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  Editoriale  
06 Novembre 2023


Prescrizione e improcedibilità: l’ennesima riforma e dieci verità nascoste

A proposito del disegno di legge C. 893-A



*Contributo pubblicato nel fascicolo 11/2023. 

 

1. La Camera dei Deputati si accinge nei prossimi giorni ad approvare, in prima lettura, un disegno di legge parlamentare (Proposta di legge n. 893-A Pittalis e altri) recante “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di prescrizione”. La proposta di legge, che può leggersi in allegato, risulta dall’unificazione di altre proposte di legge parlamentari e da un emendamento dei relatori Costa e Pellicini, che ha avuto il parere favorevole del Governo. Essa:

  • abolisce il nuovo istituto della improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione (art. 344 bis c.p.p.);
  • reintroduce la prescrizione del reato in appello e in cassazione facendo quindi venire meno il blocco dopo il primo grado.

Con un tratto di penna si mandano quindi in soffitta la riforma Cartabia del 2021 (improcedibilità) e la riforma Bonafede del 2019 (blocco della prescrizione dopo il primo grado). Prima di esaminare criticamente questa proposta di legge e di soffermarci su alcune ‘verità nascoste’, rimaste ai margini di un dibattito mediatico che risente della complessità tecnica del tema e che è pure stato accompagnato da tanti slogan e non poche fake news, diamo conto al lettore di quel che bolle in pentola; un lettore comprensibilmente esausto dopo anni di continue riforme della prescrizione, diventata il più instabile istituto del diritto e del processo penale. Basti pensare che gli studenti iscritti a giurisprudenza negli ultimi otto anni hanno studiato – ciascuno in anni diversi – cinque diverse discipline della prescrizione: la ex Cirielli (fino al 2016), la Orlando (2017-2018), la Bonafede (2019-2020), la Cartabia (2021-2023) e, ora, la 'Nordio-Delmastro'.

 

2. La proposta, frutto di un accordo di maggioranza e contenuta nel testo base del disegno di legge C. 893-A, approvato dalla Commissione Giustizia il 30 ottobre scorso, è di tornare a un meccanismo sospensivo del corso della prescrizione nei giudizi di impugnazione, che in parte si sovrappone a quello introdotto dalla riforma Orlando del 2017 e in parte riprende una delle proposte alternative formulate dalla Commissione Lattanzi nel 2021.

La sospensione, disciplinata in un nuovo art. 159 bis c.p. (“Sospensione del corso della prescrizione a seguito di sentenza di condanna”), opererebbe (come in Orlando) solo dopo la sentenza di condanna – non anche, quindi, dopo una assoluzione. Quanto alla durata, in appello il corso della prescrizione sarebbe sospeso per massimo due anni (erano 18 mesi in Orlando); in Cassazione – quindi dopo la sentenza di appello che conferma la condanna – per un tempo massimo di un anno (erano 18 mesi in Orlando). Complessivamente, come nella riforma Orlando, dopo una condanna in primo grado il giudice penale avrebbe tre anni di tempo in più, tra secondo e terzo grado, per chiudere il processo evitando la prescrizione. I processi penali potrebbero quindi complessivamente durare fino a tre anni in più: una notazione non banale, come diremo, in tempi in cui il PNRR impone di ridurre entro il 2026 i tempi medi del giudizio del 25%, anche e proprio in appello e nel giudizio di cassazione (lo abbiamo segnalato proprio oggi, su questa Rivista, a margine della pubblicazione degli ultimi dati sul monitoraggio degli indicatori PNRR)

La sospensione decorrerebbe dal termine per il deposito delle motivazioni (art. 544 c.p.p) e si cumulerebbe con eventuali diverse cause sospensive previste dall’art. 159 c.p. (ad es., la sospensione del processo per impedimento delle parti e dei difensori o su richiesta dell’imputato o del difensore, la devoluzione di una questione alla Corte costituzionale, ecc.).

I periodi di sospensione della prescrizione sarebbero però computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere in due concorrenti eventualità:

  1. se la corte d’appello o la Corte di cassazione depositano la loro sentenza dopo il termine massimo di sospensione della prescrizione (rispettivamente, di due anni o di un anno) (come nella proposta Lattanzi, che però prevedeva un più breve periodo di sospensione, pari a diciotto mesi in appello);
  2. se nel grado di giudizio in cui ha operato la sospensione o in quello successivo, l’imputato è prosciolto o la sentenza di condanna è annullata nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero sono accertate le nullità indicate negli articoli 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale, anche ai sensi dell’articolo 623, comma 1, lettere b) e b-bis) (soluzione parzialmente ripresa dalla riforma Orlando, perché il recupero viene esteso, come si vedrà, anche al proscioglimento nello stesso grado).

La sospensione della prescrizione opererebbe anche – per la terza volta – nell’eventuale giudizio di rinvio davanti alla corte d’appello a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione.

