Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Maria Crippa (artt. 2, 3, 10 e 14 Cedu) e Stefania Basilico (artt. 5 e 6 Cedu).
A gennaio abbiamo selezionato pronunce relative a: morte di persona sottoposta ad arresto (art. 2); sofferenze fisiche della vittima di torture e sofferenze morali dei famigliari (art. 3); contenzione di paziente psichiatrico (art. 5); equità processuale, imparzialità del giudice, contraddittorio e presunzione di innocenza (art. 6); dichiarazioni autoincriminanti rese in assenza del difensore (art. 6); condanna di giornalisti italiani per articoli diffamatori dell’Arma dei Carabinieri in relazione all’omicidio Tobagi (art. 10); orientamento sessuale e incitamento all’odio (art. 14).
ART. 2 CEDU
C. edu, sez. V, 30 gennaio 2020, Saribekyan e Balyan c. Azerbaijan
Diritto alla vita - obblighi positivi sostanziali – violazione - obblighi positivi procedurali – obbligo di condurre indagini effettive – violazione
I ricorrenti, due cittadini armeni residenti nella regione settentrionale dello Stato confinante con l’Azerbaijan, lamentavano la violazione dell’art. 2 Cedu, nei suoi profili tanto sostanziali quanto processuali, in relazione all’uccisione del proprio figlio da parte delle autorità azere. Il ragazzo era stato arrestato in occasione dell’involontario superamento del confine, con l’accusa di avere pianificato un attacco terroristico contro una scuola del vicino villaggio azero. Il mese successivo il figlio dei ricorrenti era deceduto in Azerbaijan nella cella nella quale era stato fino ad allora detenuto; secondo la versione fornita dalle autorità azere, la vittima si era tolta la vita. La C. eur. dir. uomo ha accolto il ricorso, osservando innanzitutto come in ipotesi di decesso in stato di detenzione lo standard probatorio applicabile non debba attestarsi all’oltre ogni ragionevole dubbio, dovendosi bensì ricorrere a forti presunzioni di fatto in relazione alla responsabilità delle autorità (§ 68). Il governo resistente non aveva a tal proposito fornito, secondo i giudici, alcuna spiegazione convincente idonea a confutare l’ipotesi di omicidio da parte delle autorità azere, confortata al contrario dalle indagini svolte in Armenia. La C. eur. dir. uomo ha altresì ravvisato la violazione degli obblighi processuali ex art. 2 Cedu, evidenziando come il governo azero avesse disatteso l’obbligo di condurre indagini effettive al fine di escludere che il decesso, avvenuto in un contesto generalizzato di tensione interstatale, fosse motivato da ragioni di odio etnico. Al contrario, il campo d’investigazione delle autorità azere era stato inficiato non solo dalla presunzione che il figlio dei ricorrenti si fosse tolto la vita, ma anche dall’accusa di terrorismo avanzata nei confronti del cittadino di origine armena (§ 71-72). Infine, i giudici hanno sottolineato che l’assenza di relazioni diplomatiche non esime gli Stati dall’obbligo processuale di cooperazione nella conduzione delle indagini (§ 73). (Maria Crippa)
Riferimenti bibliografici: T. Trinchera, La Corte europea di fronte alla minaccia di attentati terroristici: tra obblighi di prevenzione e limiti imposti all’uso della “forza letale”, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2017, p. 1200.
