Il contributo riproduce integralmente il testo scritto in vista dell’audizione informale in data 19 novembre 2019 del cons. Raffaele Sabato, giudice italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, innanzi alle Commissioni riunite II (Giustizia) e III (Affari esteri e comunitari) della Camera dei Deputati, nell'ambito dell'esame in sede referente dei progetti di legge C. 1124 Governo e C. 35 Schullian, recanti ratifica ed esecuzione dei Protocolli n. 15 e n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Il testo esprime le opinioni personali dell’estensore, senza impegnare in alcun modo l’istituzione di appartenenza.
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Il protocollo 15 e il protocollo 16 – su cui oggi codeste Commissioni parlamentari mi fanno l’onore di un’audizione – sono stati concepiti, com’è noto e come i lavori preparatori innanzi a codeste Commissioni attestano, all’interno di un unitario disegno di riforma della Corte europea dei diritti dell’uomo, il cosiddetto processo di Interlaken, costituito da una serie di Conferenze ad alto livello sul futuro della Corte. Nella prima conferenza dei ministri, tenutasi appunto a Interlaken (18-19 febbraio 2010), pur riconoscendosi lo straordinario contributo della Corte alla tutela dei diritti umani in Europa, si è inteso “scoraggiare linee di azione della Corte che producano l’effetto di incrementare lo sviluppo del contenzioso riferito a questioni bagatellari o teso a sollecitare una revisione della giurisprudenza nazionale. In tale contesto gli Stati” hanno proposto di “diminuire il carico di lavoro della Corte dinanzi avanti alla quale al 31 agosto 2011 pendevano oltre 150.000 ricorsi non decisi”[1].
Nella successiva conferenza di Smirne (26-27 aprile 2011) gli Stati membri “hanno preso atto che le disposizioni introdotte dal Protocollo n. 14 … non [erano state] sufficienti a fornire una soluzione duratura e globale … ravvisa[ndo] la necessità di proseguire la riflessione strategica a lungo termine sul ruolo futuro della Corte”[2]. “Considerando la necessità di adeguate misure nazionali per contribuire attivamente a diminuire il numero di ricorsi alla Corte di Strasburgo, la Conferenza di Smirne ha altresì ipotizzato …. di introdurre una procedura che consent[isse] alle giurisdizioni nazionali di ultima istanza di chiedere pareri consultivi alla Corte relativamente all’interpretazione e all’applicazione della Convenzione, sì da evitare futuri accertamenti di violazioni.”
In preparazione della terza Conferenza, convocata dalla presidenza di turno britannica a Brighton (18-20 aprile 2012) sulla base di un’ampia consultazione internazionale tenutasi precedentemente nella Conferenza informale di Wilton Park (17-19 novembre 2011) [3], David Cameron ha tenuto il noto discorso in sede di Consiglio d’Europa del 25 gennaio 2012, con cui ha chiarito gli obiettivi di “rafforza[mento della] “sussidiarietà” della Corte, dovendo un maggior campo di azione in tema di difesa dei diritti umani essere riservato allo Stato, di cui [avrebbe dovuto] essere ampliato il “margine di apprezzamento” per consentire applicazioni, anche differenziate in sede locale, delle norme della Convenzione, sulla base di decisioni democraticamente assunte dai Parlamenti nazionali”[4].
La stessa Corte europea è entrata a questo punto nel processo, con un’Opinione preliminare adottata il 20 febbraio 2012, con cui, tra l’altro, ha “evidenziato … l’opportunità di un dialogo con le giurisdizioni nazionali”: ha ricordato che, in un caso di grande rilievo, essa aveva “tenuto conto di una memoria fatta pervenire direttamente a Strasburgo dalla Corte suprema del Regno Unito, contenente le preoccupazioni dei giudici nazionali su un argomento processuale che non si riteneva adeguatamente valutato dalla Corte”[5].
La Dichiarazione finale di Brighton recepisce, com’è noto, nelle prime due delle sue sette sezioni, il sistema della sussidiarietà, su cui si era formato ampio consenso degli Stati; in tale quadro “la stessa Corte è invitata … a lavorare di concerto con le autorità nazionali in conformità con il principio di sussidiarietà e con la dottrina del margine di apprezzamento”, ciò che le avrebbe consentito di “concentrare i propri sforzi sulle violazioni gravi e diffuse … e di conseguenza emettere meno sentenze”[6]. La Dichiarazione si esprime anche nel senso che “l'interazione tra la Corte e le autorità nazionali potrebbe essere rafforzata dall’introduzione nella Convenzione di un potere ulteriore della Corte, che gli Stati Parti avrebbero la facoltà di accettare, di esprimere su richiesta dei pareri consultivi relativi all’interpretazione della Convenzione nel contesto di una causa specifica a livello nazionale, senza pregiudizio per il carattere non vincolante dei pareri per gli altri Stati Parti; invita il Comitato dei Ministri ad elaborare a tal fine il testo di un protocollo facoltativo alla Convenzione”.