 

2.1. Tra le ulteriori modifiche alla disciplina, quanto al codice penale, la sentenza di condanna tornerebbe a integrare un atto interruttivo della prescrizione (art. 160, co. 1 c.p.), l’art. 161 bis c.p. (cessazione del corso della prescrizione dopo il primo grado) sarebbe abrogato; all’elenco dei reati per i quali il termine di prescrizione viene aumentato della metà (anziché di un quarto), in presenza di atti interruttivi, verrebbero aggiunti alcuni delitti ‘da codice rosso’, tra i quali lo stalking (art. 612 bis c.p.) e le lesioni personali dolose e lo sfregio del volto (artt. 582 e 583 quinquies c.p.) aggravati per essere commessi a danno del coniuge o di persona legata da relazione affettiva o nel contesto di maltrattamenti in famiglia o di violenza sessuale.

 

2.2. Quanto al codice di procedura penale, oltre all’abrogazione dell’art. 344-bis c.p.p. verrebbero cancellati i numerosi richiami all’istituto dell’improcedibilità. Per un verso, si prevede che vengano espunti i riferimenti all’art. 344-bis c.p.p. nell’art. 129-bis, comma 4, nell’art. 157-ter, comma 2, nell’art. 175, comma 8-bis e nell’628-bis, comma 7; per altro verso, si statuisce l’abrogazione delle previsioni volte a disciplinare la decisione sugli effetti civili (art. 578, commi 1-bis e 1-ter) e la decisione sulla confisca e provvedimenti sui beni in sequestro (art. 578-ternel caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. Infine, la proposta di legge abroga l’art. 175-bis disp. att. mentre il costante monitoraggio dei termini previsto dall’art. 165-ter, disp. att., viene mantenuto con riguardo ai «termini di cui all'articolo 159-bis, primo comma, del codice penale».

***

Dopo aver dato brevemente conto del progetto di legge, passiamo ora a esporre le nostre considerazioni critiche, articolate in dieci punti che, senza la pretesa di essere depositari del vero, indichiamo come ‘verità nascoste’ per sottolineare come sviluppino argomenti, in molti casi fattuali e sorretti da dati statistici, rimasti ad oggi in ombra nel dibattito pubblico.   

 

3. Prima ‘verità nascosta’: è un grave errore di metodo fare della prescrizione un tema politico-identitario e continuare a modificarne la disciplina. – Per 75 anni, la disciplina della prescrizione è in sostanza rimasta quella originaria, risalente al codice Rocco del 1930. È stata radicalmente riformata, come è noto, solo nel 2005, ad opera della c.d. legge ex Cirielli, durante la stagione politica delle leggi ad personam. Quella legge fu rinnegata dall’attuale viceministro degli esteri e deputato di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli, che ritirò la firma dal suo disegno di legge, che aveva originariamente un contenuto diverso (limitato all’inasprimento degli effetti della recidiva). La ‘ex Cirielli’, nel complesso, accorciò i termini di prescrizione del reato favorendone così l’incidenza nella prassi; un’incidenza notevole in un sistema afflitto da patologica lentezza dei processi. Processi sempre più lunghi e prescrizione più breve hanno portato a un incremento della prescrizione. La reazione della dottrina penalistica fu di veemente e unanime critica. Un illustre penalista come Giorgio Marinucci intitolò così un suo articolo sulla Rivista Italia di Diritto e Procedura Penale[1]: “La prescrizione riformata. Ovvero, dell’abolizione del diritto penale” e parlò, numeri alla mano, della prescrizione come di “un cancro che si diffonde anno dopo anno nel corpo del sistema penale italiano”. In quegli anni la prescrizione era additata come ‘un male’, un fattore di fallimento della funzione del processo e di possibile impunità. Oggi, per il mainstream politico ‘garantista’, la ‘prescrizione sostanziale’ è invece presentata come ‘un bene’, da ripristinare nei giudizi di impugnazione. Su questo radicale mutamento culturale ci sembra che una riflessione sia opportuna se non necessaria.

In realtà, a nostro avviso, la prescrizione ha continuato a rappresentare ‘un male’, ancor più doloroso, per l’efficienza del sistema e la domanda sociale di giustizia, quando interviene nelle fasi avanzate del processo; soprattutto in appello. È questo, notoriamente, il collo di bottiglia del processo penale italiano, dove i fascicoli usciti dalle procure, dopo avere attraversato il primo grado, si arenano mediamente per lungo tempo, favorendo così la prescrizione, il cui decorso inizia da molto lontano. Se nel 2007 le declaratorie di prescrizione in appello erano 9.824 (ossia il 13% del totale delle definizioni in appello), nel 2018 sono arrivate a 29.158 (pari al 26% del totale dei definiti); per salire nel 2022 a 32.992: la prescrizione ha dunque riguardato il 27% dei procedimenti in appello, cioè oltre un quarto[2]. In alcuni distretti, come a Napoli, oltre la metà dei procedimenti in appello si è definito con la prescrizione del reato.

