* Il contributo rielabora l'intervento dell'Autore al corso della Scuola Superiore della Magistratura sul tema "Prevenzione e repressione del terrorismo tra esigenze di difesa della collettività e rispetto dei principi costituzionali (intitolato a Guido Galli)", del 7, 8 e 9 luglio 2021.
1. Premessa. – Nel mese di luglio di quest’anno la Scuola Superiore della Magistratura ha organizzato l’ormai classico corso di formazione per i magistrati sulla materia del terrorismo: formazione assolutamente doverosa ed importante.
C’è una novità rispetto ad analoghi corsi che sono stati organizzati nel passato su base più o meno annuale. Quest’anno il corso è stato intitolato al Giudice Guido Galli e si è svolto all’interno dell’Università Statale di Milano.
Non racconto qui come è stato organizzato il corso perché non rilevante.
Svolgo alcune riflessioni, che ho portato all’attenzione dei partecipanti, sulla memoria, sul dovere della memoria, sul valore delle esperienze e sugli insegnamenti che ne derivano.
Si tratta di riflessioni forse noiose e che corrono anche il rischio della retorica e della ripetizione.
Ma è bene provare a vedere come stanno le cose, nel modo più semplice possibile.
2. Una breve sintesi. – Il Giudice Guido Galli è stato ucciso da un gruppo di fuoco di Prima Linea, il 19 marzo del 1980, all’interno dell’Università Statale di Milano, dove insegnava criminologia, nei pressi dell’aula 309 che oggi gli è dedicata.
Insegnare criminologia significa tante cose, ma significa certamente almeno cercare di capire e di spiegare le ragioni dei reati, dei percorsi criminali; gli autori e le vittime; i percorsi di rieducazione e di reinserimento.
L’attenzione per il mondo delle carceri è semplicemente doverosa, e quindi anche l’attenzione per la funzione della pena nella fase dell’esecuzione: la rieducazione, per vincolo costituzionale.
Ebbene, come in tanti hanno ricordato, Guido Galli è stato ucciso con il codice in mano, mentre – da solo, senza scorta, senza clamori – andava a fare lezione di criminologia ai suoi studenti universitari.
Un corso seguito, apprezzato, e che ha “prodotto” autorevoli esponenti della criminologia italiana.
Ancora.
All’interno della magistratura vi erano posizioni fortemente differenziate sul fenomeno del terrorismo interno e sulle modalità del contrasto.
Forse, con l’apparire sulla scena mondiale del terrorismo jiahdista, le cose sono un po’ cambiate, ed a nessuno viene in mente di mettere oggi in discussione il lavoro che viene svolto, o comunque di contestarlo in radice.
Ai tempi del terrorismo interno era profondamente diverso.
Non parlo qui di quella corrente di pensiero che vedeva i magistrati che si occupavano di terrorismo sostanzialmente come gli strumenti sciocchi o servi, o entrambe le cose, di un sistema statale violento ed oppressivo.
Parlo delle difficoltà di affermarsi dell’unico approccio possibile nel quadro del nostro sistema costituzionale: il rispetto delle regole e la tutela dei diritti all’interno di un sistema di contrasto efficace.
Un approccio che sapesse, e che sappia, coniugare legalità ed efficacia, con al centro la magistratura autonoma ed indipendente da ogni altro potere.
Non tutti erano d’accordo.
Forse non tutti sono d’accordo neanche oggi.
Meglio metodi spicci, affievolimento e compressione di diritti fondamentali, carcerazioni senza processo, “renditions”, dosi “medie” di tortura.
In sintesi: “zone grigie” in varie forme declinate, il tutto sul modello nord-americano post 11 settembre 2001.
Questi sarebbero i sistemi efficaci di contrasto al terrorismo, altro che regole, altro che magistrati, altro che controllo di legalità: regole e magistrati sarebbero soltanto una zavorra rispetto ad un contrasto realmente efficace ed adeguato al “tipo” di criminale da neutralizzare.
Invece Guido Galli praticava il rispetto delle regole e la tutela dei diritti, e sosteneva questi principi nei suoi lavori scientifici[1], tanto che quelli che lo hanno ucciso ben sapevano sia quello che faceva come magistrato, per come lo faceva, sia quello che sosteneva.
