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19 Giugno 2020


Osservatorio Corte EDU: maggio 2020

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Cecilia Pagella (artt. 3, 7 e 10 Cedu) e Francesca Ertola (artt. 5 e 6 Cedu).

In maggio abbiamo selezionato pronunce relative a: ambito di applicazione territoriale dell’art. 3 Cedu; esercizio dei poteri di polizia di sgombero di campi nomadi abusivi (art. 3 Cedu); limiti massimi di durata della custodia cautelare (art. 5 Cedu); equità processuale e testimonianza del coimputato in procedimento connesso (art. 6 Cedu); procedimento “a porte chiuse” e dichiarazioni della vittima ai media (art. 6 Cedu); formulazione vaga del precetto penale e prevedibilità della sanzione (art. 7 Cedu); retroattività in malam partem di un’ipotesi di confisca (art. 7 Cedu); condanna per la pubblicazione di un articolo contenente dichiarazioni provenienti da organizzazione terrorista (art. 10 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

 

C. eur. dir. dell'uomo, Grande Camera, 5 maggio 2020, M.N. e altri c. Belgio

Trattamenti inumani e degradanti in un Paese non parte della Convenzione – rigetto della richiesta d'asilo – esercizio extraterritoriale della giurisdizione – irricevibilità.

I ricorrenti, due cittadini siriani e i loro due figli minori, richiedevano all'ambasciata belga il rilascio di un documento che consentisse loro di fare ingresso in Belgio e ivi soggiornare per il tempo necessario a formalizzare una richiesta d'asilo. La richiesta di soggiorno era giustificata dalla situazione di assoluta urgenza in cui i ricorrenti versavano: i bombardamenti ad Aleppo avevano distrutto la loro casa, reso difficoltoso l'accesso all'acqua, al cibo e all'elettricità e costretto i bambini ad abbandonare la scuola. Il Belgio negava il permesso, argomentando che il visto breve richiesto dai ricorrenti non fosse adatto a chi intendesse formalizzare – una volta giunto nello Stato di destinazione – una richiesta d'asilo. Tuttavia, anche la successiva richiesta di un visto per soggiorni lunghi veniva rigettata. Dopo una lunga ma infruttuosa battaglia attraverso le Corti amministrative e ordinarie belga, i ricorrenti si rivolgono alla Corte, lamentando che il rifiuto opposto dal Belgio alla concessione del visto li ha esposti a una situazione intollerabile, tale da configurare una violazione dell'art. 3 CEDU, che prevede il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. La Corte dichiara la questione irricevibile, ritenendo mancante la giurisdizione del Belgio: solo l'esistenza di circostanze eccezionali può infatti giustificare l'esercizio extraterritoriale della giurisdizione di uno Stato, e tali circostanze eccezionali non sarebbero presenti nel caso di specie, in quanto i ricorrenti non si sono mai trovati su suolo belga e non hanno alcun legame personale con quel Paese (§ 115), e in quanto gli agenti diplomatici responsabili del rigetto della richiesta non controllano in alcun modo il territorio siriano (§ 116), né le persone dei ricorrenti (§ 118). Il mero fatto che i ricorrenti abbiano avviato una procedura amministrativa nei confronti del Belgio non può bastare ad affermare la giurisdizione di quello Stato (§ 122): sostenere il contrario significherebbe sostenere l'applicabilità quasi universale della Convenzione, e far sorgere, a carico degli Stati firmatari, un obbligo di accogliere sul proprio territorio qualsiasi persona vittima, in patria, di una trattamento inumano o degradante (§ 123). Al contrario, il diritto internazionale afferma il principio in base al quale gli Stati parti hanno l'obbligo di controllare i propri confini, ponendo limitazioni all'ingresso e alla permanenza dei non cittadini sul proprio territorio (§ 124). (Cecilia Pagella)

 

C. eur. dir. dell'uomo, sez. V, 14 maggio 2020, Hirtu e altri c. Francia

Sgombero di un campo Rom – trattamenti inumani e degradanti – non violazione.

