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15 Giugno 2021


L'educazione sentimentale del giudice. A proposito di giustizia, amianto, vittime diffuse


Testo rivisitato della relazione nella sessione "La giustizia penale di fronte al dramma dell’amianto" del Festival della giustizia penale 2021.

 

Le morti da amianto suscitano dolorose emozioni che si intrecciano con complesse questioni che riguardano il sapere scientifico utile alla comprensione degli eventi. Storie drammatiche ci inquietano e ci pongo interrogativi sul peso che emozioni e sentimenti hanno nella nostra vita personale e nelle decisioni giudiziali. L’analisi che segue tenta di intrattenere brevemente il lettore proprio sulle spesso occulte interazioni tra moti interiori ed analisi razionale.

La filosofia e le scienze sociali si occupano da sempre di corpo, cervello, mente, emozioni individuali e collettive. Non varrebbe certo la pena di aggiungere altre dilettantesche divagazioni sul tema se non fosse che la neurobiologia ci ha recentemente fornito alcune originali ed inattese informazioni. Esse non solo aggiungono conoscenza oggettiva in una materia oscura e sfuggente, ma ci stanno consentendo di abbandonare approcci della tradizione e di elaborare una nuova visione del ruolo della sfera emotiva nella nostra vita e nei nostri processi decisionali.

Sembra accreditarsi con sempre maggior forza l’idea che la sfera emozionale abbia avuto un formidabile ruolo evolutivo ed adattivo; abbia costituito sin nei primordi strumento per la rapida ed efficace soluzione dei problemi della vita; e sia ancora nel presente una guida sottilmente intrecciata nei vertiginosamente complessi itinerari della mente. Si accredita, in breve, l’idea di una importante e non prevista complementarità tra ragione e sentimento.

È utile rammentare, davvero in breve ed in modo profano, alcune acquisizioni.

I: Talune lesioni cerebrali determinano la perdita della capacità di provare determinate emozioni.

II: L’impoverimento emotivo lascia intatta la sfera razionale e la capacità di risolvere problemi di logica astratta. Si perde, invece, la capacità di agire sensatamente processi decisionali della vita concreta. Si opera in modo imprevedibile e sconsiderato per ciò che riguarda le relazioni personali e più in generale le scelte che coinvolgono l’esistenza individuale.

III: Stimoli nervosi artificiali nella sfera cerebrale determinano il sorgere con intensità di stati emozionali, di sentimenti complessi e drammatici che l’agente esprime vividamente e che, tuttavia, si dissolvono rapidamente dopo la cessazione dello stimolo elettrico.

Questa fenomenologia offre testimonianza non solo della vitale interazione tra mente e corpo, ma soprattutto ci indica che l’agire razionale cui noi ci affidiamo ha assolutamente bisogno dell’esperienza emotiva. Questa situazione, naturalmente, ci interroga sul perché lo strumentario emozionale, radicato nelle origini più remote della vita animale, sia ancora così importante nel presente dell’evoluzione umana.

Sembra particolarmente seducente la tesi che ripercorre la storia dell’evoluzione rammentandoci che le emozioni costituiscono potenti strumenti per la risoluzione rapida ed efficiente di problemi che ci si propongono in ogni attimo della nostra vita. Esse ci indicano subitaneamente stime, valutazioni su accadimenti della sfera esterna o di quella interiore. L’esperienza individuale, ancor prima che gli studi di neurobiologia, ci consente di aggiungere, però, che nel presente dell’umanesimo il fluire emozionale non costituisce un’entità separata ma interagisce nella mente cosciente che, per così dire, “covaluta”.

Tentando la sintesi: emozioni e sentimenti offrono alla mente un mezzo per valutare l’ambiente esterno ed interno e per reagire in modo adattivo. I sentimenti ci offrono “significati”. Questi “significati” costituiscono il “codice” della vita umana. Le codifiche, i significati, non solo accelerano e favoriscono, ma anche accrescono la qualità del ragionamento.

Questo sommario scenario spiega perché certe lesioni causano la perdita della sensatezza ma non della razionalità astratta. Evidentemente, si perde la capacità di far emergere le esperienze emozionali, con tutto il loro contenuto di informazioni e di significati. Si perdono i codici che classificano ed organizzano l’esperienza. Si determina un inaridimento del flusso dell’agire sensato.