E proprio per questo lo hanno ucciso: legalità ed efficacia; il lavoro giudiziario svolto, con grande competenza (in particolare la maxi-istruttoria nei confronti di capi e partecipi di Prima Linea) ed il tentativo di rendere migliore il sistema, compreso il sistema delle carceri, in attuazione – finalmente – dei principi costituzionali.
Molti conoscono ancora oggi il contenuto del volantino di rivendicazione dell’omicidio da parte di Prima Linea, anche perché negli ultimi anni è cresciuta per fortuna l’attenzione per la memoria, con iniziative meritorie anche da parte del Consiglio Superiore della Magistratura[2]:
“Oggi 19 marzo 1980 alle ore 16.50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi cal. 38 SPL il giudice Guido Galli dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano.”.
Poi:
“Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’Ufficio Istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di fare fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento…”
Purtroppo tutto vero, purtroppo tutto giusto: impegno, capacità ed efficienza, voglia di riforme, tutela dei diritti, modernità di approccio, consapevolezza del ruolo in trasformazione della magistratura.
Tutto il contrario di chiusure, di attenzione autoreferenziale per il proprio mondo, di paure, anche – appunto – del nuovo e dell’apertura alla società, di gestione burocratica dei fascicoli.
3. Alcune riflessioni. – Forse vale la pena parlare anche dell’oggi, muovendo da ieri, e delle differenze che continuano ad essere vistose e profonde nel mondo della magistratura.
Guido Galli è stato ucciso perché era un ottimo magistrato, altamente specializzato, attento agli altri, aperto al futuro, rispettoso dei diritti, e questo – semplicemente – non andava bene ai terroristi, così come non andava bene che venisse mostrato “il lato giusto” delle Istituzioni dello Stato.
Per questo la famiglia rispose, con grande forza, agli assassini, nella lettera aperta “a quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre”:
“abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito”.
Ho scritto sopra “molti conoscono”, con riferimento al volantino di rivendicazione dell’omicidio.
Adesso forse è così, ma non sappiamo come evolveranno le cose nel futuro, anche solo prossimo.
C’è grande preoccupazione.
I magistrati protagonisti di quel periodo storico, i veri protagonisti, sono oggi tutti o quasi fuori dalla magistratura; le memorie dirette stanno svanendo; le voci si riducono, e molto spesso anche chi avrebbe da dire “si ritira” e assiste al “dibattito”, ovviamente sempre pieno di parole e sempre più pieno di parole quanto più gli esperti veri, testimoni e conoscitori dei fatti, si ritirano.
È un problema, serio, che si aggiunge ed interseca con la pulsione di alcuni magistrati (con trend in crescita) di scrivere o riscrivere le pagine di storia, svolgendo attività più vicine ad altri mestieri e saperi ed alle connesse modalità di acquisizione delle conoscenze, profondamente diverse dalle nostre.
I risultati già si vedono, ma almeno oggi sono contrastati da chi ha vissuto le cose e le conosce davvero ed ha ancora voglia di intervenire.
Da chi, inoltre, ha imparato a lavorare sui fatti, con le regole dell’acquisizione probatoria, e detesta complottismi e complottisti, così come non sopporta la formula euristica “è possibile che” (con l’alternativa: “non si può escludere che”) diretta ad introdurre qualsiasi cosa in qualsiasi vicenda perché la formula – per l’appunto – rende possibile qualsiasi cosa e qualsiasi affermazione.
La possibilità consente di spararla grossa, e se la realtà è diversa non c’è problema: era solo una possibilità, e dovevamo investigarla.
In ogni caso, ed in via generale, c’è troppa enfasi comunicativa, come se il mestiere di magistrato consistesse nella partecipazione ai pubblici dibattiti televisi, o addirittura all’autocelebrazione delle proprie inchieste.
Gli esempi e gli insegnamenti che qui si richiamano vanno in una direzione diversa: serietà, sobrietà e continenza.
4. La memoria. – La memoria è una cosa importante, alimenta, motiva, contribuisce alla formazione ed all’acquisizione delle esperienze.
Ma la memoria non è uguale per tutti; lavora in modi differenziati, secondo la cultura, le curiosità, lo spirito dei tempi; anche gli interessi che si intendono tutelare.
Molto spesso non c’è memoria condivisa, nemmeno rispetto a fatti importanti e “formanti”.
Racconto una piccola vicenda, reale – forse e meglio: surreale – che spiega le cose più di tante parole alte.
Non è riservata, perché ne ha parlato Carla Galli in uno degli incontri organizzati dall’Università Statale di Milano per ricordare il suo papà[3].
