcuni gravi delitti contro la personalità dello Stato o commessi con finalità di terrorismo.
In base alla disciplina vigente, la revoca della cittadinanza è adottata con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, l’intervento di cui alla lettera b del comma uno invece estende a dieci anni il termine entro il quale poter esercitare la revoca: non si comprende la ratio dell’estensione di tale termine. Nella Relazione si afferma che la ratio sia quella di rafforzare l’operatività dell’istituto in un’ottica di maggior tutela della sicurezza nazionale; ma nei fatti un’estensione sino a dieci anni è un irragionevole e sproporzionato ampliamento del termine entro il quale poter esercitare la revoca della cittadinanza. Inoltre, la disciplina prevista dal disegno di legge è irragionevole se confrontata con la disciplina della riabilitazione (art. 178-181 c.p.), che prevede, in relazione a reati accertati con sentenza definitiva, termini di 3, 8 e 10 anni. L’estensione del termine rende meno “immediata” la ratio di protezione della sicurezza nazionale, ma introduce una sorta di limbo che consente la revoca occasionata da un fatto pregresso.
Quanto alla clausola, secondo la quale non si può procedere al provvedimento di revoca laddove l’interessato non possiede un’altra cittadinanza ovvero non ne possa acquisire altra, rimane incerto il secondo riferimento alla “possibilità di acquisire altra cittadinanza”, in quanto non sembra escludere i rischi di apolidia. Sarebbe preferibile escludere la revoca solo laddove l’interessato non possiede un’altra cittadinanza.
Art. 8. (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, per il contrasto dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui)
Il nuovo art. 634-bis c.p. descrive un fatto che, pur avendo avuto riscontro da alcune notizie di cronaca, non assurge di certo ad urgenza in tema di sicurezza urbana, alla quale il disegno di legge collega l’articolo in esame. Ora, a prescindere dalla intenzionale comunicazione simbolica che carca sul tema delicato della sicurezza urbana, la fattispecie presenta una indubbia carica offensiva, non solo per l’offesa all’interesse patrimoniale (è, infatti, collocata tra i delitti contro il patrimonio), ma ancor più perché il fatto offende la sfera privata dell’altrui domicilio, ossia un interesse di natura personale. Si segnala, tuttavia, che la condotta di occupazione abusiva è già oggi penalmente rilevante ai sensi dell’art. 633 c.p., nel quale, per costante interpretazione in dottrina e in giurisprudenza, la condotta di invasione arbitraria indica qualunque accesso o penetrazione arbitraria nell’immobile altrui. Il disegno di legge estende la rilevanza del fatto anche alla mera detenzione senza titolo o all’impedimento del rientro del proprietario o del legittimo detentore, purché tali condotte siano sempre connotate da violenza o minaccia (elemento che, posto, nell’incipit della fattispecie, deve accompagnare tutte le condotte di cui al primo periodo dell’art. 634-bis c.p.).
Sul piano della disciplina di ordine sostanziale si segnalano, tuttavia, difficoltà di lettura e profili di irragionevolezza:
a) il secondo periodo dell’art. 634-bis c.p. incrimina «chiunque si appropria di un immobile altrui con artifizi o raggiri»: in tal modo l’illecito penale coincide con illecito civile, determinando una irragionevole estensione della incriminazione (tra l’altro con irragionevole equiparazione delle cornici edittali tra condotte di violenza e minaccia e condotte di artifizio o raggiro, in modo difforme rispetto all’impostazione sistematica e valoriale dei delitti contro il patrimonio, nei quali è attribuito un valore differente all’una e all’altro modalità di offesa all’interesse patrimoniale, come si desume dal diverso trattamento sanzionatorio riservato a truffa ed estorsione);
