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19 Settembre 2023


Ancora in tema di abuso d'ufficio e traffico di influenze illecite (d.d.l. Nordio)


Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento del dott. Raffaele Cantone in occasione dell'audizione del 13 settembre 2023 presso la Commissione Giustizia del Senato sul disegno di legge n. 808. L'intervento si sofferma sugli aspetti del d.d.l. relativi al diritto penale sostanziale e, in particolare, l’abolizione dell’abuso di ufficio e la riformulazione del traffico di influenze illecite. 

Sul tema, segnaliamo altresì che nei giorni scorsi la nostra Rivista ha ospitato anche il testo dell'audizione del prof. Marco Pelissero

 

***

 

1. Ringrazio preliminarmente il Presidente della Commissione e tutti i suoi componenti per l’invito e per l’occasione offertami di poter esprimere la mia posizione sul primo disegno di legge in materia di giustizia di questa Legislatura, un disegno di legge certamente importante sia per gli argomenti trattati sia perché dovrebbe fare da apripista ad una più ampia ed ambiziosa “riforma della giustizia”.

Consapevole dei tempi ristretti consentiti per il mio intervento, anticipo subito che mi concentrerò solo su alcuni aspetti del d.d.l. e, cioè, su quelli relativi al diritto penale sostanziale, che riguardano, in particolare, l’abolizione dell’abuso di ufficio e la profonda riscrittura del traffico di influenze.

Aggiungo ancora che, anche su questi temi, cercherò di essere particolarmente sintetico, in quanto, parlando dinanzi a persone con competenze specialistiche, potrò dare per scontate le questioni preliminari e concentrarmi solo sulle novità del testo all’esame.

Infine, siccome soprattutto sull’abuso di ufficio vi sono state già numerose audizioni da parte di questa Commissione, cercherò di non essere ripetitivo, scusandomi però se, comunque, potrò riprendere argomentazioni già sostenute da altri.

In questo senso, entrando in medias res, non mi soffermerò affatto sui problemi dei possibili rapporti delle norme in discussione con le Convenzioni internazionali, in particolare con la Convenzione Onu del 2003, né su quelli con la prossima ed eventuale e, per quanto mi riguarda, auspicabile direttiva dell’Unione europea in materia di contrasto alla corruzione.

Il tema è stato già particolarmente arato da autorevoli esperti sentiti in precedenza e a me può bastare dichiararmi d’accordo con chi ha evidenziato come l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio potrà inevitabilmente porsi in contrasto con le previsioni della Convenzione Onu e creare, di fatto, una lacuna nella nostra legislazione che richiederà, poi, un intervento ripristinatorio della fattispecie penale, se e quando sarà approvata la direttiva.

 

2. Questa considerazione, sia pure meramente adesiva di altre ben più argomentate, disvela immediatamente la mia posizione sulle scelte del disegno di legge.

Sono in disaccordo con la proposta legislativa di abolire integralmente la fattispecie delittuosa di cui all’art. 323 c.p., per ragioni sia ideologiche che meramente pratiche.

 

2.1. Dal punto di vista ideologico, l’abrogazione – così come è stato evidenziato da un autorevolissimo studioso, certamente non sospettabile di “simpatie giustizialiste”, il prof. Massimo Donini – rappresenta un arretramento pericoloso sul piano dei rapporti fra amministrazione pubblica e cittadino ed appare non in linea con l’ispirazione liberale della nostra legislazione.

Se e quando si giungerà all’abolizione, da quel momento non vi sarà più alcuna tutela penale specifica nel caso in cui un funzionario pubblico porrà in essere atti di favoritismo a vantaggio suo o di altri, ma anche nel caso in cui compia atti deliberati e manifesti di prevaricazione.

Il vuoto di tutela risalterà in modo ancora più evidente, essendo in gioco, in questi casi, valori costituzionali primari, come quello dell’imparzialità dell’azione amministrativa, oggetto di tutela da parte dell’art. 97 Cost.

Che si tratti di un arretramento rispetto ai principi dello Stato liberale è dimostrato, a mio avviso, da una considerazione storico-sistematica.

Subito dopo la caduta del fascismo, fra le primissime riforme che si ritenne urgente adottare, venne prevista la reintroduzione, con un decreto luogotenenziale, della scriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.