I ricorrenti, cittadini rumeni appartenenti alla comunità Rom, risiedono in Francia da numerosi anni; fanno parte di un gruppo di 141 persone installatosi, dal 1 ottobre 2012, a La Courneuve, nella periferia di Parigi, su un terreno di proprietà del Comune. Il 29 marzo 2013 il Prefetto emetteva un ordine di sgombero, da effettuarsi entro le successive 48 ore, con l'avvertenza che, se i ricorrenti non avessero volontariamente abbandonato il sito, avrebbe avuto luogo l'esecuzione forzata. I ricorrenti abbandonavano spontaneamente l'accampamento nella notte fra l'11 e il 12 aprile, per installarsi su un terreno poco lontano, a Bobigny. Il 12 aprile, circa cinquanta poliziotti armati e accompagnati da cani facevano ingresso sul terreno di Bobigny, minacciavano i ricorrenti e confiscavano le carovane, contenenti i loro effetti personali. Nessun alloggio veniva offerto ai ricorrenti, che si rifugiavano presso un terzo accampamento, degradato e insalubre: mancavano l'acqua corrente e i servizi igienici, i rifiuti giacevano abbandonati e i topi lo infestavano. Anche presso quest'ultimo rifugio i ricorrenti venivano raggiunti da un ordine di sgombero, a cui seguiva la rassicurazione, da parte del Governo, che un alloggio d'urgenza sarebbe stato messo a disposizione degli sfollati vulnerabili. I ricorrenti adiscono la Corte, lamentando che le modalità dello sgombero e le condizioni di vita a cui,  a seguito dello stesso, sono stati costretti, rappresentano un trattamento inumano e degradante contrario all'art. 3 CEDU. La Corte rigetta tuttavia il ricorso, escludendo la violazione dell'art. 3 CEDU: il trattamento a cui sono stati sottoposti i ricorrenti non raggiunge quella soglia minima di gravità richiesta dalla norma, e ciò, quanto allo sgombero, perché i ricorrenti ammettono di aver volontariamente abbandonato il primo accampamento, e lamentano di aver subito minacce ed espropri di cui non sono in grado di fornire la prova; quanto alle condizioni di vita successive, la Corte si limita a citare le rassicurazioni del Governo circa la futura messa a disposizione di un alloggio d'emergenza (§ 55). (Cecilia Pagella)

 

 

Art. 5 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, 26 maggio 2020, I. E. c. Moldavia

Legittimità della detenzione provvisoria – contestazioni a catena – aggiramento dei limiti massimi di durata delle misure cautelari – violazione

Il ricorrente – minorenne indagato per i reati di omicidio, furto e danneggiamento – lamenta la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu in quanto sottoposto a custodia cautelare per una durata superiore al termine massimo consentito dalla legislazione nazionale. In particolare, al solo scopo di prolungare la carcerazione provvisoria, erano state emesse più ordinanze applicative della custodia cautelare in relazione a fatti che, come risultava dal fascicolo d’indagine, erano già noti ab initio alle autorità giudiziarie. A conferma della strumentalità di tali “contestazioni a catena”, la Corte europea evidenzia che i procedimenti per furto e danneggiamento erano stati instaurati in concomitanza con lo spirare del termine della misura cautelare disposta per il reato di omicidio (§ 66). La privazione della libertà personale del ricorrente per il periodo successivo alla durata della prima ordinanza deve dunque considerarsi illegittima e arbitraria in contrasto con l’art. 5 comma 1 Cedu (§ 67). (Francesca Ertola)

 

 

Art. 6 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, 14 maggio 2020, Kadagishvili c. Georgia

Equità processuale – coimputati giudicati con sentenza di patteggiamento – lamentata iniquità del processo separato connesso – mancato isolamento dei testimoni – non violazione