Un anno dopo (26 aprile 2013) l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato il progetto di protocollo n. 15, con sole 5 astensioni. Nella deliberazione parlamentare si legge che gli “emendamenti proposti al testo sono principalmente di natura tecnica e sono incontroversi”, per cui “l’Assemblea sollecita tutte le Parti contraenti, e in particolare i loro organismi legislativi, ad assicurare una rapida sottoscrizione e ratifica di tale strumento”[7].
Conseguentemente il Comitato dei Ministri ha approvato il testo e il Protocollo n. 15 è stato aperto alla firma il 24 giugno 2013. Quattro giorni dopo, nella seduta del 28 giugno 2013, l’Assemblea Parlamentare si è espressa all’unanimità sul testo del Protocollo n. 16, rilevando come esso aprisse “la possibilità per i più alti organi di giustizia delle Alte Parti contraenti di ottenere, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo …, pareri su questioni di principio relative all'interpretazione o all'applicazione dei diritti e delle libertà definiti nella Convenzione e nei suoi Protocolli”, così “rafforza[ndo] il legame tra la Corte e le più alte giurisdizioni degli Stati con la creazione di una piattaforma per il dialogo giudiziario” e “contribu[endo] a spostare in sede nazionale, e da ex post a ex ante, la soluzione delle questioni in tema di interpretazione delle disposizioni della Convenzione”, ciò che “rafforzerà …. il principio di sussidiarietà”[8].
La ratio di rafforzamento della sussidiarietà rende evidente come anche tale Protocollo n. 16, aperto alla firma il successivo 2 ottobre 2013, sia da considerarsi, unitariamente al precedente Protocollo n. 15, frutto inscindibile della Conferenza di Brighton, nella quale – come ricordato – era stata guardata con favore l’idea di creare uno strumento di collaborazione a fini interpretativi tra il giudice nazionale e la Corte. Un “vantaggio” di una procedura della specie, costituita dalla “mera formulazione di un parere, non vincolante”, era stato individuato a Brighton anche nel “meglio distinguere la valutazione dei fatti (lasciata al giudice nazionale) dall’interpretazione della Convenzione (attribuita congiuntamente ai giudici nazionali e di Strasburgo)”.[9]
Il governo italiano ha sottolineato al Parlamento che “l’adozione di due nuovi Protocolli nello stesso anno è in sé segno dell’impulso alla riforma” della Corte.[10] Condivisibilmente il governo ha proposto la traduzione in italiano della denominazione della nuova procedura di richiesta di parere come “procedura di consultazione” e ha sottolineato come la designazione delle giurisdizioni superiori abilitate ad avviarla competa agli Stati membri, avendo la procedura come “punti chiave”, tra gli altri, “la facoltatività della richiesta”, la limitazione delle questioni che possono formarne oggetto alle “questioni di principio” (“resta[ndo] appieno nella responsabilità del giudice nazionale applicare i principi enunciati dalla Corte al caso di specie”) e la “non vincolatività del parere richiesto”, con la conseguenza che “è l’autorità giudiziaria nazionale a decidere degli effetti del parere richiesto”.[11]
Il protocollo n. 16, al pari del protocollo n. 15, è stato salutato con favore dalla Corte europea dei diritti dell’uomo mediante una serie di considerazioni già acquisite ai lavori di codeste onorevoli Commissioni parlamentari.