b) Il secondo comma dell’art. 634-bis dispone l’applicazione della pena di cui al primo comma a chiunque «fuori dai casi di concorso nel reato, … si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione medesima». Le condotte di chi si intromette o coopera (termine peraltro che il codice Rocco utilizza per la cooperazione colposa nell’art. 113 c.p. e non nei casi di responsabilità dolosa) rilevano nella misura in cui non ci sia concorso nel reato, come indica chiaramente la clausola di riserva: tuttavia, considerato che il reato consiste sia nell’occupazione abusiva che nel mantenimento della stessa sine titulo, non si comprende come possa esserci una condotta di intromissione o cooperazione senza che la stessa acquisti rilievo concorsuale. Per come è strutturato, il nuovo art. 634-bis configura un reato permanente e pertanto ogni condotta di intromissione o di cooperazione nell’occupazione si traduce in un concorso nel reato (basterebbe scorrere la giurisprudenza sul concorso nei reati permanenti per capire le difficoltà interpretative nelle quali incorreranno le nuove condotte). Anche le condotte dei “mediatori” consistenti nella ricezione o corresponsione di denaro o altra utilità per l’occupazione medesima non sembrano sfuggire all’imputazione concorsuale;
c) l’art. 634-bis c.p. è procedibile querela, ma, andando ad implementare le fattispecie di cui all’art. 639-bis c.p., diventa procedibile d’ufficio, quando si tratta di edifici pubblici, come nel caso di alloggi popolari di edilizia residenziale pubblica: segnalo allora che, poiché la norma amplia l’ambito di incriminazione rispetto a fatti il cui humus è dato da contesti di marginalità sociale, la procedibilità d’ufficio scatterà in tutti i casi di permanenza abusiva nell’immobile, connotata da violenza o minaccia. Queste modalità della condotta possono essere facilmente contestate, specie in caso di interventi delle forze dell’ordine, i cui poteri vengono ampliati dalla particolare procedura di reingresso nel possesso dell’immobile prevista dall’art. 321-bis, comma 4 c.p.p.: gli ufficiali di polizia giudiziaria sono, infatti, autorizzati, in caso di diniego dell’accesso, di resistenza di rifiuto di eseguire l’ordine di rilascio disposto dal giudice o di assenza dell’occupante, a disporre coattivamente il rilascio dell’immobile e a reintegrare il denunciante nel possesso del medesimo ove sussistono fondati motivi per ritenere l’arbitrarietà dell’occupazione.
Art. 9. (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di truffa)
L’inasprimento del regime sanzionatorio del delitto di truffa risponde alla logica securitaria della ricerca della deterrenza attraverso l’aumento delle pene (chiarissima sul punto la Relazione di accompagnamento): illusorio pensare che le truffe commesse approfittando delle condizioni di minorata difesa possano essere condizionate in ragione dell’aumento delle pene di un anno nei limiti edittali (minimo e massimo) e da un innalzamento della pena pecuniaria. Quanto ai riflessi processuali, evidenzio quanto segue: la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza (riforma art. 380 c.p.p.) rimarrà sulla carta, in quanto la truffa, per le modalità di consumazione, mal si concilia con l’arresto in flagranza: sarebbe stato più ragionevole il riferimento al c.d. arresto in flagranza differito, come previsto dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119, che stabilisce che per i reati di violenza commessi in occasione o a causa di manifestazione sportive, si considera in stato di flagranza chi è individuato entro le 48 ore dal fatto sulla scorta di una chiara ed inequivoca documentazione video fotografica dalla quale emerge che il soggetto sia l’autore del reato. Lascia perplessa anche la sottolineatura nella Relazione al disegno di legge, della possibilità di disporre la custodia cautelare in carcere in ragione dell’aumento dei limiti massimi edittali. La riforma presenta una forte valenza simbolica senza che al messaggio corrisponda una maggiore efficacia nella tutela delle vittime vulnerabili.
Art. 10. (Modifiche all’articolo 10 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, in materia di divieto di accesso alle aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze, nonché all’articolo 165 del codice penale in materia di sospensione condizionale della pena)
Il disegno di legge interviene sul Daspo urbano, ampliando l’ambito di applicazione del divieto di accesso a determinati luoghi ed inasprendo la disciplina della sospensione condizionale della pena. Premetto che l’impianto della disciplina, introdotta nel 2017 e successivamente modificata in chiave di inasprimento sanzionatorio (d.l. 113/2018 conv. in l. 132/2018) esprime una gestione della sicurezza urbana che è improntata alla marginalizzazione, attraverso la previsione di misure di prevenzione in funzione escludente, ben lontane dall’idea di sicurezza urbana integrata.