Nel corso del processo instaurato nei confronti dei ricorrenti – condannati per i reati di riciclaggio e frode finanziaria – erano stati escussi come testimoni dieci coimputati in un procedimento connesso, definito con sentenza irrevocabile di patteggiamento. Secondo quanto prospettato dinnanzi alla Corte europea, adita per violazione degli art. 6 comma 1 e 3 Cedu, tali testimonianze avrebbero irrimediabilmente compromesso l’equità processuale per due ordini di motivi. Innanzitutto, durante il separato giudizio di patteggiamento, i coimputati non sarebbero stati posti nelle condizioni di comprendere la reale portata delle accuse mosse a loro carico. In secondo luogo, avendo assistito alle deposizioni degli altri, i testimoni si sarebbero influenzati a vicenda (§ 140). Preliminarmente, la Corte europea osserva che il rito alternativo nei confronti dei coimputati si è svolto sotto la supervisione di un giudice e in assenza di costrizioni (§ 156). Inoltre, a prescindere dall’asserita iniquità del procedimento connesso, i coimputati sono stati sentiti in contraddittorio e le corti interne erano libere di valutare autonomamente i fatti accertati nella sentenza definitiva di patteggiamento (§ 157). Quanto al mancato isolamento dei coimputati nel corso delle udienze e la presunta inattendibilità delle loro dichiarazioni, i giudici di Strasburgo sottolineano che, in ogni caso, la condanna non si è fondata unicamente su tali testimonianze (§ 159), escludendo qualsiasi violazione del dettato convenzionale (§ 160). (Francesca Ertola)

Riferimenti bibliografici: F. Zacchè, Verbali di altro procedimento e diritto alla prova, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, p. 347 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 14 maggio 2020, Mraović c. Croazia

Equità processuale – diritto a un’udienza pubblica – processo per reati sessuali celebrato a porte chiuse – esigenze di protezione della vittima – interviste rilasciate ai media dalla persona offesa – non violazione

Il processo nei confronti del ricorrente, condannato per il reato di violenza sessuale, è stato celebrato interamente a porte chiuse (salvo la lettura del dispositivo) allo scopo di salvaguardare la persona offesa da una possibile vittimizzazione secondaria. Dinnanzi alla Corte europea, il ricorrente lamenta un inadeguato bilanciamento tra il suo diritto alla pubblicità del dibattimento e le esigenze di protezione della vittima, dal momento che la stessa persona offesa aveva, nel corso del procedimento, rilasciato numerose interviste in merito all’accaduto (§ 37 ss). Sul punto, la Corte EDU osserva che, soprattutto nei processi per abusi sessuali, gli Stati sono tenuti a predisporre idonee cautele per tutelare l’integrità e la dignità delle vittime (§ 49). Nel caso di specie, le dichiarazioni rilasciate ai giornali non hanno in alcun modo dispensato lo Stato dai suoi obblighi di protezione: invero, mentre durante le interviste la persona offesa aveva il pieno controllo sulle informazioni divulgate al pubblico, l’esame incrociato si svolge secondo modalità tali da rivelare, senza alcun filtro, dettagli intimi della vita privata delle parti (§ 55). Ad avviso dei giudici di Strasburgo, la decisione di procedere a porte chiuse ha dunque costituito una deroga legittima al principio di pubblicità processuale ex art. 6 comma 1 Cedu (§ 59). (Francesca Ertola)

 

 

ART. 7 CEDU

 

C. eur. dir. dell'uomo, sez. I, Georgouleas e Nestoras c. Grecia, 28 maggio 2020

Pubblicazione di notizie false su strumenti finanziari – imprevedibilità della rilevanza penale della condotta – non violazione.

