Corte cost., sent. 24 aprile 2020, n. 74, Pres. Cartabia, Red. Viganò
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Per leggere l'ordinanza di rimessione (Magistrato di sorveglianza di Avellino, 12 marzo 2019, R.O. 314/2019, in G.U. n. 38/2019), clicca qui.
Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una rilevante sentenza della Corte costituzionale nella materia dell’esecuzione penale, ed in particolare della procedura per l’applicazione del regime di semilibertà.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), nella parte appunto in cui non consentiva al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà anche nell’ipotesi cosiddetta di semilibertà “surrogatoria”: quella cioè che, per quanto disposto al terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50, viene applicata riguardo a pene inferiori ai quattro anni, quando non sia possibile disporre l’affidamento in prova al servizio sociale.
Per comprendere a fondo l’oggetto e la portata dell’addizione occorre riepilogare, con la massima possibile semplicità, il quadro normativo che regolava la materia fino ad oggi.
1. La normativa censurata.
È noto che i benefici penitenziari vanno disposti, quando ne ricorrono i presupposti sostanziali, dal tribunale di sorveglianza, il quale, come pure è noto, è un giudice collegale a composizione mista. I tempi della procedura possono però non essere brevi, e contrastare con l’urgenza che talvolta caratterizza la decisione, specialmente quando riguarda trattamenti penitenziari in atto.
Per questa ragione, a proposito dell’affidamento in prova da disporre in favore di condannati ristretti in carcere che ne facciano domanda, il legislatore ha predisposto una procedura urgente, che approda ad una decisione provvisoria di accoglimento, così da pervenire immediatamente alla scarcerazione dell’interessato (comma 4 dell’art. 47 ord. pen.). L’urgenza, sempre immanente ai casi nei quali si tratta di libertà della persona, può essere in effetti particolarmente serrata, come ad esempio quando l’interessato abbia conseguito una opportunità di lavoro che andrebbe persa in caso di prolungata sua indisponibilità.
Le condizioni per una sostituzione del giudice professionale monocratico al giudice collegiale a composizione mista sono comunque piuttosto stringenti. È necessario sussistano “concrete indicazioni” sia con riguardo alla ricorrenza dei presupposti applicativi della misura, sia con riguardo al grave pregiudizio che si determinerebbe in caso di ritardo del provvedimento. È necessario inoltre che non ricorra pericolo di fuga. A queste condizioni, il magistrato di sorveglianza può disporre l’applicazione del beneficio, ma solo in via “provvisoria”: infatti, entro sessanta giorni, il tribunale dovrà decidere in via definitiva sulla istanza di affidamento.
Ora, per effetto di una serie piuttosto disordinata di interventi legislativi, la procedura urgente è stata resa applicabile anche con riferimento alla semilibertà, ma solo in relazione ad una parte dei casi in cui la misura può essere disposta. E per comprendere le censure accolte dalla Corte è necessario ricapitolare quali siano le fattispecie di semilibertà regolate dall’ordinamento penitenziario, distinguendo poi tra quelle attivabili anche dal magistrato di sorveglianza in esito alla procedura d’urgenza e quelle che invece, fino ad oggi, restavano escluse dalla possibile anticipazione.
Una prima ipotesi di semilibertà riguarda pene detentive brevi ed ha lo scopo precipuo di evitare il cosiddetto assaggio di carcere alla persona condannata. È regolata dal comma 1 dell’art. 50 ord. pen., e concerne le pene dell’arresto o della reclusione non superiori a sei mesi, sempreché l’interessato non possa fruire dell’affidamento in prova.
Una seconda ipotesi concerne pene detentive di entità media o alta, in corso di esecuzione, tanto che è necessario siano state scontate almeno per la metà (o per due terzi, se riguardano alcuni dei reati elencati all’art. 4-bis ord. pen., o infine per almeno vent’anni, in caso di condanna all’ergastolo): in questi casi, quale che sia il residuo da scontare, la prima parte del comma 2 dell’art. 50 consente appunto di proseguire l’esecuzione in regime di semilibertà.
La terza ipotesi, definita “surrogatoria” perché la misura viene applicata in luogo dell’affidamento in prova, del quale mancano i presupposti sostanziali nel caso concreto, discende dall’ultimo dei tre periodi in cui è diviso il testo del citato comma 2 dell’art. 50 ord. pen. Proprio il connotato di alternativa all’affidamento implica che la semilibertà, ammessa anche prima che sia scontata la quota di pena appena indicata (ed anche a prescindere dall’iniziale carcerazione, dopo una riforma del 1998), debba comunque riguardare pene (anche residue) non superiori ai quattro anni (comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen.). Inoltre questa particolare forma del beneficio non opera quando la condanna riguardi uno dei reati elencati all’art. 4-bis ord. pen. Deve aggiungersi che il beneficio, in questa forma, non era originariamente compreso nel sistema dell’ordinamento penitenziario, essendo stato introdotto dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, allo scopo precipuo di coordinare semilibertà e affidamento in prova: in sostanza, al fine di consentire che il detenuto non ancora meritevole della misura extramuraria possa almeno giovarsi, appunto, del regime di semilibertà.