La ratio di quell’intervento era chiarissima; è intollerabile in una democrazia che un funzionario pubblico possa eccedere dalle sue prerogative e la cosa è tanto inaccettabile da rendere non punibile persino reati gravi, come la resistenza e la violenza a pubblico ufficiale. 

Oggi, certamente per una non forse ben mediata eterogenesi dei fini e per ragioni anche valide, di cui pure dirò di qui a poco, si rischia di far diventare penalmente neutri anche atti di grave prevaricazione.

 

2.2. Dal punto di vista pratico, l’abolitio delicti priverà gli investigatori di un’importante “fattispecie spia” che consente l’avvio di indagini penali su atti illegittimi degli amministratori pubblici, indagini che, come è capitato in più di una occasione, anche nella mia attuale esperienza concreta di Procuratore della Repubblica, possono poi portare ad individuare ipotesi corruttive.

In futuro, in presenza di esposti e denunce che dovessero prospettare atti illegittimi anche se finalizzati a favorire e danneggiare qualcuno, non potranno essere attivati quegli accertamenti anche non invasivi, come potrebbe essere l’acquisizione di tabulati telefonici, che, però, possono far comprendere soprattutto l’esistenza di rapporti sottostanti e, quindi, le ragioni dei possibili favoritismi, verificando, di conseguenza, se essi sono giustificati dal versamento di utilità corruttive.

Rispetto a questa considerazione, che pure avevo prospettato in qualche intervento pubblico, mi è stato anche autorevolmente contrapposto che essa sarebbe tipica di un’idea delle indagini troppo ampia, quasi da “pesca a strascico”.

Premesso che aborrisco culturalmente la pesca a strascico, sia in senso materiale che in quello figurato, ritengo, però, questa critica né giusta né pertinente.

Chi la fa, evidentemente, non tiene nel giusto conto che le indagini di corruzione più importanti condotte in questo Paese non sono mai nate da notizie di reato ab origine per fatti corruttivi, ma da quelle di altra tipologia che poi, con gli accertamenti effettuati, sono evolute verso la corruzione.

La natura del reato di abuso di ufficio come “fattispecie spia”, prodromica rispetto ad altri reati, non è, del resto, un’invenzione di qualche cercatore della corruzione a tutti i costi, ma è ciò che pensa anche il Legislatore, che non a caso costruisce il delitto come tipicamente “sussidiario”, tanto da innestare nell’incipit della norma incriminatrice la clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”.

 

2.3. Infine, vorrei aggiungere, pur con il doveroso rispetto per i promotori del d.d.l., che non mi paiono sostenibili le tre ragioni indicate nella relazione di accompagnamento a sostegno dell’abrogazione del delitto.  

Secondo la prima, in particolare, vi sarebbe un’enorme sproporzione fra procedimenti avviati e condanne definitive, circostanza questa che dimostrerebbe, quindi, la scarsa utilità in sé della norma ma anche degli interventi normativi precedenti, l’ultimo dei quali, come è noto, del 2020, che avevano cercato di delimitare meglio la fattispecie delittuosa.

Come, però, è stato già detto da altri, meglio di come saprei fare io, “pesare” l’utilità di una norma dalle sue applicazioni o, peggio ancora, dalle condanne scaturite è un metodo non corretto perché, se applicato in questi identici termini, potrebbe portare a dover abolire tantissimi reati del codice penale, quasi mai, ad oggi, applicati e però mai messi in discussione da chicchessia.

D’altro canto, se è vero come è vero che la stragrande maggioranza dei procedimenti per abuso di ufficio (certamente, oltre l’80%) si conclude con l’archiviazione per insussistenza della notizia di reato, è in re ipsa provato il contrario di quanto si postula e, cioè, che la capacità di delimitazione delle condotte punibili da parte del Legislatore ha funzionato, perché evita l’inutile esercizio dell’azione penale.

Del resto, la gran parte dei procedimenti per abuso trova la sua fonte di innesco in denunce di privati che lamentano comportamenti illegittimi di funzionari pubblici e che si rivolgono alla giustizia penale, evidentemente anche perché non hanno trovato soddisfazione nei rimedi interni nell’amministrazione pubblica.

Rispetto a tali fonti di innesco, l’avvio di un’indagine ha l’obiettivo di verificare se all’illegittimità prospettata si accompagnano fatti di favoritismo o di prevaricazione e non si deve certo gridare allo scandalo se, nella quasi totalità dei casi, i procedimenti si chiudono, poi, con “un nulla di fatto” in termini processuali; è una ulteriore dimostrazione che la fattispecie così come strutturata ha comunque una capacità di “filtro” notevole.