In proposito, giova richiamare – in relazione a qualche intervento innanzi a codeste onorevoli Commissioni che ha evocato l’opportunità di sentire i giudici nazionali in argomento – che a tanto ha già provveduto, in occasione dell’open call for contributions sul futuro della Corte di Strasburgo, il nostro Ministero della giustizia. Come emerge già agli atti del Parlamento, il governo ha ottenuto favorevoli contributi della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti; in tale ambito, tra l’altro, si è dato atto dell’avere, ad esempio, la Corte di cassazione sottolineato “come il procedimento di consultazione esalti il principio di sussidiarietà, ma soprattutto costituisca una forma di istituzionalizzazione del dialogo tra la Corte europea e i giudici nazionali, favorendo la migliore conoscenza, la diffusione e l’effettivo rispetto in ambito nazionale dei principi della Convenzione”, “sposta[ndo] la risoluzione di una serie di questioni di interpretazione … nel contesto nazionale dalla fase ex post a quella ex ante”.[12]
Numerosissime negli anni successivi sono state le manifestazioni di favore alla ratifica di entrambi i Protocolli da parte di magistrature e avvocatura. L’ “util[ità]” del “parere preventivo che le alte corti possono chiedere alla Corte EDU ai sensi del Protocollo n. 16 alla Convenzione” è stata affermata da ultimo dal primo presidente della Cassazione in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2019, ponendo in luce come in attesa della ratifica comunque siano state previste già autonomamente tra la Corte suprema italiana e la Corte di Strasburgo “forme di contatto e interazione, come incontri di approfondimento, scambio e condivisione, anche informale, di conoscenze ed esperienze”, in particolare mediante un’intesa “siglat[a] a Strasburgo l’11 dicembre 2015, [riguardante] la realizzazione di una piattaforma virtuale destinata a consentire ai giudici nazionali di conoscere in tempo reale la giurisprudenza della [Corte europea dei diritti dell’uomo] e a questa di ottenere notizie circa la legislazione e la giurisprudenza dei vari paesi”[13].
Analoghe intese sono state siglate tra la Corte di Strasburgo, da un lato, e, dall’altro, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e anche, in data 30 gennaio 2019, la Corte costituzionale. Tutte le alte giurisdizioni nazionali, al pari di quelle di altri 37 Stati, per la quasi totalità dunque delle parti contraenti la Convenzione, sono parte della predetta piattaforma di consultazione informale, la c.d Superior Court Network[14]. Non potendo richiamare per ragioni di brevità le favorevoli espressioni con cui tutti tali organismi hanno accolto le occasioni di dialogo, mi limito a richiamare le parole con cui il presidente del Consiglio di Stato ha, qualche mese fa, da un lato realisticamente dato atto di possibilità di frizione, dall’altro invocato la ratifica dei protocolli, con particolare riferimento al n. 16. Secondo le parole del presidente dell’alto consesso amministrativo “gli spazi di frizione, tra Corti europee e Corti interne e tra queste ultime, non devono stupire, in quanto, nell’ottica di un ordinamento integrato, è inevitabile che le Corti a presidio di quell’ordinamento tendano ad assumere su di sé una funzione nomofilattica che è difficile raccordare con le analoghe prerogative delle Corti superiori nazionali. Ma soluzioni sono possibili. Un segnale assai positivo potrebbe essere la ratifica, da parte dello Stato italiano, del protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come è stato rimarcato nell’incontro dello scorso gennaio presso la Corte costituzionale tra le nostre Corti superiori e la Corte europea”[15].
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Se il pur sintetico excursus precedente può esser valso a testimoniare come sia il contesto internazionale sia il contesto giudiziario nazionale non abbiano, sino a recentemente, al di là di alcune cautele, manifestato significativi dubbi circa l’opportunità di una sollecita ratifica da parte di tutti gli Stati firmatari dei due protocolli, si tratta ora di brevemente affrontare i dubbi emersi nel nostro Paese in epoca recente da parte di alcuni osservatori. Siamo di fronte, a mio avviso, a un numero limitato di critici, le cui preoccupazioni possono essere agevolmente superate.
Una prima osservazione che secondo me può essere smentita è quella che, facendo leva sui diversi meccanismi di entrata in vigore dei due Protocolli e del diverso stato delle ratifiche, tende ad accreditare diverse meritevolezze dei due strumenti, favorendo il Protocollo n. 15 rispetto al n. 16.
Come detto, i due protocolli sono inseriti in un unico disegno riformatore, tendente ad accrescere (e non certo a diminuire) il ruolo delle autorità nazionali, in ottica di “sussidiarietà” rispetto al ruolo della Corte. E’ pur vero che il protocollo n. 15 contiene anche alcune disposizioni, del tutto secondarie, riguardanti il funzionamento della Corte (di cui in appresso); ma è soprattutto vero che l’introduzione espressa, nel Preambolo della Convenzione, del “principio di sussidiarietà” e del riconoscimento parimenti espresso agli Stati di un “margine di apprezzamento”, nonché l’affidamento esclusivo, nell’art. 35, ai giudici nazionali (con esclusione della competenza della Corte di Strasburgo) dei casi in cui dalle violazione dei diritti umani non sia derivato un “pregiudizio significativo”(il c.d. principio “de minimis”) – tutto ciò ad opera del Protocollo n. 15 – sono caratteristiche che si saldano politicamente e giuridicamente alla previsione della procedura facoltativa di consultazione tra alte giurisdizioni nazionali e Corte di Strasburgo, quest’ultima varata ad opera del Protocollo n. 16. E’ agevole comprendere che l’inserimento delle norme in due protocolli separati, pur se tutte ispirate alla sussidiarietà, si deve, da un primo angolo visuale, alla tempistica della conferenza di Brighton, che non mise a punto compiutamente la procedura di consultazione, pur auspicata; da un secondo angolo visuale, la separazione si deve al fatto che per il vigore delle norme del Protocollo n. 15, direttamente emendative di principi e regole convenzionali preesistenti, era necessario il consenso di tutte le parti contraenti; viceversa, la procedura di consultazione del Protocollo n. 16 ben avrebbe potuto funzionare (e sta funzionando) solo tra alcuni Stati membri, posto anche che era preannunciato che alcuni altri Stati avrebbero necessitato di adattamenti degli ordinamenti interni (tra questi, non l’Italia) prima di poter firmare il Protocollo stesso.