Carla è una delle due figlie del giudice ucciso; l’altra è Alessandra.
Quando organizzai per la Scuola della Magistratura come “esperto formatore” il corso di formazione del 2016 sul terrorismo, decisi di invitare Alessandra alla tavola rotonda finale, per cercare di raccontare ai colleghi che cosa ha significato per lei – figlia; studentessa di giurisprudenza al tempo; magistrato oggi – l’omicidio del padre; per farla partecipare alla discussione, dolorosa, sulla memoria; per ricordare la normalità dell’impegno e del dovere, che ho cercato di illustrare sopra, e che Guido Galli aveva trasmesso a tutta la sua famiglia.
Mi sembrava giusto provare a parlarne in una occasione di formazione dei magistrati.
Alessandra, sia pure sempre con grande attenzione e pudore, aveva già svolto interventi pubblici sull’argomento.
Molto meno la sorella più giovane, Carla, anche lei magistrato a Milano.
Carla aveva sempre parlato meno di Alessandra del suo dolore, del suo modo di cercare di elaborarlo, dei suoi ricordi; della lezione costante del padre, attraverso i comportamenti quotidiani, sul senso del dovere, sull’impegno nel lavoro, sulla correttezza nel modo di vivere.
Gli amici della Università Statale di Milano riuscirono ad invitarla il giorno 11 dicembre 2015 in occasione del conferimento di un premio alla memoria del padre, premio condiviso con Corrado Stajano, che fece – come sempre – un bellissimo intervento[4].
Ebbene Carla raccontò un piccolo episodio, che colpì tutte le persone presenti, e che a me ha fatto molto pensare.
Come sappiamo, Guido Galli, magistrato, era stato Professore all’Università Statale.
Carla si era iscritta a Giurisprudenza, proprio alla Statale, dopo l’omicidio del padre, ed aveva – tra le tante – una paura.
Temeva la pietà.
Temeva che un giorno, prima o poi, un Professore, collega del padre, avrebbe chiesto vedendo il nome Galli sul libretto della studentessa una cosa del tipo: “ma lei è figlia di Guido Galli?”, esprimendo poi ricordo, vicinanza, forse affetto o frasi di circostanza, creandole così imbarazzo.
Sapeva che sarebbe successo, e sapeva che avrebbe provato disagio.
Un giorno, infine, successe: un Professore vide il nome sul libretto e le fece la domanda, attesa.
Visto il cognome, non le chiese però “lei è figlia di Guido Galli?”, ma “lei è per caso figlia di Giovanni Galli?”.
Quello – Giovanni Galli – è il nome del meritatamente famoso titolare di una pasticceria di Milano, con un negozio in Corso di Porta Romana, conosciuto soprattutto per degli ottimi marrons glacès.
Prevalse non il ricordo, e la memoria, del padre, collega dell’esaminatore Professore di diritto, ma il ricordo attuale, e l’affetto profondo, per un ottimo pasticcino.
Si trattava di un esame universitario, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, non molti anni dopo l’omicidio di Guido Galli, e quindi in un periodo in cui la memoria dei fatti di terrorismo, e delle vittime, avrebbe dovuto essere patrimonio comune e valore condiviso certamente almeno all’interno del corpo docente dell’Università.
E così, per lungo tempo non ci fu memoria, e non ci fu memoria condivisa: ci fu oblio.
Nella stessa occasione, Carla ha ricordato che qualche anno prima, nella giornata del ricordo del padre, in una mail girata all’interno di una mailing list di magistrati, una collega magistrato affrontò con dotte parole il problema del possibile nesso causale dello stress da fascicoli sulla salute e sulla morte del giudice Galli.
Guido Galli morto di stress lavorativo.
Per tanti anni c’è stato oblio.
La madre Bianca riceveva una sola sollecitazione: quella di perdonare, perdonare e poi ancora perdonare, quando nessuno dei terroristi assassini aveva mai chiesto perdono, e come se il modo di interloquire con le vittime – l’unico modo possibile – fosse invitare al perdono necessario.
La signora Bianca non riusciva a perdonare, e provava disagio per le sollecitazioni che riceveva e che cominciarono addirittura il giorno stesso dell’omicidio, tanto da decidere di parlarne qualche mese dopo con il Cardinale Carlo Maria Martini[5].
C’è stata poca memoria; anzi c’è stato spesso fastidio.