I ricorrenti sono due membri di una società greca a responsabilità limitata i quali, tra il 2003 e il 2004, effettuavano operazioni finanziarie – tra le quali compravendite fittizie di strumenti finanziari, ordini massicci poco prima della chiusura del mercato, ecc. – organizzate al fine di manipolare il valore delle azioni, così fornendo al pubblico informazioni false circa il valore delle stesse. La Commissione del mercato dei capitali ellenico riteneva i ricorrenti responsabili dell'illecito amministrativo previsto dall'abrogato art. 72 della L. 1969/1991 – il quale vietava di pubblicare o diffondere, in qualsiasi modo, informazioni false o imprecise su strumenti finanziari negoziati su mercati regolamentati, le quali fossero suscettibili di influenzare il prezzo degli strumenti finanziari stessi – e applicava loro una sanzione pecuniaria. I ricorrenti lamentano la violazione dell'art. 7 CEDU, ritenendo che, al momento dei fatti, non avrebbero potuto prevedere che la “diffusione o pubblicazione di informazioni false o imprecise” potesse avvenire attraverso il compimento di operazioni finanziarie. La Corte, ritenuto che la sanzione applicata ai ricorrenti avesse natura sostanzialmente “penale” (§ 43), rileva come la relativa fattispecie non indicasse le condotte attraverso le quali la diffusione o pubblicazione di informazioni false o imprecise potesse avere luogo, essendo formulata in modo tale da sanzionare la disinformazione "in ogni modo" realizzata (§ 62). La Corte nondimeno ricorda che la violazione dell'art. 7 è esclusa ogniqualvolta il destinatario della norma sia in grado di comprendere – anche avvalendosi dell'interpretazione fornita dalle giurisdizioni nazionali – quali condotte comportino l'assunzione di responsabilità penale da parte sua; poiché ogni norma è – entro certi limiti – vaga, il suo esatto significato non può che essere individuato attraverso l'interpretazione di volta in volta datane dai giudici (§ 56). Con riferimento al caso di specie, la Corte ritiene che la riconducibilità delle operazioni finanziarie all'ambito applicativo dell'art. 72 fosse ragionevolmente prevedibile, e ciò tanto alla luce dell'intenzione del legislatore, che era quella di proteggere il mercato da ogni condotta volta a manipolarlo attraverso la diffusione di informazioni false (§ 62), quanto della lettura che le Corti nazionali avevano in diverse occasioni dato della norma (§ 63). La Corte puntualizza che il concetto di "prevedibilità" è suscettibile di ampliarsi e restringersi a seconda del destinatario della norma e che da parte di coloro che – come i ricorrenti – svolgono professionalmente un'attività (nel caso di specie, quella di intermediazione), è legittimo attendersi una maggior cautela nella gestione dei rischi che tale attività comporta (§ 65), con la conseguenza che più difficilmente essi potranno invocare l'imprevedibilità di una interpretazione giurisprudenziale. Coerentemente con tali premesse la Corte esclude la violazione dell'art. 7 CEDU. (Cecilia Pagella)

 

C.eur. dir. dell'uomo, sez. V, Kadagishvili c. Georgia, 14 maggio 2020

Confisca del provento del reato – retroattività in malam partem – non violazione.

I ricorrenti, due coniugi georgiani e il loro figlio, venivano condannati dal Tribunale di Tbilisi per la partecipazione a un'associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro e al compimento di altre attività illecite. Il Tribunale disponeva la confisca del provento dei reati, consistente nei beni appartenenti a diverse società che i giudici avevano ritenuto costituite per finalità illecite, e nelle somme depositate sul conto corrente dei ricorrenti. Questi ultimi, esaurite le vie di ricorso interne, si rivolgevano alla Corte, lamentando che la confisca dei loro beni fosse stata disposta retroattivamente: la norma che prevedeva la confisca del prodotto del reato – l'art. 25 c. 3 del codice penale georgiano – era infatti entrata in vigore solo dopo la commissione dei fatti. La Corte ritiene la richiesta dei ricorrenti manifestamente infondata nella parte che riguarda la confisca dei beni delle società illecite: i ricorrenti, infatti, non avevano fornito la prova del loro diritto di proprietà su quei beni, e, di conseguenza, non risultava provato che essi avessero patito un danno in conseguenza della confisca (§ 180). La richiesta è invece giudicata ammissibile per quanto concerne la confisca delle somme depositate sul conto corrente. Sul punto la Corte ribadisce il consolidato principio secondo cui la violazione dell'art. 7 CEDU è esclusa quando il destinatario della norma può comprendere – dalla lettura della stessa, avvalendosi eventualmente dell'interpretazione giurisprudenziale e del parere di esperti – quali atti comporteranno l'assunzione di responsabilità penale da parte sua, e con quali pene saranno sanzionati (§ 184). Quanto al caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte riconosce che l'art. 25 c. 3 è stato introdotto in epoca successiva ai fatti; osserva, però, che la confisca dei beni ottenuti attraverso la commissione del reato era sostanzialmente già prevista dal codice di procedura penale georgiano, il quale, al suo art. 190, prevedeva il congelamento delle risorse "ottenute attraverso mezzi illeciti" (§§ 186 e 188). La Corte conclude quindi che l'applicazione a carico dei ricorrenti di una norma – l'art. 25 c. 3 c.p. – entrata in vigore dopo la commissione del fatto, non costituisce applicazione retroattiva di una sanzione penale, in quanto, anche in assenza di quella norma, la confisca delle proprietà avrebbe comunque avuto luogo, seppur ai sensi di una norma diversa (§ 189), e nega dunque la violazione dell'art. 7 CEDU. (Cecilia Pagella)