Neppure mi pare, in quest’ottica, che si debbano trarre conclusioni negative dalla diversa numerosità delle ratifiche tra i due Protocolli:
a) il Protocollo n. 15, sottoscritto da tutti i 47 Stati membri, è stato da tutti ratificato, ad eccezione della Bosnia-Erzegovina (il cui sistema politico è in questo momento in crisi di funzionamento[16]) e dell’Italia;
b) il Protocollo n. 16, per le ragioni anzidette, ha un numero più limitato di sottoscrittori (22, tra cui l’Italia), ma di essi già oltre la metà (13) lo ha ratificato, ciò che non è una situazione che in alcun modo può giocare contro l’opportunità di una ratifica italiana, se si tiene conto che ben 6 Stati hanno firmato più recentemente (negli anni 2017-2018) e un aumento di attenzione deriverà dal fatto che nel 2018 il Protocollo è entrato in vigore, a seguito della decima ratifica (della Francia). Ovviamente va tenuto conto che hanno maggior interesse al Protocollo i paesi con maggiori pendenze dinanzi alla Corte europea, per cui alcuni importanti Paesi non hanno considerato urgente la firma e/o la ratifica, a fronte del nostro Paese, i cui operatori sono come detto invece interessati.
Vale poi la pena di affrontare le opinioni secondo le quali, per l’Italia, la ratifica del protocollo 16 sarebbe suscettibile di “cortocircuitare” – come si è detto – il ruolo che nel nostro ordinamento è assegnato alla Corte costituzionale. A tal riguardo, una prima osservazione concerne l’assoluto prestigio che, a livello internazionale, accompagna la nostra Corte costituzionale, la quale parallelamente nell’ordinamento interno è salda al timone del nostro sistema delle fonti del diritto, che non è suscettibile, senza interventi della stessa Corte costituzionale, di sovvertimenti da parte della giurisprudenza di Strasburgo. Insomma, la nostra Consulta non si fa certo “cortocircuitare”.
Si deve alla stessa Corte costituzionale (e in particolare alle sue due sentenze nn. 348 e 349 del 2007, oltre numerose altre tra le quali in particolare la n. 49 del 2015) la chiara definizione del quadro giuridico nazionale secondo cui il giudice italiano è vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo che contrasti rispetto ad una legge interna, e ciò solo in alcuni casi (nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”); inoltre ciò potrà fare autonomamente solo in un numero ancor più ristretto di casi (quando cioè sia possibile un’interpretazione delle norma interna conforme alla Convenzione, non invece quando il contrasto sia insuperabile), dovendo in caso di contrasto non superabile ricorrere all’incidente di legittimità costituzionale, che lascerà arbitra la Consulta di dichiarare o non dichiarare incostituzionale la norma interna, in relazione al noto meccanismo dei controlimiti che non è possibile qui richiamare.
Orbene, se si pone mente a tale quadro giuridico – che, ripeto, è assai chiaro e netto, senza che con ciò io intenda esprimermi su se esso sia effettivamente coerente con gli obblighi internazionale dell’Italia – non si può non ritenere che, dall’eventuale ratifica del Protocollo n. 16, che sostanzialmente come detto “anticipa” il momento in cui si realizza il confronto tra giurisprudenza nazionale e quella di Strasburgo, non deriverà alcun mutamento nella posizione attribuita alla Corte costituzionale. Ammesso, ad esempio, che la procedura di consultazione renda chiara all’alta giurisdizione nazionale l’esistenza di un contrasto (ma ciò potrebbe anche non avvenire), il giudice nazionale non potrà che regolarsi come prima: se il parere consultivo proveniente da Strasburgo avrà le caratteristiche di cogenza individuate dalla nostra Corte costituzionale (ciò che, ripeto, corrisponde alla visione nazionale, non necessariamente da me condivisa; in particolare, il Parere dovrà essere espressione di una giurisprudenza consolidata), il giudice tenterà l’interpretazione conforme, già precedentemente possibile; ma – e questo è il profilo di rilievo – se il contrasto non è superabile in via interpretativa, mai potrà il giudice italiano comune disapplicare autonomamente il diritto nazionale contrastante, dovendo richiedere alla Corte costituzionale una declaratoria di illegittimità costituzionale. Insomma, ribadisco che nessun “cortocircuito” è ipotizzabile.