Ancora uno sforzo per la memoria ed un passaggio nell’attualità.
Nel mese di aprile del 2011, qualche significativa intelligenza produsse dei manifesti che vennero affissi in varie strade della città di Milano.
I manifesti dicevano, su uno sfondo rosso e con caratteri bianchi molto vistosi: “via le BR dalle Procure”.
Si trattava in realtà del solito attacco alla Procura di Milano, ed al suo ruolo, solo più sguaiato di altri, ben sapendo chiunque che cosa avessero fatto i terroristi assassini di sinistra all’interno delle Procure, e più in generale nei confronti dei Magistrati.
La famiglia del Giudice Guido Galli ritenne di intervenire.
Giuseppe Galli, figlio del Magistrato, scrisse al Corriere della Sera una lunga lettera pubblicata il 18 aprile 2011.
Di seguito alcuni passi, già opportunamente ricordati in alcune occasioni dall’Associazione Nazionale Magistrati:
«19 marzo 1980: un bambino di 12 anni piange disperato il padre ucciso.
Aprile 2011: un uomo di oltre quarant'anni è costretto a leggere manifesti infamanti contro «quelle Procure» che guidarono il Paese oltre la devastazione del terrorismo. Gli attacchi che da mesi si susseguono contro i magistrati, e soprattutto contro la Procura di Milano, toccano il culmine con un’accusa verso quei giudici il cui solo torto è di far rispettare le leggi e applicare la giustizia...
C'è amarezza in chi, tanti anni fa, ha visto il proprio padre assassinato dai terroristi e oggi, nella città in cui vive, legge certe parole.
Ma c' è anche la consapevolezza che, così come allora Guido Galli cadde con il Codice in mano, oggi tanti altri magistrati, tenaci e coraggiosi, con quello stesso Codice applicano le leggi. Quel bambino oggi sa che le sue sorelle maggiori, tutti i giorni, sono lì, nel Tribunale di Milano, nella «Procura delle Br», per permettere a lui, e a tutti noi, di poter vivere in un Paese giusto, libero e democratico”.
Come magistrati di Milano, direi semplicemente come magistrati, fummo grati a Giuseppe Galli per quelle parole, e ancora gli esprimiamo gratitudine.
Ricordo che Guido Galli, Giudice Istruttore a Milano, stava per completare il passaggio alla Procura della Repubblica di Milano, per continuare a svolgere come pubblico ministero le funzioni di magistrato, all’interno dell’unico ordine voluto dalla Costituzione, e con quelle stesse caratteristiche umane e professionali con le quali aveva svolto il mestiere di giudice.
5. Alcuni insegnamenti. – Le esperienze e gli insegnamenti nel contrasto al terrorismo interno si sono fatti sentire quando si è affacciato sulla scena mondiale il fenomeno del terrorismo c.d. islamico: le nostre strutture di contrasto erano assolutamente preparate, compresa la magistratura specializzata.
Sono stati necessari aggiornamenti ed aggiustamenti, sotto vari profili e su vari fronti, ma l’esperienza non è mancata ed ha rappresentato il filo conduttore del sistema di contrasto.
L’esperienza è fondamentale, come le regole.
Le due cose (esperienza e regole) stanno bene insieme, come succede oggi nel nostro paese e come è successo nel passato.
L’esperienza porta a creare vincoli profondi tra i magistrati, anche stranieri, e tra i magistrati e le forze di polizia giudiziaria specializzata, vincoli che sono assolutamente necessari.
Quando c’è esperienza, ed è condivisa, non sono necessarie troppe parole per capirsi.
Ci possono essere tensioni, diversità di valutazioni, discussioni complesse, ma si lavora insieme in vista di un obiettivo condiviso e con un metodo condiviso, nel rispetto delle regole: si sa quindi quello che si può fare e quello che si può chiedere, e si sa anche quale è la risposta se la domanda o la pretesa sono sbagliate.
Queste esperienze condivise hanno aiutato molto al tempo dell’affacciarsi sulla scena mondiale del terrorismo jihadista, prima con Al Qaida e poi con l’affermarsi progressivo di Islamic State.
Aiutano ancora oggi in un quadro fluido e di non facile decifrazione, dopo la caduta di I.S. come realtà terrorista territoriale.
