* Contributo, rivisto e corretto, inviato in occasione della Audizione presso la Commissione giustizia della Camera di deputati tenutasi il 28 settembre 2021.
Per il testo dello schema di decreto legislativo, attualmente in esame presso le Commissioni parlamentari competenti, clicca qui.
1. Alcune notazioni preliminari. – È in via di approvazione lo schema di decreto legislativo teso ad armonizzare l’ordinamento nazionale alla Direttiva (UE) n. 2018/1673 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2018, con la quale le Istituzioni eurounitarie hanno intestato in capo agli Stati membri obblighi di penalizzazione di condotte, lato sensu, riciclatorie, stante la chiara dimensione transnazionale del fenomeno criminale che si intende contrastare.
Poiché, come noto, la normativa penale italiana già si contraddistingue per una pluralità di figure criminose che, pur disseminate in più disposizioni incriminatrici (artt. 648, 648 bis, 648 ter e 648 ter.1 c.p.), riescono cumulativamente ad esaurire la nozione eurounitaria di riciclaggio, l'intervento a cui è chiamato il Governo si presenta come meramente settoriale, essendo, in effetti, diretto a smussare gli spigoli della disciplina interna, là dove la stessa non collimi con quella comunitaria.
Ciò nondimeno, la preesistenza di fattispecie già in grado di soddisfare, in massima parte, le istanze del Legislatore europeo non deve indurre, a parere di chi scrive, quello domestico ad un atteggiamento di self restraint “legiferativo” quanto piuttosto a sfruttare appieno quella che qui si presenta come un'occasione propizia per tentare di dar, finalmente, vita a quel coordinamento tra reati stratificatisi nel tempo in assenza di un progetto di politica criminale unitario e di realizzare quel potenziamento nella lotta all’infiltrazione della criminalità organizzata (e del terrorismo) nell’economia legale, che rimane talvolta oscurata da una prassi applicativa inutilmente estensiva della tipicità delle norme in esame.
Come si può facilmente apprezzare leggendo le Carte sovranazionali in materia (Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato del 1990; Convenzione ONU contro il crimine organizzato transnazionale del 2000), la stessa Direttiva n. 2018/1673 (considerando 1) ed i lavori parlamentari che hanno anticipato la L. n. 186/2014 introduttiva del delitto di autoriciclaggio, l’attenzione degli organi legislativi rispetto al fenomeno riciclatorio è da sempre concentrata sulla necessità di preservare il mercato lecito dall'“inquinamento” proveniente dalla criminalità organizzata, pericoloso non soltanto per gli effetti distorsivi che da questo discendono sulla concorrenza ma anche per il rafforzamento che ne deriva al potere economico mafioso, che, a sua volta, si riflette sulla capacità del crimine organizzato di assumere il controllo del territorio.
Non sfugge, tuttavia, come nel passaggio dalla law in the books alla law in action, la ratio legis che continua ad essere a fondamento delle fattispecie riciclatorie ha, non di rado, ceduto il passo a contingenze criminali dal disvalore tenue ed “altro” rispetto all'ontologico legame che avvince i delitti in parola alla protezione di interessi economici. Con la conseguenza di imprimere una curva applicativa deviante rispetto a quella che dovrebbe essere tracciata e (per)seguìta in un contesto legislativo sovranazionale (si pensi, per esemplificare, all'oramai consolidato orientamento giurisprudenziale che sussume entro il disposto dell'art. 648 bis c.p. la condotta di sostituzione della targa di un autoveicolo, oggetto materiale di un furto; oppure quella di mero deposito dei proventi criminali su una carta prepagata, senza un accurato riscontro della sua reale attitudine decettiva: o ancora quella di trasferimento del denaro di porvenienza illecita da un conto corrente ad un altro).