Ecco perché, nel 2017, la riforma Orlando si fece carico del problema cercando di ridurre l’impatto della prescrizione nei giudizi di impugnazione (il problema era ed è però avvertito solo in appello, perché notoriamente è assai ridotta l’incidenza percentuale della prescrizione sui procedimenti definiti dalla Cassazione: nel 2022 è stata pari all’1,6%)[3]. La soluzione tecnica della riforma Orlando consisteva in una sospensione automatica della prescrizione, dopo la condanna in primo o in secondo grado, per diciotto mesi; si cercava così di dare più tempo per decidere, evitando la prescrizione, che soprattutto egli stadi avanzati del procedimento comporta una corsa del giudice contro il tempo. Nemmeno il tempo di misurare gli effetti della riforma Orlando ed ecco che, solo due anni dopo, la riforma Bonafede abroga la riforma Orlando e blocca il corso della prescrizione dopo il primo grado, rendendo imprescrittibili tutti i reati in appello e in cassazione, sia in caso di condanna, sia in caso di assoluzione. Con la riforma Bonafede fu compiuto, sul piano del metodo, un grave errore che ora si sta ripetendo un’altra volta: abrogare una riforma prima di averne compiutamente misurato gli effetti. La reazione alla riforma Bonafede – entrata in vigore dal 1° gennaio 2020 – è stata corale nel paventare il rischio di processi all’infinito in appello e in cassazione, venuto meno l’impulso a correre contro il tempo per evitare la prescrizione. Ecco allora, e siamo arrivati al 2021, che la grande coalizione che sosteneva allora il Governo Draghi intervenne con la riforma Cartabia, correggendo la riforma Bonafede proprio nel suo punto nevralgico: l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione ha messo fine al rischio di processi all’infinito.

La saga della prescrizione, però, sta per vivere un nuovo capitolo: la riforma in gestazione ricade nello stesso errore che fu fatto uccidendo in culla la riforma Orlando e si propone, come abbiamo detto, di accantonare la riforma Cartabia tornando al passato, con passo da gambero. Dopo la riforma Bonafede – approvata, giova ricordarlo, con il voto favorevole della Lega e con l’astensione di Fratelli d’Italia[4]la prescrizione è diventata un vessillo politico identitario garantista, opposto a quello populista. Si è così fatto il grave errore di rendere instabile una disciplina che per funzione deve invece essere stabile, perché destinata ad operare per lunghi lassi di tempo. Instabilità significa incertezza, nel mondo del diritto, e significa anche perdite di tempo in un momento storico in cui l’esigenza non è più solo, come ai tempi di Orlando e di Bonafede, di ridurre l’incidenza della prescrizione a processo in corso: è quella, nuova e determinante, del raggiungimento degli obiettivi del PNRR, rispetto ai quali la riforma della prescrizione e dell’improcedibilità, è un tassello centrale. Parlare di prescrizione e di improcedibilità senza confrontarsi con i tempi del processo e con gli obiettivi del PNRR è un’irresponsabile mistificazione della realtà. Ma su questo torneremo oltre.

 

4. Seconda ‘verità nascosta’: è falso dire che la riforma della prescrizione/improcedibilità mette fine ai “processi all’infinito”. – Un virgolettato del Sottosegretario Delmastro riportato dal Dubbio[5] alcuni giorni fa suona così: “Con la prescrizione sostanziale mai più cittadini indagati e imputati a vita secondo la sgrammaticata parentesi bonafediana e contro ogni principio garantista”. Come i lettori di Sistema penale sanno bene – non anche, però, i cittadini, non giuristi, destinatari di slogan politici come questo e altri simili – la riforma garantista, che esclude il rischio di processi ‘a vita’ nei giudizi di impugnazione, è stata realizzata nella scorsa legislatura – con il voto favorevole anche di partiti dell’attuale maggioranza, quali la Lega e Forza Italia –, introducendo l’improcedibilità, che ora si archivia. La previsione di termini di durata massima dell’appello e della cassazione, superati i quali il processo finisce, è l’antitesi logica e fattuale del processo ‘a vita’. Per dovere di fact-checking non lo si può tacere.

 

5. Terza ‘verità nascosta’: l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità, che si propone di archiviare, ha rappresentato una vera e propria rivoluzione culturale nella disciplina del rapporto tra tempo e giustizia penale. Tutte le riforme precedenti si erano inserite nel solco tradizionale che affidava alla prescrizione la cura di istanze profondamente diverse: da un canto, la tutela del diritto all’oblio e, dall’altro, la garanzia del diritto alla ragionevole durata del procedimento. Il problema è che si tratta di entità temporali irriducibilmente diverse: da un lato, il tempo dell’inerzia e, dall’altro, il tempo dell’attività giudiziaria. Come si fa ad affidare a un unico metronomo un tempo vuoto e una durata? Non è possibile regolare quello strumento: e, infatti, non ci è riuscito alcun legislatore italiano.

Non a caso, nella maggior parte dei paesi occidentali, dopo che l’autorità giudiziaria ha avviato il procedimento penale, il legislatore individua un momento oltre il quale la prescrizione – intesa come estinzione del reato – non viene più in rilievo. Tanto che si può dire che la prescrizione del reato a processo penale in corso, ancor più in fase avanzata (nei giudizi di impugnazione) è una anomalia italiana. Una verità che non emerge mai nel dibattito pubblico.

Proprio muovendo da questa consapevolezza era dai primi anni Duemila che la dottrina ragionava su uno sdoppiamento tra prescrizione sostanziale e prescrizione processuale[6]; e la prospettiva dualistica aveva trovato traccia in diversi progetti di riforma elaborati da autorevoli commissioni di studio[7].

In fondo, neanche la Corte costituzionale – con la saga Taricco – ha richiesto che la misurazione della ragionevole durata venga affidata a un istituto di natura sostanziale: il Giudice delle leggi ha chiarito soltanto che la prescrizione, così come disciplinata, ha natura sostanziale[8].