Le nostre strutture di contrasto avevano un’ottima conoscenza del fenomeno criminale già ben prima delle Torri gemelle e ne hanno seguito l’evoluzione, con significativi risultati, quando il terrorismo jihadista ha deciso di portare le stragi anche in Europa, con le stragi di Madrid dell’11.3.2004 (ed il terribile epilogo di Leganes del 3.4.2004), con le stragi di Londra del Luglio 2005, e poi – dopo l’avvento di Islamic State – con le stragi ripetute in numerosi paesi europei che purtroppo ben conosciamo e ricordiamo.
Proprio in relazione a quegli scenari è stato anche confermato il principio cardine del nostro complessivo sistema di contrasto al terrorismo c.d. islamico: l’assoluta indipendenza costituzionale del pubblico ministero da ogni altro potere, con l’obbligo di svolgere le indagini e di promuovere l’azione penale a prescindere da valutazioni e decisioni politiche o di governo, in un quadro di legalità complessiva dell’azione di contrasto.
Rigore certo perché il fenomeno è realmente pericoloso per gli individui e per la collettività, ma sempre all’interno del sistema penale costituzionale.
Senza approfondire qui la relativa questione, solo i requisiti di autonomia ed indipendenza da ogni altro potere hanno consentito alla magistratura italiana di ricostruire la “extraordinary rendition” di Abu Omar[6], con l’accertamento chiaro e definitivo – attraverso le indagini, i processi, le sentenze – delle responsabilità penali di esponenti di rilievo ed operativi della C.I.A. americana, in missione in Italia; di un ufficiale di polizia giudiziaria italiano; con il tentativo di straordinaria complessità di ricostruire anche le responsabilità del vertice dei nostri servizi segreti del tempo (S.I.S.M.I).
Le extraordinary renditions sono strumenti utilizzati dalla C.I.A., pensando di affrontare così (anche così) il problema del contrasto al terrorismo ed ai terroristi.
Il sostantivo (rendition) ha un contenuto apparentemente neutro e l’aggettivo (extraordinary) ha una valenza “straordinariamente” positiva.
Si tratta in realtà della definizione sapientemente annacquata di terribili sequestri di persona, funzionali a detenzioni segrete senza processo in luoghi segreti, ed all’impiego della tortura come strumento di acquisizione di informazioni per neutralizzare i nemici.
Ci sono stati casi di renditions nel mondo globale ed in Europa; uno anche in Italia, quello di Abu Omar.
Solo l’Italia ha avuto la capacità di farla emergere, di ricostruirla, di accertare le responsabilità e di ottenere risultati processuali più che accettabili.
Dico sempre che non è un caso che ciò accada, se si considera che l’Italia, come sopra detto, è lo Stato europeo che presenta la più piena autonomia del pubblico ministero da ogni altro potere, e se si considerano le ulteriori regole costituzionali della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’Autorità Giudiziaria (art. 109) e dell’obbligo del pubblico ministero di promuovere l’azione penale (art. 112), straordinario presidio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
In sintesi.
Al tempo del suo sequestro, Abu Omar era molto ragionevolmente “un terrorista” o, parlando con il preferibile linguaggio dei fatti, era molto ragionevolmente responsabile di un fatto (o di fatti) di terrorismo.
Ma la responsabilità di una persona si accerta con le indagini ed il processo, non con il suo sequestro, la detenzione extra ordinem e la tortura.
Con l’ascolto delle ragioni dell’accusato e della sua difesa, non con confessioni estorte. Con la pronuncia di una sentenza di condanna che superi il canone del ragionevole dubbio, anche nella materia del terrorismo.
Ed è quello che comunque l’autorità giudiziaria italiana è riuscita ad ottenere rispetto all’imputato Abu Omar, nonostante gli esiti devastanti della “rendition” anche sul corso delle indagini e del processo a suo carico[7].
Ho tenuto relazioni in numerosi incontri di formazione per magistrati europei sul contrasto al terrorismo nel quadro dei principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ed ho spesso parlato della vicenda di Abu Omar, e del senso profondo che esprime.
Ebbene, i magistrati stranieri, giudicanti ed investigativi, hanno sempre avuto una curiosità, anzi molto di più: il bisogno di capire come sia possibile, e sia stato possibile, investigare e procedere in materia di terrorismo contro i vertici dei servizi segreti sia interni che di un paese alleato.
Come è possibile, detto in altri termini, che “un qualche qualcuno” (forse il Ministro della Giustizia; forse il Procuratore Generale della Cassazione per conto del Ministro), abbia potuto autorizzare i magistrati a portare avanti una investigazione di questo tipo, o comunque non bloccarla tempestivamente prima che “facesse danni”.