Ecco la ragione per cui, una volta formulate talune osservazioni critiche sulle più significative determinazioni assunte dal Governo – siano esse necessitate dalla ottemperanza alla prescrizioni del Legislatore eurounitario, siano esse la risultante dell'esercizio di un potere discrezionale non del tutto compromesso – la nostra interlocuzione si porrà come primario obiettivo quello di suggerire l'adozione di taluni accorgimenti di agile recepimento, che siano, per un verso, funzionali a rinsaldare il collegamento tra i delitti di riciclaggio e la tutela di interessi a carattere economico e, per l'altro, a licenziare un testo scevro da antinomie, di sovente propagatrici di irragionevolezze e di incertezze applicative.
Per dare concreta attuazione allo scopo che ci si prefigge, prenderemo giocoforza le mosse da taluni rilievi su ciò che della Direttiva è stato recepito e su ciò su cui si è, viceversa, inteso soprassedere, per farsi, poi, promotori di poche, ma non insignificanti, "limature" del prodotto normativo attualmente confezionato dalla novella in discussione, nella ferma convinzione che non ci si possa sottrarre all'imperativo di apportare qualche "miglioria", anche se, per farlo, si debba andare "ultra petita" rispetto alle indicazioni promananti dalla fonte sovranazionale.
2. L'analisi delle principali novità e delle più significative "omissioni".
a) Sull'attuazione dell'art. 2, § 1 della Direttiva n. 2018/1673. – Nella necessità di conformarsi alla ampia nozione di “attività criminosa” accolta dalla Direttiva (art. 2, § 1)[1] si è proceduto all'estensione del novero dei reato-presupposto, ricomprendendovi anche le contravvenzioni, da un lato, ed i delitti colposi, dall'altro [art. 1, comma 1, lett. c), n. 3; art. 1, comma 1, lett. d), n. 1; art. 1, comma 1, lett. f), n.1]. Con il risultato che, oggi, le risorse illecite acquisite dal ricettatore (art. 648 c.p.) o dissimulate dal riciclatore (art. 648 bis c.p.) oppure reimpiegate in circuiti economici leciti (artt. 648 ter e 648 ter.1 c.p.) potranno essere generate anche da un illecito penale di modesta consistenza offensiva o non sorretto dalla volontà criminosa.
Al netto dell'adempimento di un obbligo, ancor più impellente stante la comunicazione dell'avvio, da parte della Commissione europea, di una procedura di infrazione ai sensi dell'art. 258 T.F.U.E., mi pare che tale interpolazione faccia giustizia di una duplice incongruenza letterale-sistematica che affligge le previsioni vigenti.
La prima: l'ambiguità del riferimento al “delitto” quale presupposto positivo per la configurazione delle relative fattispecie, quando, per indicare il presupposto negativo (e, cioè, la vera e propria clausola di riserva), si ricorre al lemma “reato”, innescandosi, così, un corto circuito interno che, da tempo, ha, da più parti, fatto dubitare su quale fosse il reale intendimento del legislatore. A maggior ragione se si volge lo sguardo a quelle disposizioni, sia pure contenute nella parte generale del codice (es: artt. 47 co. 1, 59 co. 4 c.p.), nelle quali “delitto” viene comunemente inteso nel senso atecnico e generico di “reato”. Ed ostando ad una selezione tra delitto e contravvenzione quali reati "principali" anche l'esigenza sistematica di tracciare una più nitida linea di demarcazione tra ricettazione ed incauto acquisto (art. 712 c.p.), che poggi, in via esclusiva, sull'elemento soggettivo (ovvero dolo – anche eventuale, come chiarito dalle Sezioni unite[2] – per l'art 648 c.p. e colpa per l'art. 712 c.p.), a prescindere, dunque, dalla natura delittuosa o contravvenzionale dell'illecito da cui la cosa proviene. In effetti, onde evitare il vuoto di tutela originato dall''inconfigurabilità della ricettazione di cose provento di contravvenzione, si è sin qui stati costretti a recuperarne la rilevanza penale rendendo l'incauto acquisto fattispecie composita sul versante psicologico, propriamente colposa rispetto alle cose provenienti da delitto e tanto dolosa che colposa rispetto a quelle provenienti da contravvenzione. Con l'ulteriore anomalia di sanzionare con le più che blande pene previste per le contravvenzioni[3] l'acquisto doloso di beni derivanti da contravvenzione se effettuato al fine di procurare un (ingiusto) profitto a sé o a terzi diversi dall'autore del reato presupposto. Perché, nel caso in cui sia quest'ultimo il soggetto in favore del quale colui che non abbia concorso nel reato principale si adoperi affinché gli venga assicurato il profitto, la contravvenzione si ritrae in favore dell'assai più grave delitto di favoreggiamento reale (art. 379 c.p.), senza che un così significativo divario sul piano sanzionatorio trovi una ragionevole giustificazione.