Proprio la considerazione delle finalità adattive ed evolutive ci aiuta a comprendere che alcune emozioni, sedimentate in processi evolutivi remoti, nel nostro presente non sono solitamente utili ed anzi sono controproducenti. Rabbia, tristezza, paura del diverso e dell’estraneo ci sono state in passato utili ma si rivelano ora per lo più dannose, alimentando violenze e pregiudizi di vario genere con i quali occorre fare i conti. Agiscono tumultuosamente, inconsciamente: ci posseggono.

In breve, dunque, la pur essenziale interazione tra ragione e sentimento non è intrinsecamente virtuosa. Le peggiori sventure nella storia dell’umanità sono state alimentate proprio da pulsioni emozionali negative: guerre, stragi, oppressioni e sopraffazioni di ogni genere. E lo stesso può dirsi nella vita individuale. Flaubert ci ha avvertiti, nel suo L’educazione sentimentale, che una vita trascinata per i capelli da spinte sentimentali inconsapevoli, casuali e confuse conduce facilmente al fallimento personale.

Questo accenno al complicato stato delle cose può aiutarci ad entrare nel tema che interessa al diritto penale. Nel bene e nel male, il giudizio è intriso di emozioni: compassione, empatia, pietà, disgusto, disprezzo, orrore. Sentimenti che talvolta agiscono occultamente, influenzano in modo malsano i giudizi. Ed anche quando affiorano alla coscienza ostacolano insidiosamente una lettura equanime e strenua delle informazioni fattuali o, financo, la stessa ricerca degli elementi di giudizio presenti sulla scena. Occorre fermarsi a riflettere ed intendere i pericoli.

Guardiamo alle emozioni sociali: attaccamento, accudimento, compassione, empatia. Senza, non ci sarebbero neppure religioni, legislazioni, costituzioni, organizzazioni sociali. Ma, come solitamente accade nelle cose umane, vi sono risvolti negativi. Le emozioni positive riguardano il gruppo: la famiglia, la città, la nazione. Simmetricamente, evolutivamente, tali sentimenti implicano avversione per i diversi, gli estranei. Qui nascono gli umori che fomentano odi tribali, razzismo, guerre, oppressioni; e anche eventi meno poderosi ma pur sempre violenti: bullismo, violenze gratuite, gratuite umiliazioni che la cronaca ci mostra tutti i giorni.

Un discorso particolare merita la compassione. Non c’è dubbio che chi è chiamato ad esprimere una decisione vitale, un importante giudizio intorno ad un fatto, debba possedere i codici esistenziali indispensabili, debba conoscere il mondo della vita, debba avere esperienza. Non tanto esperienza teoretica quanto emozionale: la matura sensibilità per immedesimarsi, coinvolgersi, immergersi con slancio negli accadimenti. Da questo punto di vista l’udienza penale costituisce un teatro intenso come pochi: richiede esperienza che, essa stessa, consente di fare esperienza. Chi ha questa pratica sa che, talvolta, si crea quella “esperienza di flusso” con cui alcuni psicologi designano l’agire dell’intelligenza emotiva. Parliamo, insomma, di un inesauribile processo di formazione.

La compassione è uno strumento potente e primordiale, proprio di diverse specie animali più evolute. Ma nel recente passato dell’evoluzione umana ha svolto e tuttora svolge un ruolo più complesso e sottile: si coniuga con l’agire razionale che è il nucleo dei processi decisionali più importanti e vitali. È una guida per la ragione che a sua volta “covaluta”. Una temperie che alcuni studiosi collocano solo a partire da alcune migliaia di anni, nella storia della socialità umana: un battito di ciglia nella storia dell’evoluzione. Così, la compassione, nel senso più esteso, è un presidio dell’agire collettivo: guida per il consolidarsi di regole sociali, morali, religiose, giuridiche.

Tuttavia, pure nella compassione vi sono inconvenienti: essa muove pericolosamente alla ricerca di colpevoli per ogni evento, promuove atteggiamenti autoindulgenti, è facilmente fuorviabile, incoraggia la sopravvalutazione di beni non primari. Soprattutto, come accennato, essendo legata alle relazioni prossime, favorisce gerarchie, discriminazioni, sopraffazioni. Un discorso non dissimile potrebbe esser fatto per altre emozioni sociali. Basti pensare solo al disgusto, al raccapriccio, al disprezzo che possono facilmente essere accecanti.