La risposta, semplice, lascia spesso interdetti.
Nessuno ha autorizzato, perché nessuno può autorizzare.
Ce lo dice la Costituzione, e teniamola cara a maggiore ragione in questi momenti difficili.
Certo, sono rimasti dei buchi neri nella vicenda Abu Omar, a causa soprattutto della scelta dei governi italiani di apporre il segreto di Stato e delle decisioni della Corte Costituzionale di avallare tale soluzione.
L’apposizione del segreto di Stato ha infatti determinato il calare di un “sipario nero” su una parte rilevante della vicenda e cioè quella relativa alle responsabilità dei vertici del servizio segreto militare italiano[8]: ma le indagini si sono fatte, i processi sono stati celebrati ed il risultato è complessivamente di grande rilievo.
Ricordo un’altra vicenda significativa, che riguarda la terribile strage terrorista del museo del Bardo di Tunisi (18 marzo 2015), che ha colpito in profondità la Tunisia, ha colpito l’Italia ed i suoi cittadini (quattro turisti italiani uccisi a colpi di arma automatica) ed i cittadini di altri paesi europei, turisti in visita al famoso museo.
Ebbene, a fronte del mandato di cattura del Giudice Istruttore di Tunisi per concorso in strage ed in una pluralità di altri gravissimi reati nei confronti di un giovane cittadino marocchino (Touil AbdelMajid) che si trovava sul territorio italiano, la magistratura italiana – a seguito delle indagini della Procura della Repubblica di Milano – è riuscita a chiarire la innocenza dell’indagato, evitando così la sua estradizione verso la Tunisia, e consentendo alle Autorità Giudiziarie di Tunisi di proscioglierlo da tutte le accuse[9], dopo avere trasmesso i risultati dell’attività investigativa svolta.
Il Pubblico Ministero italiano non è accusatore necessario, svolge tutti gli accertamenti doverosi per la ricostruzione del fatto e per l’accertamento delle responsabilità, anche quelli direttamente favorevoli per l’indagato.
Ci sono casi in cui questi accertamenti possono essere fatti dal difensore, ed è bene che li faccia, fermo restando che non c’è regola di onere probatorio in senso tecnico.
In altri casi, ancora numerosi soprattutto in alcune materie, ciò non è possibile e la verifica viene fatta dal magistrato Pubblico Ministero.
Ed il magistrato Pubblico Ministero la fa sia quando – banalizzando – è pronosticabile un risultato negativo per l’indagato, sia quando la prognosi va nella direzione opposta: ed il risultato dell’accertamento doveroso è sempre palesato, in chiaro.
L’art. 358 del codice di procedura penale non è una finzione ed è al centro del sistema, così come al centro del sistema è il magistrato indipendente da ogni altro potere, che rispetta, tutela e garantisce i diritti dell’accusato.
Ancora alcune riflessioni.
Quando il Giudice Istruttore di Tunisi fece le verifiche a seguito della trasmissione delle indagini italiane, accertò che le dichiarazioni di un detenuto a carico di Touil, che sembravano avere chiuso il cerchio probatorio in ordine alla sua partecipazione alla strage (“sì, è lui”), erano state determinate dalla tortura al quale era stato sottoposto dall’apparato di polizia.
Una conferma, a valere sempre.
La tortura è un fatto gravissimo ed un gravissimo reato.
Non solo.
Anche seguendo per un momento la “cultura” di chi la pratica, è molto spesso inefficace perché il torturato ha il solo interesse ad assecondare chi lo interroga.
Ancora.
Rendere giustizia secondo le regole è il migliore antidoto al terrorismo ed alla visione radicale che lo sostiene.
Non è l’unico, perché le cause della radicalizzazione e del passaggio all’azione violenta sono le più varie, ma certamente svolge un ruolo di rilievo.
Come è noto agli esperti del settore, non solo giuristi, le ragioni dei processi di radicalizzazione sono le più varie, tanto da potere oggi dire che nei paesi occidentali, e nel tempo di internet, sono sostanzialmente reazioni individuali a messaggi propagandistici radicali efficaci, sia pure a fronte di possibili macrospiegazioni di carattere sociologico (età, sesso, scolarità, condizioni di vita, precedenti esperienze di polizia o precedenti carcerazioni, luoghi di vita e deficit di integrazione, difficoltà individuali/familiari/scolastiche: il catalogo è notoriamente ampio e controverso, anche alla luce delle poche valide ricerche empiriche al riguardo).