Ciò doverosamente precisato, se ci si cala dal piano astratto a quello della concretezza applicativa, ci si rende conto dei timidi riflessi che da tale, peraltro obbligata, modifica discenderanno nei termini, sopra descritti, del necessario ripristino di una coerenza sistematica tra ricettazione, incauto acquisto e favoreggiamento reale, potendo accedere alla innovata categoria di reati presupposto soltanto talune contravvenzioni e, segnatamente, quelle punite con l'arresto superiore nel massimo ad un anno o nel minimo a sei mesi[4]. Non senza nutrire anche un certo scetticismo circa l'effettiva rilevanza pratica in sé della novella, più verosimilmente destinata (almeno a giudicare dalle figure contravvenzionali codicistiche chiamate in causa) ad occupare le aule universitarie o convegnistiche di quelle giudiziarie.
La seconda: la già prevista punibilità della ricettazione (art. 648 c.p.) e dell'impiego di denaro di provenienza illecita (art. 648 ter c.p.) anche a fronte di delitti-presupposto colposi e la contraria, espressa, limitazione degli artt. 648 bis e 648 ter.1 c.p. ai soli delitti “non colposi". L'assimilazione tra la ricettazione e l'impiego o, se si preferisce, la divaricazione tra quest'ultimo ed il riciclaggio e l'autoriciclaggio aveva indotto la dottrina ad escludere che si trattasse di una scelta rispondente a individuati o individuabili obiettivi di politica criminale e, dunque, a bollarla, senza mezzi termini, come una delle numerose sviste di cui il legislatore ha dato prova negli anni e non soltanto nei più recenti.
Non ci si può, dunque, che compiacere della, ancorché non spontanea, riacquisita uniformità di trattamento tra le figure di reato che vengono qui in considerazione, sia pure assicurata attraverso una ulteriore proliferazione di fattispecie. Il problema, caso mai, potrà porsi sul già controverso (ed inclinato) piano dell'accertamento dell'elemento soggettivo, essendo innegabile come la consapevolezza della provenienza illecita dell'oggetto materiale sia ancora più difficilmente rintracciabile in contesti ai quali faccia difetto il «finalismo della volontà»[5].
All’ampliamento della platea dei reati-fonte segue, quale corollario, l'introduzione, in ciascuna delle fattispecie interessate, di una circostanza attenuante indipendente, che trova la sua ragion d'essere nel minor disvalore espresso dal reato-presupposto quando questo si sostanzi in una contravvenzione piuttosto che in un delitto, anche se colposo [art. 1, co.1, lett. c), n. 1; art. 1, co.1, lett. d), n. 2; art. 1, co.1, lett. e), n.1; art. 1, co.1, lett. f), n.2]. La condivisibile invariabilità del trattamento sanzionatorio anche quando il delitto principale sia colposo e non doloso non esclude, ovviamente, che il giudice si conformi al parametro commisurativo indicato dall’art. 133, n. 3), c.p.
b) Sul mancato recepimento dell'art. 3, § 2 della Direttiva n. 2018/1673. – Da salutare con favore anche la decisione di non procedere, nell'esercizio della propria discrezionalità domestica, alla criminalizzazione delle condotte riciclatorie nella variante colposa (art. 3, § 2)[6]. Il che equivale a dire che, una volta entrato in vigore il decreto legislativo, rimarrà immutata la pretesa ordinamentale della necessità, quanto al momento rappresentativo dell'elemento psicologico, che il prevenuto abbia coscienza della provenienza illecita dei beni riciclati.