Credo che le opinioni divergenti su tale profilo si fondino sull’assimilazione della procedura di consultazione prevista dal Protocollo n. 16 allo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea previsto all’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE; ma le differenze tra i due meccanismi sono notevolissime, potendo solo nel quadro di applicabilità del diritto dell’UE (e non della Convenzione EDU) il giudice nazionale comune disapplicare il diritto interno contrastante, e ciò sia prima sia dopo il rinvio pregiudiziale (dopo il rinvio pregiudiziale essendo vincolante, su alcuni aspetti, la pronuncia dei giudici di Lussemburgo). La procedura di consultazione con la Corte di Strasburgo, invece, trovando il suo antecedente nell’art. 64 della Convenzione interamericana sui diritti umani, mira semplicemente a far acquisire allo Stato membro (nel caso di specie, a giudici individuati dallo Stato membro) un autorevole parere, non vincolante, sull’interpretazione e l’applicazione della Convenzione, lasciandosi totalmente arbitro il giudice remittente dell’uso da farsi del parere stesso, ma senza che il parere lo abiliti a disapplicare una norma interna.
Mi pare opportuno, poi, a rischio di banalizzare questioni complesse, sottolineare che, se si temono in qualche modo “cortocircuiti” rispetto al ruolo della Corte costituzionale (che, ritengo, essa non tema, inserita com’è nella rete delle Corti superiori che, come detto, tiene stretti rapporti con Strasburgo), non si dovrebbe certo invocare la non ratifica del Protocollo n. 16, ma – al massimo (e, a costo di ripetermi, chiarisco che con ciò non intendo certo esprimere condivisione dell’ipotesi che vado a formulare) – invocare che solo la Corte costituzionale, e non le altre alte giurisdizioni, siano abilitate a richiedere il parere consultivo, ciò che in radice eviterebbe ogni “cortocircuito” senza però privare il Paese di uno strumento utilissimo di dialogo giudiziario. Al di là di questa ipotesi, volutamente paradossale, ricordo che – secondo l’ipotesi di legislazione all’esame di codeste On.li Commissioni – sarebbero invece, e opportunamente, destinatari della facoltà di richiesta di parere la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, e il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, lasciandosi – conformemente alla sua posizione costituzionale rispetto al Parlamento, che può mediante la ratifica abilitare, ma non obbligare, dal punto di vista procedurale la Consulta[17] – alla stessa Corte costituzionale di regolare con propria disposizione la medesima facoltà; va chiarito che, come prevede espressamente il Protocollo n. 16, lo Stato possa in ogni tempo modificare l’elenco delle autorità abilitate alla procedura.
Altre preoccupazioni sono state sollevate in ordine a un temuto – ma a mio avviso insussistente – impatto della consultazione sulla durata dei processi in Italia. In proposito, debbo anzitutto specificare che il Protocollo n. 16 non impone in alcun modo che, durante la consultazione, il processo nazionale resti sospeso. Ne deriva che, in astratto, dopo aver posto il quesito alla Corte di Strasburgo, l’alta giurisdizione nazionale potrà se necessario far proseguire il processo con altri adempimenti che fossero necessari, in attesa dell’emissione del parere. L’opportunità di dare disposizioni in tema di sospensione del processo, dunque, è valutata autonomamente dalle autorità nazionali. L’ipotesi di legislazione all’esame di codeste On.li Commissioni, in tal senso, include un comma che espressamente regolerebbe la sospensione come “facoltativa”, ciò che già di per sé rassicura circa il fatto che, ove siano necessari altri passaggi procedurali, il giudice richiedente - come detto - potrà effettuarli in attesa del parere, senza che la consultazione “blocchi” gli stessi.
A ciò va aggiunto che la Corte europea dei diritti dell’uomo, a fronte della prima richiesta di parere provenuta dalla Cassazione francese il 16 ottobre 2018, è stata in grado di pronunciare prima sull’ammissibilità e poi di rendere il Parere il 10 aprile 2019, a meno di sei mesi cioè dalla richiesta; ciò che testimonia l’attenzione della Corte di Strasburgo verso l’esigenza di rapidità insita nella procedura di consultazione. Se a ciò si aggiunge che, nella maggior parte dei casi, nei procedimenti in cui vi sarà stata consultazione preventiva sarà più veloce (in quanto incanalato su una strada giuridica già tracciata) l’iter di un eventuale ricorso successivo alla Corte europea, diverrà evidente come le preoccupazioni circa un impatto negativo sulla durata dei processi siano prive di fondamento. Viceversa, la procedura di consultazione ridurrà certamente il numero di ricorsi successivi a Strasburgo, alleviando in particolare la posizione di Paesi che, come il nostro, soffrono di un eccessivo numero di pendenze in sede europea.