Ebbene, la Commissione Lattanzi – almeno in una delle due soluzioni prospettate – aveva proposto di introdurre una novità rivoluzionaria, che potesse allineare l’ordinamento italiano ai modelli europei e a quello americano: affidare alla prescrizione la misura dell’inerzia e all’improcedibilità la misura della durata del processo[9]. Poi il compromesso tra le forze politiche ha spostato lo spartiacque tra i due istituti: non l’esercizio dell’azione penale, ma la pronuncia della sentenza di prime cure.

Ma la prospettiva sistematica non cambia; e soprattutto non si è smarrito il pregio fondamentale di questa soluzione binaria, ossia la chiarezza: il tempo che viene messo a disposizione per il giudizio di appello e di cassazione è sempre predeterminato e non dipende dai ritardi delle fasi precedenti. La prescrizione decorre da un tempo che può essere molto lontano dal giudizio (la data di commissione del reato) e il periodo già consumato dal primo grado dipende da fattori difficilmente ascrivibili a questo o quel soggetto; l’improcedibilità decorre dalla fine del primo grado e coincide con i termini di ragionevole durata dei giudizi di impugnazione previsti dalla legge: tre anni per l’appello e un anno e mezzo per la cassazione nel periodo transitorio. La prescrizione è un cerino che passa di mano: è colpa di tutti e di nessuno; l’improcedibilità è un cerino che brucia tutto e dall’inizio in mano al giudice dell’impugnazione. Questo finisce, da un lato, per rendere chiarissima la responsabilità di chi è chiamato ad amministrare il processo nei gradi di impugnazione e, dall’altro, per eliminare dalla faretra del difensore la freccia rappresentata dalla prospettiva della prescrizione in appello. Se le corti d’appello – come i dati confermano – si organizzano in modo da assicurare che l’improcedibilità in seconde cure rappresenti soltanto un’eventualità remota, viene meno un fortissimo incentivo ad impugnare per lucrare un proscioglimento per estinzione del reato. L’ulteriore effetto sistemico positivo è rappresentato dall’eliminazione di un concorrente pericoloso dei riti alternativi: ridurre il numero di “prescrizioni cattive” – ossia quelle che maturano durante il processo, e, soprattutto, nei giudizi di impugnazione – consente di aumentare la propensione all’accesso ai riti alternativi. È dimostrata infatti la correlazione inversa tra incidenza della prescrizione e percentuale di ricorso al patteggiamento[10].

 

6. Quarta ‘verità nascosta’: la controriforma sterilizza l’effetto nudge dell’improcedibilità e mette a serio rischio il PNRR. - In un fortunato libro pubblicato qualche anno fa, Richard Thaler, premio Nobel per l’economia, e Cass Sunstein, noto giurista di Harvard, hanno fornito una definizione illuminante di nudge: un pungolo, “una spinta gentile”, cioè un “qualsiasi aspetto dell’architettura delle scelte che altera il comportamento degli individui in maniera prevedibile, senza proibire alcuna opzione o modificare in misura significativa gli incentivi economici”. Ebbene, la profonda riforma della giustizia penale realizzata dal Governo Draghi tra il 2021 e 2023, sotto la guida della Ministra Marta Cartabia, ha fatto leva su diversi pungoli per conseguire un risultato fondamentale: quello di assicurare (finalmente) la ragionevole durata del procedimento penale. Una garanzia costituzionale prioritaria rispetto a tutte le altre: lo ha di recente ribadito la Consulta ricordando che, se il sistema giudiziario non è in grado di fornire «risposte di giustizia in tempi adeguati, [finisce] per pregiudicare la stessa effettività – per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l’intera collettività – di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa» (n. 74 del 2022).

Come è ben noto, l’obiettivo è stato concordato con la Commissione Europea e fissato nella riduzione della durata media del processo penale del 25% rispetto al 2019 entro il giugno 2026. Mancano ormai meno di tre anni e la Commissione ci osserva, con sguardo severo e vigile.

Tra i pungoli più significativi sui quali si è fatto leva va certamente annoverata l’improcedibilità per superamento dei termini del giudizio di appello e di cassazione: come si è rimarcato, l’istituto è destinato a funzionare se le corti d’appello si organizzano in modo da scongiurare l’improcedibilità.

Ebbene, la scommessa della terapia d’urto rappresentata dalla riforma Cartabia e dall’introduzione dell’improcedibilità – insieme all’investimento sull’Ufficio per il processo, alle modifiche in materia di procedibilità a querela e alle novità sul processo in assenza – ha sortito il risultato auspicato.

Lo testimoniano in maniera inequivocabile i dati del monitoraggio PNRR pubblicati nei giorni scorsi dal Ministero della Giustizia sulla durata del processo penale in appello. Dati pubblicati anche sulla nostra Rivista. In soli due anni, per evitare la tagliola dell’improcedibilità gli uffici giudiziari si sono rimboccati le maniche, hanno fatto un enorme lavoro di squadra riuscendo così ad abbattere vistosamente i tempi medi del secondo grado: a livello nazionale, nel primo semestre 2023, la riduzione è stata pari al 27%, cioè ha consentito allo stato e per il momento di raggiungere il target del PNRR, con punte del 57% a Napoli (dove la durata media del processo in appello è passata dall’inaccettabile dato di 5 anni e mezzo a 2 anni e tre mesi), del 54% a Caltanisetta, del 52% a Brescia, del 51% a Torino, del 43% a Bari e del 32% a Milano.