Ed eccoci allora alla procedura di applicazione. Nel 1998 (con l’art. 5, comma 1, lettera b della legge n. 165), in esito alla modifica del comma 6 dell’art. 50 ord. pen., è stata prevista l’applicazione provvisoria della semilibertà con riguardo a quella che sopra è stata definita la prima ipotesi, cioè riguardo alle pene brevi: il richiamo al comma 4 dell’art. 47 (quello che regola appunto la procedura urgente) è stato limitato infatti ai casi di cui al comma 1 dello stesso art. 50. Normalmente, difetta in casi del genere il cd. assaggio di carcere, data la possibilità di applicazione della sospensiva disciplinata all’art. 656 c.p.p. Non mancano per altro fattispecie concrete nelle quali l’esecuzione carceraria ha avuto inizio, e si comprende, a fronte di una pena di durata tanto esigua, la necessità di garantire una urgente scarcerazione dell’interessato meritevole della semilibertà.
Lo specifico rinvio al comma 1 dell’art. 50 implica che il richiamo alla procedura d’urgenza non operi con riguardo alle ulteriori ipotesi di semilibertà, a cominciare da quella “surrogatoria”. E proprio questo è il problema denunciato nell’incidente di costituzionalità. Già da tempo, in effetti, gli studiosi si interrogavano sulla ratio di una disciplina difforme per l’accesso urgente a due benefici alternativi tra loro, ma spesso valutati contestualmente, una volta maturata la condizione di non eccedenza della pena rispetto al comune limite dei quattro anni. Tanto più che, anche per la semilibertà, come per l’affidamento in prova, l’ordine di esecuzione può essere sospeso a norma dell’art. 656, comma 5, c.p.p., sebbene la norma si riferisca solo al comma 1 dell’art. 50 ord. pen. (in tal senso, e sulla base di argomenti che qui non mette contro richiamare, una stabile giurisprudenza della Cassazione, non immune da critiche dottrinali). Insomma, entrambe le misure possono essere disposte prima della carcerazione, e tuttavia, una volta avviata l’esecuzione intramuraria, solo una tra esse (l’affidamento) può essere accordata in via di urgenza.
2. I parametri costituzionali e le censure.
Nel quadro che si è descritto, il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato questione di legittimità costituzionale riguardo all’art. 50, comma 6, ord. pen., nella parte in cui prevede che lo stesso magistrato di sorveglianza possa applicare in via provvisoria la semilibertà solo in caso di pena detentiva non superiore a sei mesi.
Una disciplina siffatta – si legge nell’ordinanza di rimessione – viola l’art. 3, primo comma, Cost., per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto non è ragionevole l’ammissione in via provvisoria alla semilibertà secondo un regime più restrittivo di quello valevole per la più ampia misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, che può essere provvisoriamente disposta dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 47, comma 4, ord. pen. L’eccezione si fonda essenzialmente sulla idea di una gradualità delle singole misure lungo il percorso della rieducazione: gradualità che troverebbe riscontro nella maggiore o minore capacità di contenimento propria dei diversi regimi alternativi, e dunque nella maggiore o minore affidabilità del soggetto che chiede di accedervi. In secondo luogo, sempre secondo il rimettente, la disciplina implica una ingiustificata disparità di trattamento tra condannati già detenuti e condannati ancora liberi, i quali possono giovarsi della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p., ed accedere al beneficio quando la pena stessa non sia superiore ai quattro anni, anche prima di averne espiata la metà.
Infine, sempre a parere del giudice a quo, la disciplina censurata contrasta con i commi primo e terzo dell’art. 27 Cost., che impongono la finalizzazione rieducativa della pena, anche attraverso la progressività del trattamento esecutivo. È imposta infatti al condannato, che pure abbia già dato prova della «volontà di recupero» ed abbia già scontato la metà della pena stessa, di attendere per l’accesso alla semilibertà i tempi occorrenti per la decisione del tribunale di sorveglianza, anche nei casi in cui gravi motivi imporrebbero un provvedimento immediato (è fatto il caso, cui sopra si accennava, di una opportunità di lavoro da cogliere immediatamente), e con conseguenze estese anche alla prospettiva della concessione dell’affidamento in prova.
3. La risposta della Corte.
Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della fondatezza della questione sollevata ex art. 3, primo comma, Cost., ed introduce di fatto, al di là del riferimento necessario (ma non immediatamente perscrutabile) alle norme coinvolte, l’applicabilità in via provvisoria della cosiddetta semilibertà surrogatoria: illegittimo il comma 6 dell’art. 50 della legge n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario) «nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ordin. penit., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50».