Considerare, poi, in sé questo iato in termini negativi è un metodo di valutazione che lascia perplessi, perché se, per paradosso, lo applicassimo ad altre fattispecie penali la cui utilità nessuno discute (ad esempio, i furti), troveremmo percentuali di esercizio dell’azione penale rispetto alle denunce presentate persino inferiori.

La seconda ragione indicata in relazione è che l’abolizione non crea alcun vuoto di tutela perché il sistema dei delitti contro la p.a. è comunque molto articolato e potrebbero, in ogni caso, in via subordinata, essere contestati anche i reati comuni, con l’aggravante ordinaria dell’abuso delle funzioni.

La conclusione nei termini indicati non è, però, corretta; gli atti di favoritismo e, soprattutto, quelli di prevaricazione, anche se molto gravi in concreto, se non accompagnati da minaccia o violenza, al di fuori dell’abuso di ufficio non paiono, invece, integrare alcun reato, né contro la pubblica amministrazione né di altra tipologia.

La terza, infine, fa leva sull’impianto preventivo della cosiddetta anticorruzione amministrativa per evidenziare che, comunque, quei comportamenti non resterebbero irrilevanti.

Per la mia precedente esperienza come Presidente dell’ANAC, non posso non essere felice e persino orgoglioso di questo riconoscimento contenuto nel testo governativo.

Tale argomentazione, però, non tiene conto che i rimedi anticorruzione, per loro natura, riguardano molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari e si concentrano sull’azione complessiva dell’amministrazione, non avendo, quindi, alcun effetto specifico nei confronti della singola azione illecita.

 

 

3. Nel riprendere quanto già anticipato all’inizio del discorso, mi pare inopportuna e pericolosa la totale abrogazione del reato, anche per le conseguenze che possono derivare nella già difficile attività di contrasto alla corruzione.

Ovviamente sono consapevole, anche per il mio precedente ruolo, che l’intervento del Legislatore non nasce così, in modo estemporaneo, e senza alcuna ragione. 

So benissimo qual è il retroterra anche delle tante adesioni espresse a questa proposta di legge da parte di amministratori pubblici, soprattutto locali.

La modifica legislativa si ritiene, infatti, possa incidere, riducendola, sulla cd. “paura della firma” e sul quel modus operandi che viene definito come “amministrazione difensiva”.

A prescindere dai dubbi che questo effetto positivo si concretizzerà effettivamente e a prescindere dalla circostanza che i già citati numeri delle archiviazioni dimostrano come questa paura sia oggettivamente ingiustificata, ritengo si tratti di un argomento che non possa, comunque, essere sottovalutato ed io stesso, da Presidente dell’ANAC, sentito anche in altre audizioni parlamentari, avevo proposto un intervento correttivo del Legislatore anche sulla fattispecie dell’abuso di ufficio.

In questa prospettiva, però, non può non essere rimarcata una novità normativa già introdotta dalla riforma Cartabia (d.lgs. n. 150/2022), quella, in particolare, che ha portato all’innesto del codice di procedura penale dell’art. 335-bis c.p.p., in base al quale si esclude che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato possa avere effetti pregiudizievoli per l’indagato di natura civile ed amministrativa.

In tal modo, si sterilizza già uno dei primi rischi che potrebbero derivare dall’avvio di un’indagine; nessun funzionario pubblico potrà essere sottoposto, per quel solo fatto, a procedimenti disciplinari né a procedimenti amministrativi di altro tipo.

Pur rivendicando l’importanza e l’utilità complessiva del d.lgs. n. 235/2012 in tema di incandidabilità (normativa, quest’ultima, attuativa della legge n. 190/2012, nota come “Legge Severino”), credo, poi, che si potrebbe intervenire su questo testo normativo, escludendo, in particolare, la sospensione degli amministratori pubblici in presenza di una sola sentenza di condanna di primo grado per il delitto di abuso di ufficio.

Quello della sospensione è, infatti, uno degli argomenti spesso utilizzato per criticare la fattispecie delittuosa in esame, soprattutto perché in più casi, anche mediaticamente divenuti molto noti, la condanna di primo grado è stata riformata in appello e la sospensione si è, quindi, trasformata in una ingiustificata sanzione, ancora più pesante se applicata a titolari di cariche elettive, come sindaci o presidenti di Regione.