Un risultato che non ha precedenti nella storia italiana.

Dinnanzi a questi inequivocabili miglioramenti – certamente da mantenere e consolidare nel tempo – stupisce che la maggioranza di governo si appresti a varare l’ennesima riforma, inopinatamente volta ad abolire il formidabile pungolo dell’improcedibilità e a reintrodurre la prescrizione in appello e in cassazione. Una riforma che tradisce l’auspicio – avanzato pubblicamente dalla Presidente Meloni – a fare le riforme “per rendere efficiente il sistema”. Come spiegherà il Governo alla Commissione europea l’abbandono di un istituto innovativo che ha spinto gli uffici giudiziari a riorganizzare il proprio lavoro dando prova di ottimo funzionamento nel quadro del PNRR? Ragionevolezza e responsabilità suggerirebbero a nostro avviso di non mettere a rischio il PNRR e di rinviare a dopo il 2026, previo accurato monitoraggio, ogni eventuale proposito di riforma.

 

7. Quinta ‘verità nascosta’: la riforma Nordio-Delmastro vanificherà gli ultimi due anni di lavoro organizzativo dei magistrati di appello e di Cassazione, costringendo a riscrivere tutti i progetti organizzativi, con notevole perdita di tempo e aggravio di lavoro. – Da sempre i calendari delle udienze sono programmati tenendo conto dei termini di prescrizione del reato; è sempre la logica della corsa contro il tempo a governare quei calendari: ferme talune effettive corsie di emergenza (processi con detenuti e per reati da codice rosso, ossia gli unici davvero prioritari, tra quelli contemplati dall’art. 132-bis disp. att.), si celebrano prima i processi nei quali la prescrizione del reato è più prossima, proprio per evitare la prescrizione. Venuta meno la prescrizione in appello e in Cassazione, con la riforma Bonafede - sul punto confermata dalla riforma Cartabia -, il metronomo delle udienze nei giudizi di impugnazione, per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020 (ai quali soli si applicano le riforme Bonafede e Cartabia) è diventata l’improcedibilità. Per le impugnazioni proposte entro il 31 dicembre 2024 sono previsti termini di improcedibilità più lunghi: tre anni (anziché due anni) in appello, un anno e mezzo (anziché un anno), in cassazione. Cosa hanno fatto da due anni a questa parte i magistrati italiani? Hanno riorganizzato i ruoli d’udienza e il proprio lavoro, dopo riunioni su riunioni negli uffici di presidenza e nelle sezioni, per riuscire a celebrare i processi di appello e di cassazione entro i termini di improcedibilità dell’azione. Nel fare ciò hanno tra l’altro attuato una disposizione di legge – l’art. 165 ter disp. att. c.p.p. – che affida ai presidenti delle corti, di cassazione e di appello – di adottare “i provvedimenti organizzativi necessari per attuare il costante monitoraggio dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione”. Perché mai abrogare ora questa disposizione, che ha prodotto efficienza e concorre ad attuare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, per ripristinare la prescrizione, che quando si determina a processo in corso è segno di inefficienza? E perché vanificare il lavoro di magistrati, cancellieri e addetti all’ufficio per il processo, che dovranno rifare progetti organizzativi e calendari, dopo avere ricalcolato i termini di prescrizione risolvendo complessi problemi di diritto intertemporale? Come giustificare un simile spreco di tempo e di denaro, investito inutilmente sull’attività degli addetti all’ufficio per il processo, con fondi europei?

Solo a Venezia, a quanto ci risulta, i procedimenti pendenti in appello per i quali andrà ricalcolato il termine di prescrizione sono 3.500.

Per toccare con mano quel che diciamo – e che è notissimo ai nostri lettori magistrati – leggiamo insieme quel che ad esempio si legge a pagina 41 della Relazione del Presidente della Corte d’Appello di Napoli in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023: “l’introduzione dell’improcedibilità in appello…ha determinato…la revisione del sistema di priorità nel programma di gestione…nel tentativo di tenere insieme la necessità di limitare i casi di prescrizione dei reati commessi prima dell’ 01.01.2020 e di improcedibilità delle azioni penali promosse in relazione ai reati commessi da tale ultima data in avanti, con l’obbligo di trattare i processi previsti quali prioritari dalla legge e di osservare gli obiettivi di smaltimento recati dal PNRR…”. Non basta? Leggiamo insieme a pagina 82 di quella Relazione, analoga a quelle delle altre corti d’appello italiane: “la promulgazione dell’art. 344 bis cpp e il sopravvenire dell’obbligo di perseguire gli obiettivi del PNRR hanno determinato, sullo scorcio del 2021, la necessità di rivedere i criteri di priorità, ampliandoli ai processi soggetti al nuovo art. 344 bis c.p.p.…”. Per non dire poi che, come si legge nella stessa Relazione, la prospettiva dell’improcedibilità – cioè di tempi certi per l’appello – ha già comportato a Napoli e in altri distratti una riduzione dei tempi di transizione dei fascicoli dal tribunale alla Corte così da ridurre il rischio di improcedibilità”: tempi morti che possono incidere notevolmente sulla durata del processo. Questi e altri interventi organizzativi, già realizzati e in corso, e che sono costati ore e ore di lavoro e di risorse pubbliche, hanno contributo a raggiungere lo straordinario risultato di cui si è detto. Anziché complimentarsi con la magistratura, il Parlamento, con l’avallo del Governo, si accinge a maggioranza a vanificarne il lavoro, cambiando ancora una volta le regole, in corso di PNRR. Dire che ciò è grave sarebbe poco.