ART. 3 CEDU
C. edu, sez. V, 30 gennaio 2020, Saribekyan e Balyan c. Azerbaijan
Tortura - trattamenti inumani e degradanti - obblighi positivi sostanziali - violazione – sofferenza morale dei ricorrenti – non violazione
Per la sintesi della vicenda v. supra, sub art. 2 Cedu. I ricorrenti lamentavano altresì la violazione dell’art. 3 Cedu, sostenendo che il proprio figlio fosse stato torturato e sottoposto a trattamenti inumani e degradanti da parte delle autorità azere prima di essere ucciso. La C. eur. dir. uomo ha accolto il ricorso anche sotto tale profilo, richiamando quanto evidenziato dalle perizie armene, che avevano riscontrato lesioni da strangolamento, emorragie in diverse parti del corpo (quali reni, petto, zona lombare) nonché un trauma cranico causato da un oggetto appuntito. Al contrario, il governo resistente non aveva fornito riscontri idonei a confutare tale ipotesi, nonostante le circostanze in cui era avvenuto l’arresto imponessero il già richiamato dovere di svolgere indagini accurate al fine di escludere che il movente di odio etnico avesse contribuito alle violenze (§ 86, 87). I giudici hanno ritenuto integrata la fattispecie di tortura, in ragione della gravità e della crudeltà delle sevizie, perpetrate intenzionalmente ad un soggetto detenuto e sottoposto al controllo esclusivo delle autorità (§ 87). I ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 3 Cedu altresì in relazione alle sofferenze da loro stessi subite a causa degli eventi e dell’impossibilità di venire a conoscenza di quanto realmente accaduto al figlio. La C. eur. dir. uomo ha, tuttavia, rigettato all’unanimità tale profilo, ritenendolo assorbito dalla violazione degli obblighi procedurali di cui all’art. 2 Cedu (v. supra, sub art. 2 Cedu). Pur riconoscendo il dolore causato dalla mancata conoscenza delle vicende relative alla morte del figlio, i giudici hanno ritenuto insussistente qualsiasi circostanza eccezionale, quale la presenza dei ricorrenti al momento dei fatti, che avrebbe potuto giustificare una distinta violazione sotto il profilo di una grave sofferenza emotiva (§ 90). (Maria Crippa)
Riferimenti bibliografici: A. Aimi, La mancata punizione dei torturatori di Bolzaneto: una nuova macchia sulla “fedina convenzionale” dello Stato italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2018, p. 351.
ART. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 gennaio 2020, Strazimiri c. Albania
Diritto alla libertà e alla sicurezza - schizofrenia paranoica del ricorrente - collocamento del ricorrente presso un istituto penitenziario anziché presso una struttura civile - assenza di trattamento terapeutico personalizzato - violazione
Controllo di legalità della detenzione - lungaggini ingiustificate nell’esaminare l’impugnazione del richiedente - violazione
Risarcimento dei danni per ingiusta detenzione – assenza di diritto ad ottenerlo nella legge nazionale - violazione
I giudici nazionali avevano disposto che il ricorrente, affetto da schizofrenia paranoica e socialmente pericoloso, fosse assoggettato ad un trattamento medico obbligatorio presso un’istituzione sanitaria specializzata (§ 7). Tuttavia, contrariamente a quanto prescritto dalla legge interna (§ 121), il ricorrente veniva detenuto presso il reparto ospedaliero di un istituto penitenziario (§ 13), ove non riceveva alcun trattamento terapeutico personalizzato. Nelle more del procedimento di terzo grado, instaurato al fine di ottenere il trasferimento presso un istituto psichiatrico, il ricorrente ha adito la C. eur. dir. uomo sostenendo che la sua detenzione presso l’istituto penale, così come le lungaggini del procedimento di impugnazione (§ 125), violassero il suo diritto alla libertà ed a un controllo della legalità della detenzione ex art. 5 Cedu (§ 113). Il ricorrente si è doluto altresì della lacuna legislativa concernente il diritto al risarcimento del danno per ingiusta detenzione (§ 130). I giudici di Strasburgo hanno accolto tutte le pretese del ricorrente. In primo luogo, oltre all’“abbandono terapeutico” del ricorrente, hanno accertato l’illegittimità della sua detenzione presso l’istituto penitenziario perchè non conforme alla legge (§ 121 -124). In secondo luogo, rilevata la pendenza da oltre tre anni del procedimento di impugnazione, hanno dichiarato l’irragionevole durata dello stesso (§ 129). Da ultimo, hanno censurato la mancanza nella legislazione albanese di una norma che, in caso di illegittima detenzione, assicuri la tutela del diritto al risarcimento del danno. (Stefania Basilico)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 14 gennaio 2020, Khodorkovsky e Lebedev c. Russia