Intervenire su questo snodo, tornando, ad esempio, alla situazione precedente la “Legge Severino” (che richiedeva, per la sospensione, la cd. “doppia conforme” e, cioè, la conferma di una condanna in appello), eliminerebbe in radice uno dei problemi, senza mettere in discussione né la norma penale sostanziale né, tantomeno, il necessario complessivo impianto della normativa anticorruzione in materia.

Dal punto di vista della fattispecie incriminatrice, infine, si potrebbe ulteriormente lavorare di “cesello” sui presupposti applicativi, rendendo ancora più tassativa la fattispecie e concentrando gli aspetti di disvalore penale soprattutto sui comportamenti prevaricatori del pubblico funzionario e su quelli di favore commessi da chi si trova in situazione di conflitto di interessi.

 

 

4. Quanto, invece, al delitto di traffico di influenze illecite, il d.d.l. in esame interviene sulla fattispecie delittuosa, introdotta dalla citata legge n. 190/2012 con l’innesto nel codice penale dell’art. 346-bis, già oggetto di una robusta riscrittura ad opera della legge n. 3/2019, nota come “Spazzacorrotti”.   

Con esso si intende ridisegnare il perimetro applicativo del delitto sterilizzando gran parte delle modifiche introdotte nel 2019.

Anticipando anche in questo caso le conclusioni, i risultati che potrebbero derivare dall’approvazione del testo in esame, pur essendo, per alcuni versi, apprezzabili, per altri, però, rischiano di ridimensionare in modo eccessivo la portata applicativa della norma, rendendola, soprattutto con riferimento ad una delle sue sottofattispecie, in concreto poco utile se non, persino, meramente “ornamentale”.

 

4.1. La prefigurata formulazione dell’art. 346-bis prevede, innanzitutto, che, per essere punibile, il trafficante di influenze dovrà sfruttare “intenzionalmente”, il rapporto con il pubblico ufficiale.

Si tratta di una modifica che, evidentemente, vuole escludere che si possa punire un comportamento accompagnato dal mero dolo eventuale; si tratta di una precisazione che, per quanto in astratto condivisibile, è probabilmente anche superflua, apparendo comunque difficile ipotizzare, in concreto, casi in cui lo sfruttamento del rapporto possa essere avvenuto non per una volontà specifica del trafficante di conseguire questo risultato.  

 

4.2. Il d.d.l., espellendo dalla fattispecie lo sfruttamento delle relazioni asserite e lasciandovi solo le relazioni esistenti, intende sul punto ripristinare il testo originario recato dalla Legge Severino,

Si tratta di una scelta opportuna che raccoglie anche quelle critiche che avevano giudicato negativamente l’aver messo sullo stesso piano comportamenti oggettivamente connotati da diverso disvalore. 

Con l’approvazione del d.d.l., però, il ritorno alla situazione precedente è solo parziale, perché l’eventuale sfruttamento delle relazioni asserite (e, cioè, la cd. venditio fumi”) potrà essere certamente punita come truffa, ma richiederà la querela di parte, non necessaria nel vecchio millantato credito, e comporterà una pena inferiore rispetto a quella della fattispecie abrogata nel 2019.

 

4.3. Ulteriore aspetto oggetto di modifica è la contropartita della mediazione: l’utilità promessa o versata dovrà avere carattere “economico”, escludendo, quindi, vantaggi non patrimoniali, idonei a soddisfare un qualsiasi bisogno umano, oggettivamente apprezzabili, materiali o morali, consistenti tanto in un dare che in un facere.

Tale limitazione appare, però, a mio avviso, poco coerente con il sistema punitivo dei reati contro la pubblica amministrazione, in generale, e dei reati di corruzione, in particolare, a cui il traffico di influenze illecite è considerato prodromico.

Per integrare questi ultimi, infatti, è sufficiente un’utilità, che non necessariamente deve essere suscettibile di valutazione patrimoniale.   

 

4.4. Vanno considerati molto positivamente gli obiettivi perseguiti dal disegno di legge con l’inserimento della fattispecie di traffico di influenze fra quelle che possono dar luogo alla speciale attenuante della collaborazione di cui al comma 2 dell’art. 323-bis c.p. e alla causa di non punibilità di cui all’art. 323-ter c.p.

L’esclusione dal catalogo dei reati presupposto della norma incriminatrice in esame in quelle due norme era del resto apparso ingiustificato a molti dei commentatori della disciplina vigente.