 

8. Sesta ‘verità nascosta’: la soluzione della sospensione condizionata della prescrizione non funge da pungolo. – Si potrebbe essere indotti a credere che la “sospensione condizionata” contenuta nella proposta al vaglio del Parlamento possa parimenti incentivare condotte virtuose: la corte d’appello sa che, se non arriverà a definire il processo entro due anni, il tempo di sospensione si computerà ai fini della determinazione del periodo di prescrizione (in forza del nuovo art. 159-bis, comma 4, c.p.). Magari si potrà prospettare questa versione alla Commissione europea che, come detto, vigila in modo attento sulle riforme che sono state fatte e sulle ragioni per le quali si interviene così presto su un’innovazione importante quale l’improcedibilità e a fronte di miglioramenti significativi come quelli riportati in questo articolo.

La verità, a nostro avviso, è però che il meccanismo proposto dalla Camera non è neanche lontanamente paragonabile – quanto a capacità incentivante di condotte virtuose – al pungolo dell’improcedibilità.

Per un verso, esso non stimola a far presto per tutti i reati per i quali è previsto un termine lungo di prescrizione: in tal caso, non vi è all’evidenza alcuna ragione di correre. Basti un esempio: si pensi al reato di sfregio permanente del viso, il cui termine di prescrizione viene portato dalla proposta in esame a 21 anni; dopo una condanna in primo grado, se quando inizia l’appello mancano ancora 15 anni al maturare della prescrizione una sospensione di due anni della prescrizione non avrà alcun effetto di accelerazione del processo. Anzi lo rallenterà, mettendolo in coda ad altri, con buona pace del diritto alla ragionevole durata del processo di imputati e vittime. Ma ciò accadrà anche in tutti i casi nei quali – pur a fronte di termini più brevi – si sia “bruciato” poco tempo per celebrare il primo grado. Pure in tale ipotesi il giudice di seconde cure potrà prendersela comoda (cosa che l’improcedibilità non può invece fare). Non a caso, ben consapevole di questo rischio e dei limiti intrinseci del meccanismo, evidenziati nella sua Relazione finale, la Commissione Lattanzi aveva ritenuto opportuno accompagnare l’adozione della sospensione condizionata “con l’introduzione dei rimedi compensatori e risarcitori per la violazione del diritto a un processo di ragionevole durata”[11].

Per altro verso, va rimarcato che il dispositivo della “sospensione condizionata” contemplato dalla soluzione A contenuta nella Relazione della Commissione Lattanzi è stato ibridato dalla Camera con un nuovo congegno di recupero (parzialmente) tratto dalla riforma Orlando. Come ricordato, si prevede che i periodi di sospensione della prescrizione vengano computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere se nel grado di giudizio in cui ha operato la sospensione (qui si innova la Orlando) o in quello successivo, l’imputato è prosciolto o la sentenza di condanna è annullata nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero sono accertate le nullità indicate negli articoli 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale, anche ai sensi dell’articolo 623, comma 1, lettere b) e b-bis). Potrà dunque accadere che il giudice di appello e la stessa Corte di cassazione che hanno concluso il processo entro il tempo previsto vedano vanificato il loro sforzo laddove, in sede di annullamento con rinvio, la Cassazione si accorga che il tempo recuperato, aggiunto a quello consumato per il primo grado, determinano il maturare della prescrizione.

Come si vede, la complessità e farraginosità del meccanismo di recupero – che assomma ipotesi tratte da modelli profondamente diversi – e la stessa natura della prescrizione, che favorisce l’impermeabilità tra fasi e gradi confondendo le responsabilità, finiscono per attenuare considerevolmente l’efficienza del meccanismo di sospensione condizionata rispetto all’accelerazione dei processi di seconde cure (ma anche di legittimità).

 

9. Settima ‘verità nascosta’: l’improcedibilità va eliminata perché costituisce una spinta a restringere l’ambito delle impugnazioni e a concepirle come strumenti di controllo. Il ritorno, prospettato dal disegno di legge n. 893 “a quella che era la vecchia istituzione della prescrizione”[12] viene spesso presentato come una manovra finalizzata ad aumentare le garanzie. Chiarito che non favorirà in alcun modo la riduzione dei tempi del giudizio di appello – la garanzia della ragionevole durata del processo, che si allungherà, se non altro, in corrispondenza di plurime sospensioni del corso della prescrizione – merita domandarsi se non vi sia al fondo qualche altro argomento: un “non detto” che si preferisce non esplicitare. Non è un mistero che l’improcedibilità è stata vissuta sin dal principio con netto sfavore dall’Unione Camere Penali[13]: sono molteplici le ragioni di questa ostilità. Anzitutto, non si può negare che la limitazione dell’istituto dell’improcedibilità ai gradi di impugnazione si può giustificare – sul piano sistematico – solo enfatizzando la natura di controllo del processo di appello, che appare coerente con un modello tendenzialmente accusatorio e che viene coerentemente perseguita da diverse innovazioni introdotte dal d.lgs. 150/2022; in secondo luogo, la tagliola dell’improcedibilità potrebbe spingere i giudici di seconde cure e la stessa Cassazione a interpretare in modo più rigoroso di quanto non sia avvenuto sin qui il canone di specificità dei motivi di appello, al fine di ridurre le sopravvenienze. Infine, l’istituto elimina un’arma difensiva oggi spendibile in un numero significativo di casi.