A) In primo luogo, il disegno di legge amplia i destinatari del divieto di accesso. Ai sensi dell’art. 10, l. 48/2017, il divieto di accesso ad alcune aree può essere disposto nei confronti di coloro che abbiano reiterato le condotte di cui all’art. 9, co. 1 e 2, se dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza. Tale pericolo, come ha recentemente chiarito la Corte costituzionale (sent. 47/2024) va inteso in termini ristretti come pericolo di commissione di reati. Già la disciplina vigente non convince, in quanto si tratta di una misura di prevenzione destinata a colpire forme di marginalità sociale (come emerge dalla lettura dei commi 1 e 2 dell’art. 9) così da costruire, sulla base degli ordini di allontanamento e dei divieti di accesso, zone della città libere dalla circolazione delle persone socialmente marginali. Il disegno di legge viene ad ampliare la disciplina del divieto di accesso, in quanto prevede di inserire all’art. 10, comma 2 un periodo che consente al questore di disporre il divieto di accesso, per un periodo massimo di dodici mesi, «anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei 5 anni precedenti per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi in uno dei luoghi indicati all’articolo 9 comma 1»: è dunque sufficiente non solo una condanna non definitiva, ma anche una semplice denuncia per un qualunque delitto contro la persona o il patrimonio a giustificare il divieto impartito dal questore. A differenza di quanto dispone il primo periodo dell’art. 10, la disposizione che si vuole introdurre non richiede nemmeno l’accertamento del pericolo per la sicurezza (ossia di commissione di reati) che, peraltro, sarebbe ben difficile accertare in caso di mera denuncia, se non in forza di un intuizionismo che tracima in arbitrio. L’estensione del Daspo urbano nei termini che si vanno a configurare diventa aberrante.
A questo si aggiunga il meccanismo di criminalizzazione secondaria che si accompagna alla violazione del divieto di accesso, in quanto l’art. 10 prevede che Il contravventore sia punito con l’arresto da sei mesi ad un anno (dunque, anche la violazione colposa del divieto è rilevante). Dunque, una persona semplicemente denunciata per un delitto contro il patrimonio o la persona rischia di incorrere in una sanzione penale per violazione del divieto di accesso. Peraltro, non è questo l’obiettivo della criminalizzazione secondaria, perché questa è nuovamente servente rispetto al meccanismo poliziesco preventivo come ben emerge dalla Relazione al disegno di legge: «A prescindere dalla scarsa dissuasività della sanzione penale prevista, poco afflittiva ma comunque proporzionata alla gravità dei fatti (il reato contravvenzionale per chi non ottempera al suddetto divieto prevede l’arresto da sei mesi ad un anno e, nella forma aggravata, da uno a due anni), la disposizione che si intende introdurre avrebbe il pregio di consentire alle forze di polizia di intervenire immediatamente per “espellere” dalle suddette aree le persone destinatarie del divieto di accesso, svolgendo così una funzione di prevenzione di possibili reati che costoro potrebbero ivi commettere».
L’effetto abnorme di questo meccanismo di prevenzione ed eventuale criminalizzazione è potenziato dal fatto che la denuncia o la condanna con sentenza anche non definitiva possono retroagire sino a cinque anni precedenti: dunque, anche una denuncia di qualche anno precedente può giustificare il divieto di accesso; una misura irragionevole, in quanto priva della necessaria attualità e concretezza caratteristiche intrinseche della pericolosità di reiterazione dei reati.
B) Il secondo elemento di novità interessa la sospensione condizionale della pena e si collega alla disciplina delle prescrizioni del Daspo urbano.
Si prevede l’inserimento di un comma all’art. 165 c.p.: «Nei casi di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze, la concessione della sospensione condizionale della pena è comunque subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati». La disposizione introduce una prescrizione obbligatoria che nella disciplina vigente è, invece, facoltativa (art. 10, comma 5 l. 48/2017). Peraltro, come già nella disciplina vigente, il contenuto della prescrizione è condizionato dall’ampiezza dei luoghi e delle aree interessate dal divieto: il divieto, infatti, potrebbe avere una portata molto ampia considerato che l’art. 9 fa riferimento alle aree interne delle infrastrutture fisse e mobili ferroviarie, aeroportuali, marittime, di trasporto pubblico locale urbano ed extraurbano, e relative pertinenze (comma 1); il divieto potrebbe essere esteso anche alle aree indicate dai regolamenti di polizia urbana, aree sulle quali insistono presidi sanitari, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi di cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati pubblici, spettacoli ovvero adibite a verde pubblico (comma 4).
Premesso che questo meccanismo di commistione tra divieti amministrativi di accesso e sospensione condizionale della pena solleva subbi sul rispetto della riserva di legge in materia penale, sarà necessario interpretare il potere del giudice sganciandolo dal contenuto del provvedimento del questore che impartisce il divieto di accesso, potendo il giudice determinare aree e luoghi in modo difforme da quanto previsto dal questore.