Equità processuale - presunzione di imparzialità del giudice - non violazione
Equità processuale - omissione dell’esame incrociato dei periti – inammissibilità della testimonianza dei periti indicati dalla difesa - limitazione sproporzionata al diritto di difesa - violazione
Equità processuale - presunzione di innocenza - dichiarazioni equivoche da parte del primo ministro immediati chiarimenti del primo ministro - non violazione
I ricorrenti hanno adito la Corte EDU sostenendo l’iniquità del procedimento svolto nei loro confronti, sia sotto il profilo dell’imparzialità soggettiva dell’organo giudicante (§ 413) sia sotto quello del diritto al contraddittorio ed alla parità delle armi (§ 436), nonché con riferimento al principio della presunzione d’innocenza (§ 534). Quanto al tema dell’imparzialità soggettiva, i giudici di Strasburgo hanno escluso la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu in quanto i ricorrenti non hanno fornito prove sufficienti a superare la presunzione di imparzialità che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte EDU (§ 425), opera in materia (§ 433). Di contro, il procedimento de quo è stato iniquo sotto il profilo del diritto al contraddittorio e della parità delle armi. Da una parte, la condanna dei ricorrenti si è basata su relazioni di periti che i ricorrenti non hanno potuto sottoporre ad esame incrociato senza giustificato motivo (§ 485). Dall’altra, l’organo giudicante ha sproporzionalmente dichiarato inammissibile la prova testimoniale di otto su nove periti indicati dalla difesa adducendone genericamente l’incompetenza e la mancanza di imparzialità (§ 495-497). Per quanto concerne infine il principio della presunzione di innocenza, che i ricorrenti assumono violato per aver il primo ministro, in pendenza del processo, reso dichiarazioni asseritamente diffamatorie, la Corte EDU ha escluso la violazione dell’art. 6 comma 2 Cedu, essendosi trattato di dichiarazioni equivoche e comunque immediatamente oggetto di chiarimenti da parte dello stesso primo ministro (§ 550). (Stefania Basilico)
Riferimenti bibliografici: F. Zacchè, Ammissione della prova a discarico: il nuovo test “Murtazaliyeva”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1057 ss.; L. Pressacco, Imparzialità del giudice e responsabilità del magistrato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, p. 1837 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 28 gennaio 2020, Mehmet Zeki Celebi c. Turchia
Equità processuale - dichiarazioni autoincriminanti rese alla polizia, al pubblico ministero ed al giudice istruttore senza l’assistenza di un legale - successiva conferma, in presenza di un avvocato, di quanto dichiarato - condanna del ricorrente basata su dette dichiarazioni - violazione
Il ricorrente, condannato per l’appartenenza ad un’organizzazione terroristica, aveva reso alla polizia, al pubblico ministero ed al giudice istruttore delle dichiarazioni autoincriminanti, senza l’assistenza di un avvocato. Si è quindi rivolto ai giudici di Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 6 comma 3 lett. c Cedu (§ 36). La Corte EDU, chiarito che il diritto all’assistenza legale può essere eccezionalmente e temporaneamente limitato solo in presenza di concreti e validi motivi, quali, a titolo esemplificativo, il concreto pregiudizio ai beni della vita, della libertà e dell’integrità fisica (§ 46), e che non è bastevole in tal senso una legislazione che precluda la presenza di un avvocato per reati contro la sicurezza nazionale (§55), ha escluso la ricorrenza nella specie di motivi di tal genere (§ 56). I giudici di Strasburgo hanno altresì precisato che il processo in questione non potesse considerarsi equo nemmeno sulla base della circostanza che il ricorrente avesse successivamente reiterato le dichiarazioni autoincriminanti in presenza di un avvocato (§ 66). Da ultimo, tenuto conto di quanto sopra e della decisività delle dichiarazioni autoincriminanti per la condanna del ricorrente, la Corte EDU ha accertato la mancanza di adeguate garanzie procedurali sopperenti la limitazione del diritto all’assistenza tecnica patita dal ricorrente (§ 72). Da qui la declaratoria di iniquità del procedimento in questione. (Stefania Basilico)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Violazione della difesa tecnica ed equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1211.