Resta da svolgere qualche considerazione circa la situazione in cui verserebbe il Paese nell’ipotesi, che non auspico, di mancata ratifica del Protocollo n. 16. Senza scendere in dettagli qui irrilevanti – connessi al testo dell’art. 18 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati circa la differenziazione tra i casi di mancanza di atto di ratifica e di rifiuto vero e proprio della ratifica - dal punto di vista dello strumentario disponibile al giudice nazionale si ricadrebbe in una collocazione internazionale assai negativa. Il Protocollo, infatti, è entrato in vigore nel 2018 e, dall’entrata in vigore, due Corti superiori (la Cassazione francese e la Corte costituzionale armena) hanno avviato procedure di consultazione. In tale situazione, è verosimile che vi siano altre procedure nei prossimi mesi. In questo quadro, cominceranno a circolare i pareri della CEDU e, collegate a essi, le decisioni conseguenziali delle corti nazionali. Non può dubitarsi del fatto che anche le corti dei paesi non ratificanti il protocollo terranno conto del corpus giurisprudenziale che così si produrrà che, a differenza del passato, comprenderà pronunce di Strasburgo ma anche gli sforzi quasi contestuali di “compatibilizzazione” dei giudici nazionali; inoltre, sempre a differenza del passato, tale giurisprudenza sarà agganciata a problemi giuridici del momento storico (mentre sinora si è assistito a lunghi lassi temporali separanti le decisioni nazionali e quelle di Strasburgo, dapprima, e quelle di Strasburgo e i successivi adattamenti nazionali, poi). Si assisterà dunque a un’evoluzione in cui le giurisdizioni “favorite” dalla ratifica del Protocollo n. 16 saranno “protagoniste” di una nuova forma di dialogo, e potranno dare il loro contributo, reso più significativo da una logica di sussidiarietà; le giurisdizioni dei paesi non ratificanti non svolgeranno questo ruolo, e saranno a mio avviso sfavorite nel loro lavoro. A fronte di ciò, però, è bene chiarire che queste ultime non saranno certo “sterilizzate” rispetto al dialogo in corso, come forse si auspica da parte di chi teme “cortocircuiti” istituzionali. E ciò per due ragioni: in primo luogo, in quanto le corti italiane comunque partecipano, come detto, con le corti di altri 37 Stati, in base alla loro autonomia, alla piattaforma informale che ha da tempo anticipato quella formale del Protocollo n. 16; in secondo luogo, in quanto comunque le corti nazionali non potranno essere indifferenti rispetto alle acquisizioni giurisprudenziali che si avranno su iniziativa di altri paesi, pur mai vincolanti; tali giurisdizioni non saranno però di esse “protagoniste”. E questo non è un bene, in quanto mancando la facoltà di porre quesiti, manca anche la possibilità, per la corte nazionale di un paese non partecipante al Protocollo, di proporre implicitamente o esplicitamente soluzioni, semmai più vicine al tessuto giuridico nazionale.
Una riflessione tratta da eventi recenti potrà essere utile. Come ho accennato, nell’ottobre 2018 la Cassazione francese ha rivolto alla Corte di Strasburgo la prima richiesta di parere consultivo, cui la Grande Camera ha dato riscontro il 10 aprile 2019. Senza scendere nei dettagli, può ricordarsi che il tema è stato quello assai scottante del riconoscimento dell'efficacia dell’atto straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d'intenzione europeo, che normalmente trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto in quasi tutti i paesi del nostro continente. Un problema, dunque, di sicura attualità. E, come tutti i problemi giuridici di questo tipo, essi si pongono contemporaneamente in più paesi. E infatti il 6 novembre 2018, dopo la richiesta della Cassazione francese, ma prima del Parere reso a Strasburgo, un caso analogo è stato discusso innanzi alle Sezioni Unite della Cassazione italiana, che ha depositato la sua decisione l’8 maggio 2019, un mese dopo che a Strasburgo era stato pubblicato il Parere sul tema. Orbene, senza ancora una volta volere scendere in dettagli su cui gli addetti ai lavori hanno scritto molto, è indubitabile che le parti e i giudici del caso italiano abbiano tenuto conto dell’evoluzione in corso sulla linea Parigi-Strasburgo, cui però non si è potuta affiancare, almeno formalmente, una linea Roma-Strasburgo; comunque la decisione italiana è risultata conforme alla soluzione data dalla CEDU al secondo dei quesiti posti dalla Cassazione francese. Vi è stato poi un colpo di scena – che non rileva ai nostri fini – nel senso che la Cassazione francese, con la sentenza che ha definito il caso, ha ritenuto di non avvalersi della stessa soluzione, che essa stessa aveva preconizzato; con ciò evidenziando – se ve ne fosse necessità – l’estrema flessibilità della procedura e la piena libertà del giudice richiedente.