Art. 11. (Modifiche all’articolo 1-bis del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, relativo all’impedimento della libera circolazione su strada)
Si trasforma in delitto il blocco stradale commesso da chi ostruisce la libera circolazione con il proprio corpo (fattispecie estesa al blocco ferroviario). In tal modo si incriminano indirettamente forme di protesta che, per quanto possano risultare moleste, sono sempre forme di espressione di dissenso che andrebbero affrontate sul piano del dialogo più che su quella della incriminazione. La fattispecie troverà applicazione prevalentemente nella forma aggravata, prevista in presenza del fatto commesso da più persone riunite.
Art. 12. (Modifiche agli articoli 146 e 147 del codice penale in materia di esecuzione penale in caso di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti)
L’inasprimento della disciplina del differimento dell’esecuzione della pena costituisce un effetto indiretto della pena che va ad incidere sul minore: si passa, infatti, per le madri con prole sino ad un anno dal regime di rinvio obbligatorio al regime di rinvio facoltativo. Tutto dipenderà da come i giudici eserciteranno il potere discrezionale, ma l’effetto della riforma potrebbe tradursi in un pregiudizio per il minore; pregiudizio che non viene meno per il solo fatto che, laddove il rinvio non sia disposto, la pena detentiva vada scontata negli ICAM (obbligatoriamente con prole di età inferiore ad un anno; solo facoltativamente in caso di prole in età compresa tra uno e tre anni).
Art. 13. (Modifiche all’articolo 600-octies del codice penale in materia di accattonaggio)
La fattispecie di impiego di minori nell’accattonaggio era già stata inserita nel codice penale dal pacchetto sicurezza del 2009 e il nuovo disegno di legge, sempre in tema di sicurezza, ne propone l’ampliamento e l’inasprimento. L’ampliamento del delitto è realizzato, aumentando l’età dei minori coinvolti (da quattordici a sedici anni); questa scelta si riflette anche sul coinvolgimento dei genitori che possono essere incriminati attraverso la condotta di “permettere” l’accattonaggio. Del tutto irragionevole è il consistente aumento della pena che passa dalla reclusione sino a tre anni (l’assenza di un minimo di pena consente oggi al giudice di tener conto della specificità dei casi concreti), alla reclusione da uno a cinque anni. Di fatto, a trovare applicazione sarà il secondo comma che prevede una pena ancor più elevata (reclusione da due a sei anni) per chi favorisca l’accattonaggio a fini di profitto, essendo questa solitamente la finalità perseguita dai meccanismi dell’accattonaggio deprecabili, ma pur sempre espressione di gravi forme di marginalità sociale.
Non convince la proposta di riforma che rafforza in generale la disciplina penale, senza distinguere chiaramente tra organizzatori e soggetti che, pur permettendo e favorendo l’accattonaggio sono comunque soggetti poveri e vulnerabili.
Art. 14. (Modifiche agli articoli 336 e 337 del codice penale in materia di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e di resistenza a un pubblico ufficiale)
Si propone, agli artt. 336 e 337 c.p. un meccanismo di mero inasprimento della disciplina sanzionatoria attraverso il solito meccanismo di parziale blindatura nel giudizio di bilanciamento, quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. La disciplina potrebbe essere dichiarata incostituzionale rispetto a specifiche attenuanti concorrenti, analogamente a quanto è in più occasioni accaduto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata e ad altre aggravanti connotate da una limitazione nel giudizio di bilanciamento (si veda da ultimo Corte cost. 197/2023).
Art. 15. (Modifiche all’articolo 583-quater del codice penale in materia di lesioni personali ai danni di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio)
Anche questa fattispecie speciale di lesioni personali, introdotta nel pacchetto sicurezza del 2007, viene inasprita con un nuovo pacchetto sicurezza: estensione dei soggetti tutelati ed inasprimento delle pene. Si tratta della solita logica, tipica degli interventi securitari, che inaspriscono la tutela penale delle forze dell’ordine.