In questa sommaria evocazione dell’ambivalenza delle emozioni sociali non vi è nulla di nuovo. Da molti secoli i filosofi si muovono tra umanesimo compassionevole e stoicismo; tra adesione alle fragilità ed alle avversità della sorte ed austera esaltazione della insopprimibile libertà e dignità personale.

Come regolarsi, allora? Una compassione matura e ben ponderata, non effimera, è essenziale per la comprensione dei fatti della vita. Essa è quindi utile nelle valutazioni che il giudice esprime quando soppesa la gravità di un fatto, di una condotta, o raccoglie i tratti di una storia personale ed infine determina una pena.  

Tuttavia, il peso delle emozioni reca un pericolo radicale: quello di offuscare l’oggettivo discernimento, di attribuire a tutti i costi alla giustizia un ruolo esorbitante: la cura di mali che essa non può medicare. Questo pericolo si annida nel cuore stesso del giudicare, che riguarda la responsabilità, l’essere o non essere del reato. Qui il tema dell’errore emerge con drammatica forza.

La compassione per la vittima è il motore che spinge la ricerca di prove, di spiegazioni. Ma talvolta ci conduce fuori strada. Si è già accennato agli effetti perversi determinati talvolta dall’orrore per certi crimini efferati, che colpiscono magari persone fragili e indifese. Di fronte a vittime inermi di orribili misfatti l’argine della obiettiva considerazione dei fatti rischia di recedere. Certi atti violenti, certi abusi sessuali, certe gratuite sopraffazioni ed anche tanti strazianti infortuni sul lavoro suscitano un potente bisogno di punizione che può offuscare il giudizio. La compassione per la vittima ed il disprezzo per l’autore rendono sommaria o forzata la valutazione e, di conseguenza, fragile, retorica la motivazione.

Sono sotto gli occhi di tutti sentenze errate che hanno fatto gravi danni. E molte altre c’è da temere che ve ne siano. Il Festival della giustizia penale meritoriamente ce lo ricorda.

Queste fallacie del giudizio sono presenti, ed anche facilmente spiegabili, nei reati colposi; se solo si pensa che la colpa è normativa, valutativa; e che lo scenario è quello di sofferenze atroci. Il diritto penale del lavoro offre da questo punto di vista un repertorio massimamente intenso. L’uomo si fa ingranaggio fragile tra apparati solitamente gravidi di esiziali pericoli. Tutti rabbrividiamo di fronte a vite crudelmente spezzate. Qui la pretesa punitiva è, comprensibilmente, massimamente severa.

Ma in questa severità si nascondono insidie. Il sistema di protezione pullula di garanti. La pretesa talvolta sommaria, umorale, nei confronti dell’agente cui la legge attribuisce la protezione della vittima lo candida, con pochissime vie di scampo, alla responsabilità. La sofisticata teoria della colpa rischia di essere travolta.

Cosa fare, allora? La parola d’ordine potrebbe essere: promuovere l’educazione sentimentale del giudice.

In primo luogo imparare a conoscersi, imparare a conoscere i propri moti interni; cogliere con intensità, e non per accademia, che essi spesso si muovono in un terreno inconscio, che non affiora, cioè, nella sfera dell’analisi razionale. Prendere consapevolezza dei pericoli insiti nella compassione e nell’esecrazione. Imparare che i “significati” che tali sentimenti esprimono devono essere intrattenuti senza tralasciare il ruolo di “covalutazione” dell’analisi razionale. 

Ma forse questo non basta. È utile interrogarsi su quali sono i sentimenti da promuovere, da coltivare per un corretto esercizio dell’arte del giudizio. È difficile e forse pretenzioso farsi maestri. La timida intrapresa può essere incoraggiata dalla considerazione che lo studio delle emozioni sociali interessa nel presente una fitta schiera di studiosi di scienze diverse: psicologia evolutiva e cognitiva, neurobiologia, antropologia, filosofia. La comune matrice sembra sia costituita dalla consapevolezza che l’interazione tra sentimenti sociali ed elaborazione critica razionale, che caratterizza il presente ed il recente passato della specie, promuove la conservazione e l’evoluzione degli individui ma anche della collettività.