Quel che rileva a mio avviso è che, rispetto a questo meccanismo, l’Italia non continui solo a dover ascoltare il dialogo tra altri, che comunque la influenza, ma ne possa essere piena partecipe, propositrice di soluzioni.
Un’altra riflessione può trarsi dalla scaturigine storica del Protocollo n. 16, e cioè noto dal caso Al-Khawaja c. Regno Unito che, un decennio fa, vide la Corte suprema di quello Stato contestare la percezione che del diritto anglosassone in tema di testimonianza de relato aveva la CEDU: la Corte suprema decise un caso simile (R v Horncastle & Others) esplicitamente affrontando il tema e sottoponendo memoria alla Grande Camera. La Grande Camera accolse gli spunti di dialogo formulati dai giudici nazionali con il predetto “artificio” e rivide precedenti orientamenti. Per evitare che dialoghi della specie avvenissero, come nel caso di specie, in via surrettizia e occasionale, a Brighton fu dunque avviata l’idea che oggi si concreta nel Protocollo n. 16.
Ho ricordato la scaturigine “giurisprudenziale” del Protocollo n. 16 per richiamare che anche l’Italia ha i suoi casi di questo tipo, la cui trattazione beneficerebbe della procedura di consultazione preventiva. Un esempio può trarsi dalla relazione con cui il presidente della Corte costituzionale, lo scorso 21 marzo, ha preso atto con soddisfazione del fatto che con una sentenza del 2018 (la sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia del 28 giugno 2018) la Grande Camera avesse escluso che la confisca urbanistica di beni lottizzati abusivamente violasse in sé norme della Convenzione quando non disposta unitamente a una sentenza penale di condanna. La Grande Camera – come nota il presidente della Consulta – ha così superato, nel senso auspicato dalla Consulta stessa con la sentenza n. 49 del 2015, una precedente sentenza di Strasburgo del 2013 (Varvara c. Italia del 29 ottobre 2013). Il presidente della Corte costituzionale rivendica la “posizione di dialogo costruttivo con il giudice europeo”[18] assunta dall’organo costituzionale italiano come matrice di questo cambiamento.
Di fronte a esempi come questi, come è possibile negare che la posizione di dialogo sarebbe stata ancor più proficua ove la Corte costituzionale avesse potuto disporre della procedura di consultazione preventiva, che in sei mesi avrebbe dato i risultati che si sono ottenuti dopo oltre cinque anni di dubbi e incertezze?
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Mi sono dilungato sui profili relativi al Protocollo n. 16, essendomi però possibile, circa le questioni relative al Protocollo n. 15, richiamare le osservazioni che l’ambasciatore Michele Giacomelli, rappresentante d’Italia presso il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha svolto circa le sollecitazioni che a Strasburgo sono indirizzate al nostro Paese ai fini della sollecita ratifica dello stesso.