Art. 16. (Modifiche all’articolo 639 del codice penale per la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche)
Il disegno di legge propone di introdurre una circostanza aggravante (la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro) «se il fatto è commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene». Il disvalore dell’aggravante è polarizzato sulla finalità di contestazione e di dissenso, chiaramente espressa dalla finalità di ledere il prestigio, l’onore o il decoro dell’istituzione. Uno stesso fatto sarà o meno riconducibile alla nuova disciplina in ragione della finalità politico-dimostrativa di quel gesto. L’ampiezza della disposizione che fa riferimento a termini dal significato ambiguo come quello di “decoro” o non riferibile alle istituzioni (come quello di onore) rendono la disposizione un esempio di reato di opinione etichettato come da delitto contro il patrimonio. In una circostanza aggravante così costruita non è nemmeno ipotizzabile la reinterpretazione del dolo specifico in termini di concreta offensività, in quanto la direzione offensiva è espressa dal significato dimostrativo della condotta di imbrattamento o deturpamento, il che espone la norma alla dichiarazione di incostituzionalità.
Art. 18. (Modifica all’articolo 415 e introduzione dell’articolo 415-bis del codice penale, per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari)
Si tratta delle due disposizioni che generano maggiore perplessità e che presentano nuovi strumenti di gestione della sicurezza nei contesti delle carceri e dei CPR, ben noti per il loro sovraffollamento. Invece di affrontare il problema del sovraffollamento carcerario, l’ansia securitaria porta a proporre l’inasprimento della disciplina penale su due fronti: le nuove fattispecie di rivolta e l’introduzione di una circostanza aggravante all’art. 415 c.p. Evidenzio che, a differenza della illustrazione sulle ragioni della introduzione di altre disposizioni, il disegno di legge risulta alquanto laconico, limitandosi ad illustrare le novità normative, richiamando una generica esigenza di rafforzamento della tutela dell’ordine pubblico nei contesti in cui, come indicherò, operano le nuove fattispecie.
A) I delitti di rivolta. Vengono introdotte due fattispecie speculari che trovano rispettivamente applicazione nell’ambito degli istituti penitenziari (nuovo art. 415-bis c.p.) ovvero in uno dei centri destinati ai cittadini di un Paese non appartenente all’Unione europea in posizione di irregolarità o richiedenti protezione internazionale o in quanto minori non accompagnati (nuovo art. 14, comma 7.1 d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286: richiede che il fatto sia avvenuto «in uno dei centri di cui al presente articolo o durante la permanenza in una delle strutture di cui all’articolo 10-ter o in uno dei centri di cui agli articoli 9 e 11 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero in una delle strutture di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39»).
Le due fattispecie di rivolta sono identiche nella struttura: è punito chiunque, all’interno di un istituto penitenziario ovvero di uno dei centri per migranti indicati, «mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta»; una pena più bassa è prevista per chi partecipa alla rivolta.
La disposizione in parte riprende le condizioni che consentono l’impiego della forza pubblica all’interno degli istituti penitenziari ai sensi dell’art. 41 ord. penit.: «Non è consentito l'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione degli ordini impartiti». Se non che, mentre la norma di ordinamento penitenziario è funzionale a definire i limiti dell’impiego della forza pubblica nel contesto penitenziario, le condizioni che legittimano tale forza sono state utilizzate per definire la struttura dei due delitti di rivolta che presentano elementi che destano forte preoccupazione.
Si tratta di reati a concorso necessario (sono necessarie almeno tre persone riunite) incentrati sulla “rivolta”, della quale le due disposizioni non danno alcuna definizione. Se nella lingua italiana per rivolta si intende «l’azione e il fatto di rivoltarsi contro l’ordine e il potere costituito» (vocabolario Treccani), il disvalore del fatto risiede nell’atto di ribellione all’autorità costituita in un determinato contesto, arricchito da determinate modalità di azione tipizzate nella norma: i) violenza o minaccia; ii) resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti; iii) tentativi di evasione.
Già il richiamo alla violenza desta perplessità, specie se inteso in termini ampi di violenza impropria, ossia come qualsiasi condotta, anche non estrinsecantesi una energia muscolare, diretta a coartare la volontà altrui.
Tuttavia, il punto davvero critico della disposizione è costituito dal fatto che una modalità della rivolta si può realizzare a mezzo atti di «resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti». Su questa modalità la fattispecie realizza una sorta di cortocircuito, perché la rivolta – ossia l’atto di ribellione all’autorità – si realizza mediante la mancata esecuzione degli ordini. Il fine si identifica con il mezzo, ma il mezzo è dato dal non eseguire un ordine: la condotta penalmente rilevante si sostanzia nel non obbedire. L’abnorme dilatazione della fattispecie risiede proprio nella rilevanza data alla resistenza meramente passiva, ossia alla semplice mancata esecuzione degli ordini impartiti, senza che la condotta assuma i connotati di una resistenza aggressiva connotata da atteggiamenti violenti o minatori. Quella resistenza passiva che per la giurisprudenza non rileva nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e che non può consentire il ricorso all’uso delle armi nella scriminante ex art. 53 c.p., diventa invece penalmente rilevante nel contesto degli istituti penitenziari o dei centri per immigrati, ossia in contesti caratterizzati da rapporti di forza e supremazia tra persone ristrette e personale dell’amministrazione. In relazione alla resistenza meramente passiva la condotta perde di consistenza ed entra in conflitto con il principio di materialità (l’art. 25 comma 2 Cost.).