 

10. Ottava ‘verità nascosta’: la controriforma creerà notevoli problemi di diritto intertemporale e incertezze, con dispendio di tempo. – Il continuo susseguirsi di riforme della prescrizione – sarebbero cinque in meno di vent’anni – fa sì che individuare il termine di prescrizione e la legge applicabile in relazione a questo o quel procedimento e reato sarà un rompicapo. Ad alcuni reati si applicherà il regime della ‘ex Cirielli’, ad altri quello della legge Orlando, ad altri quelli della legge Bonafede e Cartabia. Il ripristino della prescrizione nei giudizi di impugnazione è una lex mitior retroattiva ex art. 2, co. 4 c.p. Dovrà quindi essere calcolato per la prima volta, nelle corti d’appello e in Corte di Cassazione, il termine di prescrizione dei reati commessi dopo il 1° gennaio 2020 (di quei reati, cioè, che la riforma Bonafede aveva reso imprescrittibili nei giudizi di impugnazione). Quanti siano non è dato saperlo e, quel che è grave, neanche il Parlamento lo sa. Migliaia certamente. Ma non basta. Per i reati commessi tra il 4 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, che ricadono nel regime Orlando, si tratterà di stabilire se legge più favorevole è la Orlando oppure la nuova ora in corso di gestazione. Per certi versi la legge Orlando è più favorevole (il termine di sospensione della prescrizione in appello è di sei mesi più breve); per altri versi è più favorevole la futura nuova legge (che recupera il termine di prescrizione se la decisione non è assunta entro il termine di sospensione). Fermo il divieto di creare una terza legge, che combini gli aspetti più favorevoli delle due, si tratterà di capire in concreto, caso per caso, quale sia il regime della prescrizione che in concreto risulti più favorevole. Un bel lavoro in più da svolgere e tanto tempo sottratto al raggiungimento/mantenimento degli obiettivi del PNRR.

 

11. Nona ‘verità nascosta’: nel periodo transitorio c’è il rischio, per i fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020, di una sovrapposizione tra prescrizione e improcedibilità. – Supponiamo che, per un reato commesso dopo il 1° gennaio 2020, il procedimento giunga in appello, dopo una condanna in primo grado, quando mancano 6 anni alla prescrizione del reato. Ad oggi, l’imputato sa che decorsi tre anni (due dopo il regime transitorio), l’azione diventerà improcedibile e la condanna in primo grado sarà tamquam non esset. Una volta entrata in vigore la riforma all’esame della Camera, l’imputato dovrà attendere sei anni per la prescrizione del reato, che interverrà solo se, entro quel più lungo termine, non interverrà una sentenza definitiva. Per i reati con termine di prescrizione più lungo di tre (o due anni), allorché il procedimento approda in appello, la riforma in gestazione non è più favorevole rispetto all’improcedibilità. Risulta più favorevole la legge che ripristina la prescrizione nei giudizi di impugnazione ma, se il termine di prescrizione del reato è superiore in concreto a quello di improcedibilità dell’azione penale, la legge sostanziale sopravvenuta è di fatto sfavorevole.

È verosimile, allora, che le difese, decorso il termine di improcedibilità, invocheranno la disciplina dell’art. 2, co. 4, c.p. sostenendo la tesi della natura sostanziale dell’improcedibilità. È vero che, ad oggi, la giurisprudenza ha escluso l’applicazione dell’art. 344 bis c.p.p. ai fatti commessi prima del 1° gennaio 2020 anche in ragione dell’affermata natura processuale della disposizione (cfr., tra le altre, Cass.sez. VII, 23.11.2022, n. 49177: “la consolidata giurisprudenza di legittimità…ritiene l’art. 344-bis c.p.p. non suscettibile di applicazione retroattiva, in ragione della natura processuale dell'istituto dell'improcedibilità: cfr. Sez. V, n. 334 del 05.11.2021, Pizzorulli, Rv. 282419; Sez. VII, n. 43883 del 19.11.2021, Cusmà, Rv. 283043”). È però anche vero che la questione, se proposta in relazione a fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020, attratti per volontà legislativa nella disciplina dell’improcedibilità, potrebbe presentarsi in una diversa luce ed essere riconsiderata. Senza rinnegare la natura processuale dell’improcedibilità, ad esempio, si potrebbe in ipotesi sostenere che decisivo è il fatto che l’appello (o il ricorso per cassazione) sia stato presentato nel vigore della disciplina sull’improcedibilità. Se una simile tesi difensiva dovesse imporsi, nel periodo transitorio si applicherebbero di fatto, congiuntamente, i regimi della prescrizione e della improcedibilità, proprio come più o meno esplicitamente prospettato da alcuni sostenitori della riforma[14]. L’assenza di una disciplina transitoria nel disegno di legge, d’altra parte, lascia ancor più spazio per queste e analoghe questioni di diritto intertemporale.   