Sui profili affrontati dal Protocollo n. 15, diversi da quelli sopra già velocemente trattati (preambolo che esplicita il principio di “sussidiarietà” e recepisce il “margine di apprezzamento”; modifica all’art. 35 in tema di “de minimis”), posso brevemente osservare che si tratta di temi riguardanti il funzionamento della Corte, del tutto secondari rispetto all’economia del Protocollo, che ha semplicemente rappresentato la prima occasione utile per razionalizzazioni del testo della Convenzione da tempo invocate. In particolare, posso osservare che:
– in luogo di stabilire un limite di età per i giudici che produca la decadenza di giudici già nominati senza far loro terminare il mandato, si stabilisce un limite d’età (di 65 anni) riferito a un momento certo antecedente la nomina (più basso, ovviamente, rispetto al precedente riferito alla cessazione del mandato); la conseguenza sarà che i giudici, salvo altra causa di cessazione, termineranno sempre il mandato in base alla nuova norma, a età variabili; il limite d’età fisso a 70 anni si giustificava allorché, prima del 2010, il mandato dei giudici era rinnovabile; in rari casi – si è osservato – potrebbe ora darsi che restino in servizio presso la corte, pur sempre per un solo mandato, giudici inizialmente sessantacinquenni, che compirebbero il 74° anno sostanzialmente al loro esodo; ciò non deve suscitare alcuna perplessità, posto che la maggior parte delle corti nazionali vedono analoghi limiti di età,[19] a fronte del requisito convenzionale di elevata esperienza per i giudici di Strasburgo a nominarsi;
– si attribuisce al potere d’ufficio della Camera della Corte il trasferimento diretto di casi alla Grande Camera, eliminando il requisito dell’accordo delle parti, le quali comunque continueranno a prendere posizione sul tema; la disposizione è necessaria nell’ottica di velocizzare ed economizzare i tempi di decisione, posto che attraverso l’esercizio del potere d’ufficio, nelle ipotesi che necessitino di creare uniformità giurisprudenziale, si eviterebbe di dover attendere una decisione di Camera prima che la Grande Camera possa essere investita;
– analogamente nell’ottica di velocizzare i tempi di decisione, soprattutto nei casi di ricorsi inammissibili, si inserisce la previsione che riduce da sei a quattro mesi il termine di proposizione del ricorso individuale; rispetto alle obiezioni mosse, per cui tale riduzione renderebbe più difficile la tutela richiesta, deve dirsi che, come notato nei lavori preparatori, a seguito dei progressi tecnologici in molti Stati membri analoghi termini sono stati ridotti (in Italia, i tempi per la riassunzione e per il passaggio in giudicato nel settore civile e amministrativo); il termine di quattro mesi, inoltre, decorre dal passaggio in giudicato della decisione interna, per cui può essere in concreto più lungo; la procedura innanzi alla corte, peraltro, impone soltanto che entro il detto termine sia compilato (anche senza l’assistenza di un avvocato) il questionario introduttivo, potendo le difese specifiche (con assistenza dell’avvocato) essere rassegnate successivamente.
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Concludo ringraziando per l’opportunità offerta di esporre le ragioni che militano a favore di una sollecita ratifica di entrambi i Protocolli, contribuendo a rinsaldare la collaborazione tra giudici nazionali e giudici internazionali nel comune compito di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
[1] Così Relazione al Parlamento in attuazione della l. n. 12 del 2006, relativa all’anno 2011, p. 11. Le Relazioni della specie, a cura della presidenza del Consiglio dei ministri, si rinvengono a questo link.
[2] Ibidem.
[3] Su cui v. Relazione cit., relativa all’anno 2012, pp. 12-13.
[4] Ibidem.
[5] Così Relazione cit., relativa all’anno 2011, p. 18. Il caso richiamato era Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, su cui v. in appresso nel testo.
[6] Relazione cit., relativa all’anno 2012, p. 13, ove anche testo della Dichiarazione di Brighton.
[7] Punto 3 del Parere no. 283 (2013) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, come richiamato nella Relazione cit., relativa all’anno 2012, p. 11, in nota (traduzione in italiano del sottoscritto).
[8] Parere n. 285 (2013) dell’Assemblea predetta, in www.coe.int (traduzione in italiano del sottoscritto).
[9] Relazione cit., relativa all’anno 2012, p. 14.
[10] Relazione cit., relativa all’anno 2013, p. 12.
[11] Relazione cit., relativa all’anno 2013, p. 12.
[12] Relazione cit., relativa all’anno 2013, p. 13.
[13] Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, 25.1.2019, p. 57; circa l’intesa e il suo funzionamento v. anche le Relazioni precedenti, in particolare quella del 26.1.2018, p. 108.
[15] Così la Relazione del Presidente del Consiglio di Stato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, 12.2.2019, p. 30; quanto alla stipula dell’intesa tra Consiglio di Stato e Corte europea, v. l’analoga Relazione, 30.1.2018, p. 45.
[17] V. art. 14 l. 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale la Corte costituzionale può disciplinare l'esercizio delle sue funzioni con regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti. Il regolamento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
[18] Relazione del presidente della Corte costituzionale in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, 21.3.2019, p. 23.
[19] Il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri pubblicato sulla G.U. n. 43 del 2018, che ha indetto la selezione del giudice CEDU per l’Italia, ha da ultimo fissato come limite d’età (v. art. 2) quello di 64 anni alla scadenza del bando nazionale, sostanzialmente pari a quello di 65 anni al momento della selezione internazionale. Ovviamente, ove fosse stato selezionato un giudice di tale età, sarebbe decaduto nell’attuale regime all’età di 70 anni. La considerazione del limite utilizzato vale, però, a rilevare che anche l’autorità preposta al bando già ha ritenuto idonee selezioni di soggetti di 65 anni.