Ma chi ha esperienza in questo campo sa benissimo che anche gli abusi di stato e le violenze del potere sono fattori di radicalizzazione, e sono sempre stati utilizzati efficacemente come tali da chi aveva interesse e capacità di farlo: sono argomenti che sempre si spendono bene sul terreno della radicalizzazione funzionale al passaggio all’azione.
Chi ha lavorato sul campo delle investigazioni, e chi ne ha studiato le evidenze empiriche a fini di ricerca, sa bene che le terribili foto di Abu Ghraib; gli uomini in arancione di Guantanamo; le renditions, compresa quella di Abu Omar, la pratica del waterboarding – si tratta di semplici esempi – sono ben spendibili in chiave di radicalizzazione efficace, funzionale alla motivazione in vista del passaggio all’agire terroristico.
Rivelano, in modo semplice e bene gestito da strutture comunicative di grande qualità, la “reale faccia feroce” dell’Occidente, e comunque consentono uno straordinario veicolo propagandistico e pubblicitario, a fronte della rivendicata superiorità garantista e culturale dei nostri sistemi occidentali.
La forza dello Stato viene dalle regole; qualunque cessione di quote di regole giova solo alla causa del terrorismo.
Ogni tanto i sistemi spicci che ho ricordato potranno consentire di realizzare qualche risultato parziale e provvisorio, ma con un peggioramento complessivo soprattutto nel lungo periodo e comunque passando attraverso la commissione di reati.
Il sistema delle regole è l'unico che consente un contrasto efficace; il resto è sempre sbagliato ed è molto spesso inefficace.
È questa la rivendicazione del sistema penale costituzionale, del suo ruolo, del ruolo della Magistratura e della Polizia Giudiziaria.
È, se possibile, un modello italiano di grande valore.
Un’ultima riflessione, in via di sintesi.
Il terrorismo interno ha fatto nascere in Italia all’interno della magistratura la cultura del lavoro di gruppo, la cultura ed il metodo della condivisione delle informazioni e degli atti, del confronto continuo.
Si è trattato di un processo evolutivo, non facilissimo.
Oggi si tratta – anche grazie a riforme processuali ed ordinamentali che si sono succedute nel corso degli anni – di un metodo condiviso, e chi non lo pratica è un pessimo magistrato, oltre a violare regole processuali.
Ebbene anche questa esperienza è stata fondamentale per essere preparati ed efficaci nel contrasto al terrorismo internazionale, ed il nostro paese è stato l’esempio ed il motore, a livello europeo, di un metodo di lavoro fondato sulla circolazione e sulla condivisione spontanea e tempestiva delle informazioni e degli atti che le contengono.
Solo la assoluta tempestività, e la spontaneità, della circolazione delle informazioni può realizzare prevenzione e repressione dell’agire terroristico; solo indagini collegate al livello sovranazionale, in un quadro di fiducia reciproca, consentono di contrastare in modo efficace il fenomeno.
Servono norme condivise al livello europeo, ma serve soprattutto una cultura condivisa.
Anche se su questo terreno c’è ancora molta strada da fare, ma l’esperienza italiana è stata valida, importante e riconosciuta.
In conclusione.
Bisogna avere memoria perché i tempi brutti possono tornare; perché non bisogna farsi ingannare dalle parole, anche quando sono bene parlate; perché lavorare sul terrorismo significa soprattutto amare il proprio lavoro, conoscere le ragioni dell’impegno e del dovere; sapere studiare, tanto; avere la forza di confrontarsi con gli altri, tenendo sempre “la testa aperta”.
È un impegno complesso per i magistrati e per la magistratura.
Questi sono gli insegnamenti di Guido Galli.
Queste sono le ragioni per le quali la Scuola Superiore della Magistratura ha voluto rendere onore alla sua persona attraverso questa occasioni di ricordo e di formazione per la magistratura.
[1] Nella presentazione scritta del corso, i responsabili dello stesso per conto della Scuola della Magistratura (dott. Marco Maria Alma e Prof. Gian Luigi Gatta) hanno ricordato un passo che compare in uno dei lavori scientifici più significativi del Prof. Guido Galli: “...viviamo tempi oscuri: ma gli strumenti per uscirne non devono essere totalmente inidonei alla difesa delle istituzioni e della vita dell’individuo; o indiscriminatamente compressivi della libertà individuale, in nome di “ragioni di emergenza” il cui sbocco frequente ci è purtroppo ben noto” (La politica criminale in Italia negli anni 1974-1977, Cortina ed., 1978, testo che raccoglie le sue lezioni del corso di Criminologia).