 

12. Decima ‘verità nascosta’: la reintroduzione della prescrizione in appello manda al macero circa 30.000 procedimenti l’anno e fa a pugni con il panpenalismo punitivista di chi, contraddicendosi, agita il penale come solo una tigre di carta. – Populismo giustizialista e garantismo – le due anime contrapposte che convivono nella maggioranza – producono con la riforma all’esame della Camera un autentico cortocircuito. La maggioranza con una mano – quella panpenalista e punitivista – introduce nuovi reati, come quelli sui rave party, sugli scafisti o sull’uccisione dell’orso bruno marsicano, ovvero inasprisce la disciplina di reati già previsti dalla legge (come nel caso della surrogazione di maternità, trasformata in reato universale, e della cessione di stupefacenti quando il fatto è di lieve entità art. 73, co. 5 t.u. stup.); dall’altro lato, reintroduce nei giudizi di impugnazione la prescrizione del reato che, solo nel 2022, ha mandato in fumo oltre 30.000 processi in appello.

La minaccia della pena, così facendo, ha il volto di una tigre di carta: si minacciano pene destinate in molti casi a non essere applicate ed eseguite per la prescrizione del reato. Lo stesso non può dirsi invece rispetto all’improcedibilità: le corti d’appello, in particolare, si sono organizzate – lo dimostrano i dati ufficiali – per chiudere l’appello entro il termine di improcedibilità. La prescrizione sostanziale, insomma, viene riproposta per garantire l’impunità e l’inefficienza del sistema. Proporre di aumentare il termine di prescrizione solo per alcuni tra i reati del codice rosso, come fa la proposta di legge, tradisce la consapevolezza di destinare a prescrizione molti reati e di cercare di salvare almeno quelli, per paura del conseguente scandalo che ne deriverebbe. È l’ennesima conferma, a noi pare, di quanto sia improvvida e dannosa la riforma all’esame della Camera.  

 

 

 

 

[1] G. Marinucci, La prescrizione riformata ovvero dell’abolizione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 976 s,

[2] Fonte: Ministero della Giustizia, DgStat

[3] Fonte: Annuario statistico della Cassazione penale, 2022.

[5] E. Novi, “Prescrizone, sì ai diritti: il timbro di Delmastro”, Il Dubbio, 1° novembre 2023.

[6] In merito, tra gli altri, A. De Caro, La riforma della prescrizione e il complesso rapporto tra tempo, vicende della punizione e processo: le eccentriche soluzioni legislative e le nuove proiezioni processuali sulla prescrizione dell’azione e l’estinzione del processo, in Arch. pen. web, 2020, n. 1; G. Giostra, La prescrizione: aspetti processuali, in Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p. 81; O. Mazza, La riforma dei due orologi: la prescrizione fra miti populisti e realtà costituzionale, in Sist. pen., 21 gennaio 2020; G. Riccio, La crisi della giustizia tra pressioni comunitarie e recessioni interne, in Arch. pen. web, 2019, n. 3, p. 15. Per una recente ricostruzione sul punto, M.L. Di Bitonto, Osservazioni “a caldo” sull’improcedibilità dell’azione disciplinata dall’art. 344-bis c.p.p., in ilPenalista, 4 ottobre 2021.

[7] Il rinvio va ai lavori della Commissione Riccio e della Commissione Pisapia. Per un quadro delle diverse opinioni dottrinali in proposito, cfr. C. Marinelli, Ragionevole durata e prescrizione del processo penale, Torino, 2016, pp. 393 ss.

[8] Il riferimento è a Corte cost., 18 novembre 2020, n. 278; Corte cost., 10 aprile 2018, n. 115.

[9] Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. a.c. 2435, (24 maggio 2021), p. 54 ss.

[10] Sia consentito rinviare a Il rinvio va a Z. Fišer – M. Gialuz, La giustizia negoziata in Europa: uno sguardo comparato tra Slovenia e Italia, in Dir. pen. proc., 2012, p. 1157.

[11] Cfr. Relazione, p. 54.

[12] Così, il Ministro Nordio: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/10/28/giustizia-nordio-trovato-laccordo-sulla-prescrizione-_f6b071b3-a0d2-4d94-adf6-c5e4d7eedb49.html.

[13] P. Rubini, Le riforme che vogliamo. Prescrizione, https://dirittodidifesa.eu/ora-le-riforme-liberali-caiazza-rosso-rubini-putzolu-e-ripamonti/; L Milella, Riforma Cartabia, Caiazza: “Un plauso alle misure alternative alla prigione”, https://www.repubblica.it/politica/2022/12/31/news/caiazza_misure_alternative_prigione-381398073/.

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[14] Si ricorderà, in proposito, che il d.d.l. C. 745 presentato il 29 dicembre 2022 dall’on. Costa (relatore del disegno di legge in corso di approvazione alla Camera) prevedeva proprio la concorrenza di prescrizione e improcedibilità.