Ebbene, la volontà legislativa di non inasprire, in parte qua, il regime penale, oltre a porsi in linea con gli arresti della Suprema Corte, che rintracciano nella componente dolosa (pur spingendosi sino alle soglie del dolo eventuale) un elemento ricorrente tra le fattispecie riciclatorie e financo dirimente rispetto ad altri illeciti penali contigui, si dimostra funzionale allo scopo di intercettare e reprimere quelle manifestazioni di riciclaggio che, in quanto dolose, esprimono un pericolo per l’oggettività giuridica concreto e, verosimilmente, non occasionale dal punto di vista criminologico.
Al contrario, l’estensione del divieto penale anche a contegni di lecito-vestizione di natura soltanto colposa avrebbe sortito come effetto quello di un rigore repressivo non giustificato da una più proficua realizzazione degli obiettivi di politica criminale: lo stesso giudizio di rimproverabilità dell’agente per non aver previsto ed evitato il fatto, sia pure prevedibile ed evitabile, è plasticamente emblematico di una tendenziale episodicità della condotta, che mal si staglia sul fenomeno del riciclaggio, come è evidente anche dal dibattito in ordine alla natura necessariamente o eventualmente abituale del delitto di impiego ed eventualmente permanente o a consumazione prolungata del delitto di cui all'art. 648 bis c.p.
Per non dire, poi, della duplicazione che ne sarebbe derivata, ove la tipizzazione si fosse estesa sino a ricomprendere anche condotte “statiche” quali l'acquisto o la ricezione, rispetto alla già evocata contravvenzione di cui all'art. 712 c.p.
c) Sulla scelta di non trasporre l'art. 6, § 1, lett. a) e b) della Direttiva n. 2018/1673. – Inevitabile appare, poi, la scelta di non riprodurre a livello nazionale, se non per colmare un vuoto di tutela presente all'interno del solo art. 648 c.p., la circostanza aggravante vincolata di cui all’art. 6, § 1, lett. b) della Direttiva, che prevede un irrigidimento sanzionatorio nel caso in cui il reato sia stato commesso nell’esercizio di un’attività professionale.
Con riferimento a tale ipotesi è, infatti, sufficiente rilevare come essa sia già espressamente contemplata dalle norme incriminatrici del riciclaggio, dell’impiego e dell’autoriciclaggio, di talché, come si accennava, per adeguarsi all’ordinamento sovranazionale, non v'era che da inserire la medesima previsione nell'ambito dell'unico delitto rispetto al quale essa risulta(va) estranea.
Più articolato si fa, invece, il ragionamento con riguardo alla mancata introduzione dell’aggravante tipizzata all'art 6, §1, lett. a) della Direttiva e finalizzata ad adeguare la risposta sanzionatoria alle ipotesi in cui il reato sia stato realizzato nell’ambito di un’organizzazione criminale, in linea con quanto stabilito dalla Decisione quadro 2008/841/GAI.
In proposito, il mancato recepimento della Direttiva trova causa – così si legge nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo che ci occupa – nel presidio già assicurato, nell'ordinamento penale nazionale, dai reati associativi di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., i quali, ben potendo concorrere con quelli a contenuto riciclatorio, assolverebbero alla proclamata (come essenziale) funzione di garantire un trattamento punitivo proporzionato alla gravità del riciclaggio e del reimpiego che si realizzino nel contesto di un gruppo criminale organizzato.
V'è, però, da segnalare come il tema dei rapporti intercorrenti tra delitti associativi e delitti di riciclaggio non si possa, in realtà, liquidare nei termini semplicistici con cui è stato affrontato, dovendosi il legislatore fattivamente confrontare con la clausola di riserva stabilita in favore dell’autore (o concorrente) del reato-presupposto e contenuta sia all’art. 648 bis c.p. che all’art. 648 ter c.p.
Un'analisi meno sommaria della questione impone, infatti, di distinguere a seconda che l'oggetto materiale della condotta di riciclaggio/reimpiego si identifichi con utilità economiche segnatamente riferibili ai singoli delitti-scopo o, piuttosto, con utilità genericamente riferibili alla associazione in quanto tale e, pertanto, qualificabili come provento dei delitti di cui agli artt. 416-416 bis c.p.