ART. 10 CEDU
C. edu, sez. I, 16 gennaio 2020, Magosso e Brindani c. Italia
Libertà di espressione – condanna di giornalisti per la pubblicazione di articoli diffamatori – verifica della serietà delle fonti - gravità della sanzione – violazione
La vicenda riguardava la condanna per diffamazione dei ricorrenti, un giornalista ed il direttore responsabile del settimanale italiano Gente, in relazione alla pubblicazione nel 2004 di una intervista resa da un ufficiale in congedo dei carabinieri circa l’uccisione del giornalista Walter Tobagi, avvenuta nel 1980 ad opera dell’organizzazione terroristica Brigata 28 marzo. Nell’articolo si sosteneva, in particolare, che le autorità di pubblica sicurezza italiane fossero state a tempo debito informate di un piano per l’uccisione del giornalista, e che pertanto l’omicidio di quest’ultimo sarebbe stato evitabile. I ricorrenti venivano condannati in via definitiva dalle corti nazionali per diffamazione; nel processo si costituivano parte civile il capitano dei carabinieri A.R. e la sorella del capitano dei carabinieri U.B., nel frattempo deceduto, entrambi menzionati nell’intervista. La C. eur. dir. uomo ha accolto il ricorso per violazione della libertà di espressione dei ricorrenti ai sensi dell’art. 10 Cedu. Premessa l’importanza della vicenda per la storia politica nazionale, i giudici hanno innanzitutto riconosciuto la necessità di distinguere l’attività di cronaca giornalistica dall’ipotesi di mera intervista, consistente nella semplice riproduzione di affermazioni rese da terzi. In tal senso, i ricorrenti avrebbero agito in buona fede, adempiendo il dovere di verifica dei fatti sulla base di prove sufficientemente affidabili ed accurante in proporzione alla natura e alla gravità delle asserzioni (§ 55, 56). La tutela degli interessi delle parti civili sarebbe stata invero già garantita dalla condanna dell’ufficiale intervistato, autore diretto delle affermazioni diffamatorie (§ 54). La C. eur. dir. uomo ha ritenuto che la condanna dei ricorrenti per diffamazione avesse costituito una interferenza sproporzionata nella loro libertà di espressione, non qualificabile come misura necessaria in una società democratica ai sensi dell’art. 10 Cedu (§ 62), tanto per l’insussistenza di motivazioni adeguate, quanto per la eccessiva severità delle sanzioni inflitte (i.e. multa pari a 1.000 euro per Magosso e 300 euro per Brindani, nonché condanna al risarcimento in solido del danno morale a favore delle parti civili, da liquidarsi in sede civile, con provvisionale immediatamente esecutiva pari a 120.000 euro) (§ 58, 59). (Maria Crippa)
Riferimenti bibliografici: G. Spinelli, Secondo la Corte europea, il reato di vilipendio alla Corona non merita la pena detentiva: il caso Stern Taulats e Roura Capellera c. Spagna, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2018, p. 1841; G. Spinelli, La tutela della pace religiosa interna può giustificare limitazioni alla libertà di espressione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2019 p. 666.
ART. 14 CEDU
C. edu, sez. II, 14 gennaio 2020, Beizaras e Levickas c. Lituania
Discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale – rispetto della vita privata e della dignità personale – violazione – art. 13 Cedu – diritto ad un ricorso effettivo – violazione
Il procedimento nazionale traeva origine dalla pubblicazione di una fotografia ritraente un bacio tra i due ricorrenti, una coppia lituana omosessuale, sul proprio profilo Facebook. L’immagine, visibile al pubblico senza restrizioni, assumeva in breve tempo diffusione virale e riceveva centinaia di commenti particolarmente offensivi, alcuni dei quali incitanti all’odio ed alla violenza nei confronti della comunità LGBT, altri invece di minaccia diretta personalmente contro la coppia. I ricorrenti, rappresentati dall’organizzazione non governativa LGL Association, presentavano denuncia alle autorità, chiedendo l’avvio di un procedimento penale nei confronti dei responsabili per incitamento all’odio ed alla violenza nei confronti delle persone omosessuali. Il procuratore distrettuale competente decideva, tuttavia, di non aprire le indagini, ritenendo insussistente il requisito dell’azione sistematica, in quanto ciascun commento isolatamente considerato era da ritenersi meramente espressivo di una opinione personale, seppure eticamente riprovevole. Le corti nazionali rigettavano i ricorsi avverso tale decisione, qualificando il comportamento della coppia come eccentrico e deliberatamente provocativo, tanto da indurre alla prevedibile lesione della coesione sociale e dello spirito di tolleranza in una nazione fortemente ancorata ai valori della famiglia tradizionale. La C. eur. dir. uomo ha ravvisato la violazione dell’art. 14 Cedu, in combinato disposto con l’art. 8 Cedu, in ragione della discriminazione subita dai ricorrenti per il proprio orientamento sessuale, ritenuta lesiva della loro dignità personale. I giudici hanno considerato discriminatori sia i commenti postati dagli utenti del social network, sia i provvedimenti adottati dalle autorità giudiziarie nazionali, che avevano motivato la decisione di negare l’apertura di procedimenti penali a tutela dei diritti dei ricorrenti facendo esplicito riferimento all’orientamento sessuale della coppia (§ 129). La C. eur. dir. uomo ha ravvisato altresì la violazione dell’art. 13 Cedu, in relazione all’art. 14 Cedu, per non aver assicurato ai ricorrenti il diritto ad un rimedio effettivo contro i commenti a carattere omofobico, discriminatori e lesivi della loro dignità personale (§ 156). (Maria Crippa)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2017, p. 1192.