A proposito del d.l. 8 aprile 2020 n. 23
Pubblichiamo di seguito il testo di un intervento di Francesco Greco (Procuratore della Repubblica di Milano) e Giovanni Melillo (Procuratore della Repubblica di Napoli), apparso su La Repubblica il 10 aprile 2020. Per il testo del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 ("Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali"), pubblicato sulla nostra Rivista unitamente alla relazione illustrativa, clicca qui. Per un contributo del Prof. Francesco Mucciarelli, sui profili dello stesso decreto-legge relativi alla disciplina della crisi d'impresa, clicca qui.
Alcuni aspetti del Decreto Credito, osservati nella prospettiva delle politiche di prevenzione criminale, appaiono assai preoccupanti, anche nella prospettiva di un ordinamento, come quello italiano, che ha nel tempo sviluppato una solida reputazione internazionale nel contrasto delle più pericolose organizzazioni mafiose e del conseguente rischio di utilizzo del sistema finanziario a scopi di riciclaggio. Nel momento nel quale il Governo attiva una gigantesca iniezione di liquidità nel mercato delle imprese, si avverte, infatti, tutto il peso dell’inadeguatezza degli strumenti di controllo del rischio di distorsioni applicative in grado di favorire indebite erogazioni e persino i processi di accumulazione patrimoniale tipici del crimine organizzato.
La magistratura, le forze di polizia e le altre istituzioni preposte al contrasto del riciclaggio e della criminalità degli affari opereranno per un controllo di ogni condotta di malversazione, distrazione o truffa nelle erogazioni del credito così come non vi è dubbio che le banche e la stessa Sace segnaleranno tempestivamente eventuali operazioni sospette, capaci di generare ed alimentare programmi investigativi che richiederanno il dispiegamento di ogni strumento di coordinamento e cooperazione.
Tuttavia, anche considerando la vastissima platea dei beneficiari, occorrono più alti e resistenti argini normativi rispetto ai pericoli che si profilano. Nessun strumento tecnico-giuridico è previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose. Un rischio assai concreto, avendo ben chiare le reali dimensioni dell’espansione affaristica propria delle componenti più raffinate dei circuiti di influenza mafiosa, che non solo non aiuta a spiegare la sostanziale rinuncia ai tradizionali controlli prefettizi, ma che sembra finanche accettato con rassegnazione, quando si prevede che, emergendo successivamente la contiguità mafiosa dell’impresa finanziata, la revoca delle agevolazioni già concesse (e ben difficilmente recuperabili) non farà venir meno la garanzia dello Stato. Non appaiono privi di significato i silenzi del decreto, quando, ad esempio, si rinuncia alla tracciabilità dell’uso del finanziamento, attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati, in grado di facilitare l’individuazione di anomalie e rischi di riciclaggio, ma anche, nell’attuale fase di grave esposizione delle imprese al rischio di vessazioni usurarie e mafiose, una preziosa risorsa investigativa.
In generale, appare concreto il rischio che si determinino condizioni favorevoli ad un imponente trasferimento di risorse pubbliche dallo Stato ad imprese governate da interessi opachi o prettamente illeciti, finanziando di fatto anche evasori e truffatori seriali, quando non anche fiduciari delle organizzazioni criminali della peggior specie. Pur comprendendo la necessità di enfatizzare più i profili di immediatezza del finanziamento piuttosto che quelli di rigorosità e trasparenza delle procedure, non convince la scelta di rinunciare anche a subordinare l’accesso al credito agevolato al preventivo assolvimento di un obbligo dell’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale. Si sarebbe così introdotto un preciso dovere di una sorta di offerta reputazionale, essenziale per giustificare la destinazione di risorse collettive all’impresa in crisi, agevolmente verificabile e gravemente sanzionabile in caso di falsità.
E dato che nel sistema così delineato è anche alto il rischio che finanziamenti con la garanzia dello Stato siano concessi ad imprenditori che hanno accumulato cash in conti bancari esteri come in cassette di sicurezza nostrane, perché non estendere quell’obbligo di attestazione anche alla inesistenza di liquidità personali alle quali sarebbe doveroso ricorrere per capitalizzare le imprese in crisi, anziché attingere a risorse pubbliche così sottratte ad imprese realmente bisognose? Sarebbe un modo per tenere lontani dall’accesso ai finanziamenti garantiti dallo Stato imprenditori che davvero non ne avrebbero bisogno, come sottolineato dal Ceo di Intesa-San Paolo Carlo Messina. Né va sottaciuto quanto segnalato dai professori Boeri e Perotti in ordine al rischio dell’utilizzazione dei finanziamenti per ristrutturare le esposizioni, sostituendo la garanzia dello Stato a quella, oggi più incerta, legata al rischio di impresa.
Ma sui meccanismi di finanziamento delle imprese prostrate dalla crisi Covid-19 pesano anche altri interrogativi, cui almeno la legge conversione del decreto o una nuova, immediata manovra normativa dovrebbe dare più adeguata risposta. In particolare, ci si riferisce alla necessaria tracciabilità degli impieghi ed alla loro finalizzazione a sostenere i livelli occupazionali e le spese correnti che renderebbe altresì necessario un obbligo di rendicontazione da parte dell’amministratore ed un analogo dovere di verifica degli organi di controllo interni, con conseguente segnalazione immediata alla banca finanziatrice e all’autorità giudiziaria dell’inadempimento degli obblighi assunti all’atto del finanziamento. Ne risulterebbe grandemente potenziata la capacità dello Stato di individuare tempestivamente abusi e condotte penalmente rilevanti, spesso sintomatiche delle dinamiche e degli interessi speculativi di strutture mafiose e, nello stesso tempo, della corrispondente emersione di una prepotente domanda di legittimazione sociale di antiche e nuove leadership criminali.
Si scorgono, dunque, istanze di controllo che avrebbero meritato immediata e più attenta considerazione normativa e che ora esigono urgenti correzioni di rotta.
In conclusione, la lettura del decreto non offre risposte rassicuranti alla domanda fondamentale: è possibile fare in modo che la più poderosa delle manovre di immissione di liquidità nel mercato delle imprese non apra la strada a sistematici abusi e ruberie? In un Paese ove il crimine organizzato, la corruzione e l’evasione fiscale sono connotazioni strutturali di ampia parte del tessuto sociale ed economico e la macchina giudiziaria, già lenta e farraginosa, sarà sfiancata da una lunga fase di paralisi, risposte lacunose e tardive proietteranno la loro ombra non solo sulla finanza pubblica, ma anche sulla tenuta della coesione sociale e delle stesse istituzioni democratiche cui compete garantire l’effettività della promessa di eguaglianza e di progresso sociale inscritta nel patto costituzionale. Anche nel tempo buio del contagio da Covid-19.