Si è visto poco sopra come il giudice rimettente abbia fatto leva su di una concezione “progressiva” del sistema delle misure alternative, la cui applicazione dovrebbe “seguire” le tappe del percorso di risocializzazione del condannato, ampliando man mano gli spazi di libertà. In questa prospettiva, si genera l’idea di un rapporto di continenza, in base al quale, quando c’è un determinato grado di affidamento nelle capacità di autoregolazione del condannato, tale da consentire l’applicazione di una misura corrispondente, dovrebbe essere a maggior ragione facilitato l’accesso ad una misura meno favorevole. Di qui l’assunto che sarebbe contraddittorio consentire per l’affidamento in prova, misura extramuraria che richiede un elevato grado di affidabilità del condannato, un accesso più facile di quello consentito per una misura, la semilibertà, che implica pur sempre il rientro dell’interessato nell’istituto di pena, e che dunque pare più compatibile con livelli di maturazione ancora non troppo avanzata del processo di risocializzazione.
È una logica cui la Corte non ha mai aderito (o almeno aderito incondizionatamente), quando è stata chiamata a comparare le misure in discussione. Si ricorda nella sentenza che già due volte, di fronte a censure che reclamavano l’allineamento dei requisiti di ammissibilità per l’accesso a semilibertà e affidamento, si è registrato un giudizio di infondatezza delle relative questioni. Il riferimento concerne la sentenza n. 338 del 2008 e la sentenza n. 100 del 1997 (relative alle differenti condizioni per l’ammissione ai benefici riguardo ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. pen.). Viene pure ricordato, naturalmente, che l’idea di un preciso rapporto di “gerarchia” tra le misure è stata respinta anche molto di recente, con la sentenza n. 50 del 2020, concernente una questione proposta in base alla comparazione tra affidamento in prova e detenzione domiciliare.
Ogni misura è caratterizzata da un proprio assetto tra prescrizioni restrittive e margini di libertà, assetto che si caratterizza oltretutto per una forte individualizzazione riguardo a ciascun caso concreto: le specifiche disposizioni impartite con un provvedimento di affidamento ai servizi sociali possono essere molto pressanti, e l’affidamento stesso può condurre ad una marcata interazione con soggetti professionalmente preposti alla gestione dei percorsi rieducativi, di talché non è detto che la misura presupponga in ogni caso un rischio di recidiva astrattamente più basso rispetto a quello compatibile con trattamenti più restrittivi. Per inciso, ma fondamentalmente, va ricordato che la Corte non discute mai della sistemazione preferibile di una materia attribuita alla piena discrezionalità politica del legislatore, ma solo dell’eventualità che una soluzione discutibile comporti addirittura una lesione manifesta dei principi di razionalità e ragionevolezza costruiti sull’art. 3 Cost.
Con l’odierna sentenza, la Corte non ha rivisto il proprio atteggiamento. Solo, si è introdotta una distinzione tra presupposti sostanziali per l’accesso alle misure – prospettiva cui si riferiscono i precedenti richiamati – e procedura per l’applicazione delle misure medesime.
Si osserva come, nella specie, vengano in considerazione misure i cui limiti formali di ammissibilità sono stati allineati (quattro anni di reclusione): «una volta che il legislatore abbia ritenuto, nella sua discrezionalità, di dover omologare semilibertà e affidamento in prova riguardo al quantum di pena che permette di fruire della misura – così come è avvenuto con l’introduzione della semilibertà “surrogatoria” – non v’è più alcuna ragione per lasciare (contraddittoriamente) disallineato in peius il beneficio “minore”, quanto alla possibilità di accesso anticipato e provvisorio al beneficio in presenza di un pericolo di grave pregiudizio, tramite provvedimento dell’organo monocratico».
La ratio fondamentale della decisione si rinviene nei passi ove la Corte evidenzia che non ha senso distinguere tra misure che possono porre un identico problema di urgenza con riguardo a fattori risocializzanti che sono essenziali nell’economia di entrambe, come una opportunità di lavoro che andrebbe persa nel caso di ritardo della “scarcerazione”.
Ed infatti la Corte ha espressamente accantonato le ulteriori censure formulate dal giudice rimettente in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’asserita disparità di trattamento fra i condannati detenuti e condannati che fruiscono della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p., nonché in riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, Cost.: questioni che restano “assorbite”. A conferma che, nella specie, è stato applicato un giudizio triadico di uguaglianza con riferimento alla disciplina di uno specifico assetto di procedura, il cui profilo difforme, nel giudizio della Corte, non trovava giustificazione nelle diverse caratteristiche sostanziali degli istituti posti a confronto.