Se, infatti, si versa nella prima delle due ipotesi sopra richiamate, gli associati diversi dall’autore del reato-presupposto (e, cioè, dall'autore del delitto-scopo) ben potranno rispondere dei fatti di cui agli artt. 648 bis e ter c.p., non operando nei loro confronti la clausola di riserva, che postula, come si sa, la terzietà del riciclatore rispetto a colui al quale sia addebitabile l'ante-fatto già realizzatosi.
Non altrettanto può dirsi qualora le risorse di genesi criminale figurino come provento dell’associazione in sé e per sé considerata: in tal caso gli associati, giacché autori del reato-presupposto, non potranno essere ritenuti responsabili dei delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p., in quanto "fruitori" della clausola di riserva tradizionalmente conosciuta come privilegio dell'autoriciclaggio.
Il precipitato di questo ragionamento, autorevolmente sostenuto anche dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione[7], è sotto gli occhi di tutti: non vi può essere concorso tra gli artt. 416 o 416 bis c.p. e gli artt. 648 bis o 648 ter c.p., quando l’oggetto materiale del riciclaggio coincida con l’oggetto materiale pervenuto all’organizzazione criminale attraverso una o più condotte di cui può ritenersi responsabile ciascuno degli associati e, quindi, in ultima analisi, l’associazione nel suo complesso.
Non è, peraltro, affatto scontato che questo deficit sanzionatorio possa essere recuperato attraverso la "nuova" fattispecie dell'autoriciclaggio.
E ciò almeno per un duplice ordine di ragioni.
Anzitutto, perché la condotta autoriciclatoria presenta tratti di originalità che non la rendono perfettamente sovrapponibile al riciclaggio o al reimpiego: basti pensare a quella sincretistica tripartizione dei predicati verbali che contraddistingue il primo comma (impiegare, sostituire, convertire) e alla latitudine delle macroaree verso cui gli stessi debbono indirizzarsi (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative). Non è detto, dunque, che ciò che non può essere punito ex artt. 648 bis e 648 ter c.p. confluisca automaticamente nell’art. 648 ter.1 c.p..
In secondo luogo, perché la tipicità dell’autoriciclaggio rischia di interferire, confliggendo, con la c.d. aggravante economica dell’art. 416 bis c.p. (art. 416 bis, comma 6, c.p.), che già prevede un aumento della pena da un terzo alla metà quando “le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti”, e che è destinata a prevalere sulla fattispecie autonoma in virtù dell’art. 84, comma 1, c.p..
Tratteggiare la problematicità del tema, tutt'altro che di agevole soluzione, non equivale affatto, sia chiaro, a farsi paladini dell'esigenza di infarcire l’arsenale penalistico antiriciclaggio, più che saturo, di un ingrediente ulteriore. Siamo, in effetti, dell'idea che si debba invertire la rotta e procedere in senso esattamente contrario, perché si può riuscire a "sbloccare" le fattispecie riciclatorie piegandole alle finalità che sono chiamate a perseguire soltanto attraverso un'opera di alleggerimento e di snellimento della loro attuale complessità e farraginosità.
d) Sulla non necessità di intervenire nonostante il dictum dell'art. 3, § 5 della Direttiva n. 2018/1673. – L’ultimo paragrafo dell’art. 3 della Direttiva impone di comprendere tra i soggetti attivi delle condotte riciclatorie tipizzate nei commi precedenti (in sintesi: conversione, trasferimento, occultamento e dissimulazione) anche l’autore del reato-presupposto, con la sola eccezione dei comportamenti marcatamente “statici” declinati all’art. 3, § 1, lett. c) (acquisto, detenzione, utilizzazione). Si ordina, cioè, a quanti tra gli Stati membri lo avessero ancora conservato nei ranghi del proprio ordinamento, il definitivo abbandono del c.d. privilegio dell’autoriciclaggio, in forza del quale l’autore del primo illecito non potrebbe essere chiamato a rispondere della successiva attività di lecito-vestizione per ragioni di conformità al principio del ne bis in idem sostanziale.