L’uomo persegue incessantemente la risoluzione di grandi e piccoli problemi esistenziali. Come accennato, i sentimenti influenzano le operazioni mentali, offrono codici interpretativi, significati, esercitano una spinta alimentata dal vissuto personale. Accendono l’interesse mentale, ottimizzano l’apprendimento, stimolano i processi immaginativi che sono un ingrediente essenziale nell’esercizio della critica e della dialettica interiore.

Questo “motore” trova una plausibile radice sentimentale nello spirito esplorativo, nella febbrile curiosità che si riconosce fin nei primordi della specie, in una dimensione anche (e sempre più) cooperativa, sociale. Questa matrice incessante connette i codici esistenziali con i processi di analisi razionale. Il cervello sembra fatto proprio per questo, almeno nel presente della nostra evoluzione. Antonio Damasio, uno dei padri della neurobiologia, parafrasando Spinoza sintetizza: la ragione ci lascia intravedere la strada mentre il sentimento rafforza la nostra volontà di vedere.

Seguiamo ancora Damasio per qualche tratto. Siamo mossi dal desiderio e dal bisogno di costruire spiegazioni, soluzioni; di rispondere anche ad inquietanti interrogativi esistenziali che riguardano financo la vita e la morte.  Questa spinta alla comprensione non solo riconosce una origine evolutiva, ma ha anche un copioso risvolto esistenziale. Conoscere, comprendere, spiegare è fonte di appagamento, di gioia. Realizzare questo talento umano è non solo un nobile fine, ma anche fonte di un sentimento che alcuni Maestri hanno designato come “felicità”.

L’intreccio tra codici esistenziali, spinte emozionali ed analisi razionale ci conduce nel regno del sapere scientifico cui gli uomini di legge si avvicinano con un misto di soggezione ed attesa; spesso senza sapere come regolarsi. Sono emblematici questi giorni della stagione Covid, animati della ricerca di attingimento di certezze dal sapere degli esperti. Ma sappiamo che la scienza non è la tavola delle certezze. È intrisa di dubbi, di tesi conflittuali ed in evoluzione. Non è neppure un campo neutro: vi compaiono talvolta fallacie ben studiate, interessi occulti, strumentalizzazioni, suggestioni emotive che qui ci interessano. Dobbiamo ammettere che nei territori di confine, quando la scienza è incerta, è talvolta difficile accettare lo stato delle cose ed accogliere il dubbio, quando le emozioni occulte evocate all’inizio talvolta ci dirigono insidiosamente: in primo luogo quando ammettere il dubbio irrisolto rischia di frustrare la compassionevole attenzione alle vittime.

Il tema della ricerca appassionata ed indipendente di risposte ben fondate si collega a quello del metodo dell’indagine nella ricerca scientifica e nell’epistemologia della storia, cioè degli eventi singoli. Il tema è stato colto nella filosofia della scienza ormai da tempo, con accenti che paiono confortati proprio dalle più recenti indagini neuroscientifiche.  Il riferimento è al popperiano principio di transizione: ciò che è valido in psicologia lo è anche in epistemologia. Metodologicamente parlando, ciò che serve a risolvere brillantemente problemi esistenziali serve parimenti per risolvere gli interrogativi della scienza o della storia.

Il ragionamento scientifico è un dialogo esplorativo tra due episodi di pensiero, l’uno immaginativo e l’altro critico che s’alternano e agiscono l’uno sull’altro. L’episodio critico appartiene alla logica e della logica fa uso. Non è solo coerenza e sensatezza, ma anche serrato confronto con i fatti.

Questo procedimento non è, però, caratteristicamente scientifico ma costituisce un contesto specifico per un generale stratagemma che sta sotto quasi tutti i procedimenti regolativi del mondo della vita. Il ragionamento scientifico ed in generale il pensiero problematico razionale costituiscono espressioni di un generale incedere dialettico mosso dal pensiero immaginativo; uno sviluppo del senso comune sorretto da una inflessibile vocazione critica. Spinta immaginativa (animata da un sano impulso sentimentale) e vocazione critica sono i due poli delle movenze del pensiero esplicativo.