L’inserimento proposto renderà, quindi, possibile utilizzare quegli strumenti premiali nella logica di favorire l’emersione di una tipologia di reato destinata a restare, nella quasi totalità dei casi, “sotto traccia”.

 

4.5. Sul piano sanzionatorio, la proposta governativa prefigura un aumento del minimo edittale, portato da un anno ad un anno e sei mesi.

L’incremento viene giustificato nella relazione di accompagnamento, come “conseguenza della riduzione dell’ambito applicativo (limitato a condotte particolarmente gravi)” aggiungendosi, anche, che l’utilità di tale novità si giustifica in quanto nella prassi sul minimo edittale sono parametrate sovente le condanne.

A prescindere da quest’ultima considerazione, l’intervento sulla pena appare meramente simbolico, scarsamente significativo sul piano quantitativo (la pena attuale parte, infatti, da un anno) e, quindi, sostanzialmente inutile, anche perché resta immutato il massimo editale, ritoccando della stessa quantità il quale, invece, si sarebbero potute ottenere ricadute significative sul piano investigativo e quindi rendere possibile l’utilizzo dello strumento delle intercettazioni.              

 

 

5. La modifica più rilevante che si propone di conseguire il d.d.l. è certamente, però, soprattutto un’altra e per comprendere la sua oggettiva rilevanza è necessaria una brevissima premessa.  

Come è noto, la fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. punisce due forme di traffico di influenze, quello cd. “gratuito”, in cui il trafficante si fa pagare per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, e quello “oneroso”, in cui il trafficante si fa dare una contropartita per sé stesso, come prezzo della mediazione illecita nei confronti del funzionario pubblico.

Se la prima forma di mediazione, come è stato evidenziato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, risulta in re ipsa sufficientemente chiara, in quanto essa assume la forma di un illecito con finalità prospetticamente corruttive, sul quid consistam della seconda sono sempre stati avanzati dubbi in dottrina e, soprattutto, essa è stata oggetto di molteplici ed argomentate critiche, ritenendo quell’endiadi, non esplicitamente definita, scarsamente tassativa.

Questa sottofattispecie, però, è, d’altra parte, quella più importante nella strategia di contrasto dei fenomeni corruttivi perché la sua funzione è punire l’attività dei cd faccendieri o facilitatori, di coloro, cioè, che rappresentano quel sottobosco, purtroppo presente a latere delle amministrazioni pubbliche, capace, grazie alla rete di rapporti intessuti nel tempo con funzionari pubblici di carriera e/o onorari, di determinare in concreto scelte dell’amministrazione medesima.

La loro intromissione nell’attività amministrativa rappresenta una delle forme più gravi di inquinamento dell’azione pubblica, essendo funzionale allo sviamento di quest’ultima verso finalità tipicamente estranee al perseguimento degli interessi generali.

 

5.1. Questa attività certamente non commendevole e giustamente ritenuta penalmente rilevante appare, d’altro canto, indiscutibilmente viciniore ad altra, invece, tipica delle moderne democrazie occidentali e considerata dovunque pienamente legittima; ci si riferisce, in particolare, all’azione dei portatori di interesse, i cd. lobbisti, soggetti che, invece, legittimamente agiscono perché vengano tenute conto dai regolatori, in sede legislativa ed amministrativa, le legittime aspirazioni dei loro clienti, titolari di interessi che potrebbero essere incisi da provvedimenti normativi o legislativi.

Proprio il carattere astrattamente confinante delle due attività, aveva convinto gran parte degli studiosi che l’indiscutibile difetto di tassatività della norma sul punto in esame avrebbe potuto essere risolto attraverso la regolamentazione delle lobby che, stabilendo il quid consistam della mediazione lecita, avrebbe anche indirettamente potuto individuare quella illecita.

 

5.2. In assenza ed in attesa di tale auspicabile regolamentazione, la giurisprudenza, in via di supplenza, si era assunta l’onere di precisare il significato dell’espressione e lo aveva fatto con più sentenze (Cass. Sez. VI, n.  40518/2021 e Cass. Sez. VI, n. 1182/2022) che avevano sufficientemente delimitato la condotta punibile.