 

 

ART. 10 CEDU

 

C. eur. dir. dell'uomo, sez. II, 12 maggio 2020, Gullu c. Turchia

Pubblicazione di articolo contenente dichiarazioni rilasciate dalla presidenza di un’organizzazione considerata “terroristica” – ingerenza non necessaria – violazione.

Il ricorrente, proprietario e direttore del periodico Özgür Halk, veniva condannato – ai sensi di una legge turca del 1991 – al pagamento di un'ammenda pari a 1.500 lire turche (circa 800 euro) per la pubblicazione di un articolo dal titolo «I risultati [delle elezioni locali] del 28 marzo e la prospettiva di una nuova era». L'articolo riportava le considerazioni autocritiche della presidenza del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato in Turchia un'organizzazione terrorista), a proposito delle strategie e del funzionamento dell’organizzazione stessa. Il ricorrente adisce la Corte lamentando che la sanzione inflittagli costituisce una violazione dell'art. 10 CEDU. La Corte riconosce che il procedimento penale conclusosi con la condanna del ricorrente rappresenta un'ingerenza nel suo diritto alla libertà d'espressione (§ 27). Pur ammettendo che tale ingerenza abbia base legale e persegua scopi legittimi (segnatamente la protezione della sicurezza nazionale e dell'integrità territoriale, la difesa della legalità e la prevenzione del crimine: § 28), la Corte esclude, tuttavia, che la stessa sia necessaria in una società democratica, e quindi legittima ai sensi dell'art. 10 CEDU. A tale conclusione la Corte perviene osservando che il giudice nazionale, nel condannare il ricorrente, si era limitato a constatare che l'articolo riportava dichiarazioni promananti da un'organizzazione ritenuta terrorista in base alla legge turca, senza però accertare se l'articolo stesso contenesse un appello alla violenza, alla resistenza armata o alla rivoluzione, ovvero costituisse un'incitazione all'odio (§§ 29 e 30). Solo tale accertamento avrebbe consentito – ad avviso della Corte – di sacrificare la libertà d'espressione in vista della tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza nazionale. Si segnala che, sempre nel mese di maggio, la Corte ha riconosciuto analoga violazione dell’art. 10 in un’altra vicenda relativa a pubblicazioni contenenti riferimenti al PKK (C. eur. dir. dell'uomo, sez. II, Mehdi Tanrikulu c. Turchia, 5 maggio 2020). Nello stesso filone, infine, si può inserire la pronuncia con la quale la Corte ha ritenuto incompatibile con l'art. 10 una sanzione disciplinare imposta a un detenuto, il quale si era rivolto in una lettera a un membro del PKK, usando una formula ossequiosa (C. eur. dir. dell'uomo, sez. II, Akyol e altri c. Turchia, 26 maggio 2020). (Cecilia Pagella)

Riferimenti bibliografici: per un caso simile, ancorché in tema di art. 11 CEDU, P. Bernardoni, Libertà di riunione ed affiliazione ad un'associazione illegale: per la Corte di Strasburgo il limite è la prevedibilità della condanna, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 2018, p. 359.