La cosa più interessante, qui, è che il ragionamento critico (nella scienza come nella storia) può essere animato solo dal disinteressato desiderio di cogliere gli errori ed emendarli. Si richiede, in breve, una appassionata integrità morale. Un maturo e rigoroso atteggiamento critico esce dalla sfera dell’etica ed assume un ruolo pratico: non c’è conoscenza senza un sincero, strenuo impegno nella drastica critica delle proprie congetture. Il fine ultimo (che ci interessa) è di rifuggire dall’errore. Insomma: esercitare attivamente la passione dell’approccio critico, indipendente, non è solo eticamente giusto ma è anche utile nel giudizio razionale e pure, a quanto pare, nella ricerca della felicità personale o almeno della realizzazione personale.

Il punto di vista critico riguarda pure le teorie in competizione: un tema che ci interessa da vicino. In generale, la congruenza di un’ipotesi non discende dalla sua coerenza formale o dall’abilità retorica dell’argomentazione, né può essere risolta nella logica della probabilità statistica: non si può dire all’imputato che è ritenuto colpevole perché è probabile che lo sia. L’ipotesi è corroborata solo dalla riscontrata coerenza con i fatti. L’idea di preferenza razionale per l’ipotesi più corroborata non può risolversi nell’accantonamento del dubbio, in una scorciatoia. Vi è un aspetto comparativo rispetto alle ipotesi alternative concrete o teoriche, che devono costituire un’eventualità alquanto inverosimile; ma essenzialmente discende da un dato intrinseco: la vastità, la qualità, la ricchezza degli studi e dei riscontri fattuali su cui si basa. E quando tutto questo manca, bisogna accogliere con rispetto il dubbio; accettare che la scienza e la giustizia non possono risolvere tutti i bisogni conoscitivi, né dare risposta alla umanissima compassione per le inermi e sfortunate vittime.

Allora, in conclusione, vi è qualcosa di allarmante nello stato della nostra giurisprudenza a proposito della legge scientifica relativa all’effetto acceleratore dell’esposizione protratta all’amianto, dalla cui controversa esistenza dipende l’esito di molti processi. Infatti, l’innesco del processo carcinogenetico si verifica nelle prime fasi dell’esposizione, ma l’esplosione della malattia avviene diversi decenni più tardi, al termine di un processo molto complesso ed in parte oscuro. Evidentemente, la sorte del giudizio nei confronti di molti garanti che si sono succeduti nella gestione del rischio lavorativo è legata all’esistenza o meno dell’accelerazione dell’indicato processo per effetto della prosecuzione dell’esposizione anche dopo che ha avuto luogo l’innesco di cui si parla.

La legge è affermata o negata nei diversi giudizi. La Corte di Cassazione ha indicato alcuni criteri per orientarsi. I principi vengono costantemente richiamati, ma i giudizi continuano a giungere ad esiti opposti. Questo, evidentemente, non può essere infine accettato. Qualcuno sbaglia. La Corte, se si guardano le cose nel loro insieme, sembra disposta ad accettare la violazione del principio di non contraddizione. Questa situazione di disordine razionale dovrebbe aver termine. Qualche sentenza, probabilmente senza volerlo, si trincera dietro la formale coerenza logica della motivazione. Vi è da temere che la compassione per le vittime sia il principale fattore che ostacola la presa di contatto con la realtà.

Lo scenario della giurisprudenza italiana costituisce un unicum nel panorama internazionale e dovrebbe essere guardato nel suo complesso. Si vuol dire che questa perdurante incertezza, questa ripetizione di pronunzie di segno opposto, dovrebbe esser vista, alla fine, come la conseguenza di un dubbio irresolubile. E c’è da sperare che giudici sentimentalmente virtuosi nei sensi indicati, sappiano prenderne atto.

Ancor più, nell’orribile presente di certe scene della nostra giustizia, sarebbe bello se il giudice si educasse e, magari, venisse anche educato a nutrire il sentimento della appassionata tensione verso la conoscenza piuttosto che quello del potere. Il Festival, naturalmente, potrebbe essere un’occasione propizia.

Tutto questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con le vittime ed i loro congiunti. Lo Stato è stato lungamente inadempiente nella protezione dei lavoratori dai rischi per la salute e per la vita a causa dell’esposizione incontrollata all’amianto, anche quando gli effetti lesivi erano già noti, tanto che qualcuno ha ipotizzato la configurabilità di uno State crime. Vi sono buone ragioni, allora, per immaginare in questo campo un intervento virtuoso anche se tardivo della sfera pubblica.