[2] Molto bella, e molto ricca di documenti, la pagina dedicata a Guido Galli sul sito del Consiglio Superiore della magistratura (“per non dimenticare”). Tra i documenti anche la “famosa” sentenza della Sezione Disciplinare del C.S.M. del 3.12.1974 di assoluzione di Guido Galli (unitamente a Eduardo Greco e Domenico Pulitanò) per la “mancanza dell’elemento psicologico” rispetto alle contestazioni disciplinari di avere compromesso il prestigio dell’ordine giudiziario. La vicenda, di grande valore storico, si inserisce nel quadro della richiesta del Procuratore della Repubblica di Milano e della decisione della Corte di Cassazione di rimessione ad altra sede (Catanzaro) del processo contro Valpreda ed altri per la strage di Piazza Fontana. Rispetto alla richiesta, ed alla relativa decisione della Cassazione, la Giunta sezionale di Milano dell’A.N.M. (Guido Galli ne era il segretario) aveva deciso di convocare l’assemblea dei magistrati di Milano, ed era stato ritenuto lesivo del prestigio dell’ordine giudiziario il contenuto dell’ordine del giorno dell’assemblea, che muoveva critiche serrate alla decisione di spostare il processo da Milano a Catanzaro. Su questa vicenda si può consultare l’interessante recente contributo di Edmondo Bruti Liberati, La Magistratura milanese e le prime indagini sulla strage di Piazza Fontana, in questa Rivista, 18 aprile 2020, con significativa documentazione allegata.
[3] Dal 2014 l’Università Statale di Milano ha organizzato una “giornata sulla giustizia” in onore ed in memoria di Guido Galli per rinnovare ricordo ed impegno. L’iniziativa è stata celebrata tutti gli anni (tranne il 2020 per effetto della pandemia) ed è possibile leggere la presentazione degli incontri, e molti dei relativi interventi, in Diritto Penale Contemporaneo sino al 2019, e poi in Sistema Penale.
[4] Sulla giornata dell’11 dicembre 2015 all’Università Statale si può leggere l’intervento introduttivo di Gian Luigi Gatta, Guido Galli e Corrado Stajano “laureati benemeriti” in giurisprudenza, in Diritto penale contemporaneo, 14 dicembre 2015, con la registrazione audio integrale dell’evento.
[5] V. Renzo Agasso, Aula 309. Storia del Giudice Guido Galli ucciso da Prima Linea, Sironi Editore, p. 139 ss.
[6] Per una efficace sintesi della complessa, e nota, vicenda processuale di Nasr Osama Mostafa (Abu Omar), rinvio a S. Zirulia, Sul sequestro Abu Omar cala “il nero sipario” del segreto di Stato, Diritto penale contemporaneo, 19 maggio 2014; S. Zirulia, Ultimo capitolo della vicenda Abu Omar: la Cassazione conferma le condanne per sequestro di persona a carico di tre agenti americani della C.I.A., in Diritto penale contemporaneo, 20 ottobre 2014;
Marco Mariotti, La condanna della Corte di Strasburgo contro l’Italia sul caso Abu Omar, Diritto Penale Contemporaneo, 28.2.2016.
Sulla “questione Abu Omar” vi sono numerosi contributi scientifici ed approfondimenti vari.
[7] Abu Omar è stato infatti condannato con sentenza definitiva per la fattispecie di associazione terroristica, con la qualifica direttiva (art. 270 bis comma 1 c.p.p), alla pena di anni 6 di reclusione.
V. Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 2651 dell’8.10.2015 (dep. 21.1.2016).
[8] L’espressione “sipario nero” compare significativamente nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione del 24.2.2014 n. 20447, ed è ripresa e fatta propria dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, IV sezione, Nasr e Ghali c. Italia, del 23 febbraio 2016.
[9] Per una sintetica illustrazione della vicenda, e del suo profondo significato, rinvio per chi fosse interessato ad un mio contributo, Riflessioni sul complessivo sistema di contrasto al terrorismo internazionale in Italia, in Diritto penale contemporaneo, 14.6.2019.