La norma si presta a fungere da pericoloso strumento di gestione arbitraria dell’ordine pubblico in contesti dove le relazioni di forza sono necessariamente a senso unico.
Per reprimere i fatti di rivolta non è necessario ricorrere a nuove fattispecie incriminatrici perché le modalità violente, minatorie o di tentata evasione sono già di per sé rilevanti penalmente.
Un’ultima notazione marginale rispetto alle due fattispecie di rivolta che dovrebbero essere stralciate: il disallineamento tra le cornici edittali a seconda che la rivolta sia realizzata negli istituti penitenziari o nei centri per migranti. Le pene più severe di cui all’art. 415-bis c.p. sottendono che il disvalore non è dato solo dall’offesa alla sicurezza interna ai contesti di privazione della libertà personale, ma al diverso significato che la privazione della libertà personale assume nei due contesti. È una scelta non del tutto collimante con la prospettiva di tutela della sicurezza interna. Ciò che è del tutto incomprensibile è la differenza di trattamento sanzionatorio in caso di lesioni o morte verificatesi nella rivolta o immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di questa: nel contesto penitenziario, se dalla rivolta deriva una lesione personale, la pena è aumentata, mentre, se ne deriva la morte, la pena è della reclusione da dieci a venti anni; nei centri per immigrati, invece, è prevista un trattamento sanzionatorio omogeneo che contempla la morte o le lesioni personali gravi o gravissime, con applicazione della reclusione da dieci a venti anni. Non c’è alcuna logica in questa disparità di trattamento e si profilano vizi di legittimità costituzionale: a) per violazione del principio di ragionevolezza in un’ottica di tertium comparationis (cfr. Corte cost. sent. n. 236 del 2016); b) la fattispecie per i CPR prevede un reato plurioffensivo con un’identità di trattamento sanzionatorio per fatti (morte e lesioni) oggettivamente diversi (cfr. Corte cost. 24 maggio 1979, n. 299).
B) Infine, il disegno di legge propone di introdurre una circostanza aggravante all’istigazione a disobbedire alle leggi di cui all’art. 415 c.p. Viene di fatto riesumata una fattispecie che era oramai scomparsa dai repertori giurisprudenziali e che, nella parte relativa all’odio fra le classi sociali, era stata salvata dalla Corte costituzionale che aveva richiesto, con una sentenza interpretativa di accoglimento, la necessità di accertare il pericolo per la pubblica tranquillità (sent. 108/1974). Potevamo fare a meno di questa proposta che valorizza un delitto di opinione, del quale la dottrina da tempo rileva i problemi di legittimità costituzionale in relazione non solo alla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche al principio di determinatezza che si stempera nel vago riferimento alle leggi di ordine pubblico. La volontà di riaccendere, nel contesto carcerario, l’attenzione su una fattispecie desueta costituisce un altro tassello a completamento del giudizio nettamente negativo del combinato disposto degli artt. 415 e 415-bis c.p.: anche l’aggravante in oggetto finisce per diventare un pericolosissimo strumento di gestione dell’ordine pubblico interno agli istituti, con elevati rischi di arbitrio da parte dei gestori della sicurezza con effetti che vanno in senso opposto alle esigenze di mantenimento dell’ordine interno. Il Parlamento dovrebbe pensare a garantire anzitutto, la sicurezza di spazi di vivibilità interna, prima di pensare ad introdurre norme che finiranno solo per accrescere la pressione in contesti complessi sia per i detenuti che per il personale dell’amministrazione penitenziaria.
C) Segnalo, infine che la prospettiva securitaria ha interessato anche la disciplina di ordinamento penitenziario: il disegno di legge inserisce le fattispecie di cui agli artt. 415 e 415-bis c.p. tra i reati per i quali vale l’ostatività ex art. 4-bis, comma 1-ter ord. penit., che consente la concessione di benefici penitenziari, purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.