Anche rispetto a tale sollecitazione il legislatore italiano ha praticato la strada dell’inerzia, eccependo a motivo della propria scelta il fatto che il nostro codice penale sia già provvisto di una norma incriminatrice entro la quale sussumere i fatti di autoriciclaggio e che la stessa, in ragione della interpretazione estensiva patrocinata dalla giurisprudenza di legittimità, sarebbe predisposta a coprire l’intera area perimetrata dal Legislatore comunitario. Nello specifico, la relazione illustrativa, al punto 8), afferma a chiare lettere che la nozione ampia di “attività economiche e finanziarie” (art. 648 ter.1, co. 1 c.p.), stabilmente accolta dalla Corte di Cassazione, non renderebbe necessario alcun intervento di adeguamento, perché già di per sé idonea a trascinare nell’ambito del penalmente rilevante anche il mero «ulteriore trasferimento del bene di provenienza illecita», id est la condotta puramente riciclatoria, svincolata da una direzione segnatamente economica.
Valgano, sul punto, due telegrafiche osservazioni.
È fin troppo evidente come, essendosi l'Italia già da tempo affrancata da un limite alla punibilità che si è progressivamente venuto sgretolando su impulso della comunità internazionale e, in modo ancor più stringente, di quella eurounitaria[8], fosse un percorso parimenti obbligato, ancorché intrapreso nella direzione opposta, quello di non procedere ad alcun adeguamento della normativa nazionale.
Destano, tuttavia, perplessità sia il metodo che il merito delle valutazioni che hanno condotto a tale, senz'altro condivisibile, risultato.
Quanto al metodo, non convince affatto una presa di posizione, per quanto di self restraint, che faccia leva su orientamenti giurisprudenziali, giacché fisiologicamente afflitti da precarietà e da instabilità, a maggior ragione se riferiti ad una legge di ancora relativamente recente introduzione.
Quanto al merito, non è neppure del tutto corrispondente al vero che la Suprema Corte riconosca la sussistenza del delitto di autoriciclaggio al cospetto di meri trasferimenti di denaro. Uno sguardo più attento al formante giurisprudenziale avrebbe consentito al legislatore di prendere coscienza del fatto che l'esegesi dell’art. 648 ter.1 c.p. si presenta assai più incerta ed articolata rispetto a quanto emerge dalla relazione illustrativa: a seconda del peso specifico che si assegna al verbo “impiegare” e alle macroaree di destinazione (“attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”), ci si può persuadere della sufficienza disvaloriale del comportamento decettivo oppure, al contrario, convincersi della necessità di una netta curvatura economica, imponendo, se non un contesto imprenditoriale entro il quale dispiegare la condotta, perlomeno la direzione finalisticamente produttiva della stessa[9].
Di nuovo, non si vuole certo sostenere che si debbano ampliare le maglie dell’autoriciclaggio per uniformarsi ai dettami europei. Al contrario, andrebbe professato il rigore nella selezione del comportamento tipico allo scopo di intercettare le manifestazioni più acute di infiltrazione criminale nell’economia sana, senza adagiarsi, in una logica inopinatamente ed infruttuosamente repressiva, sulla pura e semplice attività dissimulatoria.
3. Una triplice, minimale, proposta nel segno di una maggiore efficienza del sistema penale antiriciclaggio. – Ci si rende conto del fatto che l'urgenza di dare attuazione ad una Direttiva europea nella pendenza di una procedura di infrazione non sia il contesto più adatto per un ripensamento di tipo strutturale del sistema penale antiriciclaggio, che si sostanzi in una riformulazione delle disposizioni attualmente in essere. Nondimeno, le pressanti sollecitazioni provenienti dall'Europa – come si anticipava – rappresentano una straordinaria opportunità per inserire qualche ritocco, lieve ma essenziale, in un percorso legislativo, la cui direttrice deve essere quella della emancipazione delle fattispecie riciclatorie dai reati contro il patrimonio e dell'allineamento all’obiettivo di tutela del bene giuridico dell’ordine economico.