Secondo i predetti arresti, “la mediazione onerosa è illecita se l’accordo tra il committente ed il mediatore è finalizzato alla commissione di un illecito penale idoneo a produrre vantaggi indebiti al primo, non assumendo rilievo l'illegittimità negoziale per difformità dal contratto tipico di mediazione ovvero il mero uso di una relazione personale, preesistente o potenziale, tra il mediatore ed il pubblico agente per il conseguimento di un fine lecito”.

La lettura proposta, una volta consolidatasi, avrebbe probabilmente consentito, nel diritto vivente, di ritenere superati i dubbi sul difetto di tassatività della norma incriminatrice.   

 

5.3. Tutta questa, purtroppo, lunga premessa è necessaria per rimarcare come il d.d.l. abbia optato per una soluzione diversa da quella attesa, probabilmente nella consapevolezza che i tempi per una regolamentazione delle lobby non sono ancora maturi.

Si è fatto carico, quindi, dell’onere di fornire una definizione dell’espressione di cui si è detto, circoscrivendo l’azione in questione in relazione alla particolare finalità perseguita attraverso la mediazione, che diventa illecita quando volta ad indurre il pubblico agente a compiere un “atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito” per il privato.

La disposizione prefigurata sembra, quindi, recuperare sostanzialmente nel precetto l’interpretazione finora “pretoria” della giurisprudenza e non può che essere considerata, almeno in astratto, meritoria perché riporta nella giusta dimensione del principio di legalità e di riserva di legge l’esigenza di garantire la tassatività di una fattispecie incriminatrice.

 

5.4. Senonché i tre concomitanti presupposti, indicati dalla futura norma (e, cioè, che la mediazione finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio, che sia qualificabile come “fatto reato” e che, infine, sia idonea a produrre vantaggi “indebiti” per il privato committente), assumono una ben diversa valenza in presenza della possibile contestuale abrogazione del delitto di abuso di ufficio.

Nell’esperienza pratica, emersa anche in procedimenti penali che hanno avuto una certa notorietà, si è infatti individuato, con sempre maggiore nitore, il modus operandi dei faccendieri.

Costoro, in particolare, promettono ai propri “clienti” un intervento favorevole sul funzionario pubblico, non perché lo remunerano, ma in quanto spendono le relazioni create con essi in precedenza; volendo semplificare, l’attività in cambio della quale richiedono l’utilità è quella di “raccomandare” al funzionario pubblico la soluzione del “problema” di interesse del proprio “protetto”.

Il comportamento richiesto all’agente pubblico può essere considerato attualmente penalmente rilevante, integrando l’attività di favoritismo indebito proprio il delitto di abuso di ufficio.

Depenalizzando le condotte di abuso, si finisce, invece, per far venir meno uno dei tre presupposti necessari per considerare illecita la mediazione e, quindi, per scriminare alcune delle azioni tipiche dei faccendieri.

Come si è evidenziato in sede di primo commento del disegno di legge, rischierebbe di diventare, per esempio, lecito il pagamento di una somma di denaro ad un soggetto per “spingere” su un magistrato perché decida in un modo piuttosto che in un altro!

Ma potrebbero essere numerosi gli esempi analoghi di impunità futura di comportamenti; lo sarebbe, ad esempio, il pagamento anche di una grossa somma di denaro a chi promette una raccomandazione nei confronti di un componente di una commissione di un concorso pubblico, con cui ha rapporti personali, per far risultare vincitore il suo “cliente”.

 

 

6. Le considerazioni finora svolte, se corrette, giustificano quindi quanto si è già detto poco sopra e cioè che gli spazi concreti di operatività della norma incriminatrice potrebbero in futuro restringersi notevolmente, non escludendosi nemmeno che la possa essere travolgere, applicando l’art. 2 c.p., le poche condanne passate in giudicato finora giunte.   

Al di là di questa considerazione, c’è un ulteriore effetto, probabilmente non valutato dai proponenti la riforma, che potrebbe anche esporre il nostro Paese a sicure critiche sul versante internazionale.

La definizione della mediazione illecita indirettamente potrebbe, infatti, rappresentare essa stessa quell’actio finum regundorum delle attività legittime che possono fare i lobbisti.

In assenza di altre norme regolative, tutto ciò che non è vietato non può non essere considerato lecito, per cui sarebbe tutt’altro che un paradosso, a seguito della riforma, che si giunga a qualificare come legittima attività lobbistica comportamenti di faccendieri come quelli sopra descritti, azioni, però, che in nessuno Stato occidentale sarebbero mai tollerate.