a) La soppressione della seconda clausola di riserva contenuta all'art. 648 ter c.p. – Il delitto di reimpiego, nella intentio legis che ne ha giustificato l’introduzione, avrebbe dovuto insinuarsi nello spazio occupato dalla fase ultimativa della trafila riciclatoria, che di regola segue alla ripulitura del denaro “sporco” tipica del riciclaggio e che coincide, per l'appunto, con il reinvestimento dei proventi illeciti in attività economiche e finanziarie.
Nell'analisi di impatto della regolamentazione (A.I.R.), che compare quale allegato 2 alla direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 16 febbraio 2018, vengono riportati i dati relativi ai procedimenti iscritti e definiti nei Tribunali italiani, suddivisi tra sezione GIP/GUP e Dibattimento, tra gli anni 2016-2019. Nei quattro anni di riferimento sono giunti a definizione, previo espletamento dell'istruttoria dibattimentale, ben 79.766 procedimenti per ricettazione; 2768 per riciclaggio e l'irrisorio numero di 149 per il delitto di impiego; indicazione, quest'ultima, che fotografa, meglio di ogni altra considerazione, le difficoltà incontrate dall'art. 648 ter c.p. nel conquistarsi una propria sfera di applicabilità, stretto com'è nella morsa della ricettazione, da un lato, e del riciclaggio, dall'altro.
In effetti, in base alla duplice clausola di riserva con la quale la norma esordisce, soggetto attivo del delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita non può essere né chi abbia concorso nel reato principale (a fortiori: l'autore) né chi sia punibile come ricettatore o riciclatore. E siccome impiegare presuppone “possedere” o “ricevere”, colui che vi provvede difficilmente potrà essere un soggetto diverso dall'autore-concorrente nel delitto presupposto o dal ricettatore-riciclatore, essendo quei capitali illeciti nella sua disponibilità o in quanto provento del delitto presupposto o perché li ha ricevuti da detti soggetti (vestendo, dunque, i panni del ricettatore) o, infine, perché è stato lui stesso a riciclarli.
Potrebbe rivelarsi, pertanto, risolutivo, per uscire da un'impasse applicativa che, come si intuisce dalle statistiche sopra richiamate, gli stessi operatori faticano a superare[10], un intervento chirurgicamente diretto alla rimozione della sola clausola di riserva prevista in favore degli artt. 648 e 648 bis c.p., che, verosimilmente, riuscirebbe nell'intento di accordare o, se si preferisce, di restituire (nuova) vitalità ad una fattispecie destinata a reprimere fatti offensivi del valore europeo della concorrenza ed espressivi di un disvalore senz'altro più intenso rispetto a quello tipico della ricettazione (da cui viene, come detto, letteralmente “soggiogata” nonostante a quest'ultima sia pressoché estranea la tutela dell’ordine economico) o del riciclaggio (se inteso nel significato, che gli è proprio, di contegno neutralizzatore o intralciante l'accertamento della provenienza delittuosa del denaro, beni o di altre utilità).
b) La necessità di uniformare la circostanza attenuante della particolare tenuità del fatto. – Il piano di uniformare il sottosistema antiriciclaggio liberandolo da invalidanti aporie sistematiche può essere portato a compimento anche agendo su talune circostanze attenuanti che, allo stato, accedono ai delitti di riciclaggio, lato sensu intesi, in modo alquanto disorganico.
Il rilievo critico origina dalla persistenza, anche a seguito dello schema di decreto legislativo in approvazione, di due coppie di disposizioni: da lato, l'art. 648, comma 2, c.p – correttamente manipolato per la necessità di distinguere tra delitto-presupposto e contravvenzione-presupposta – e l'art. 648 ter, comma 4, c.p. (nel quale, probabilmente per un refuso, si rinvia al comma quarto anziché al comma quinto dell'art. 648 c.p.), i quali contemplano la circostanza attenuante indefinita ed indipendente del fatto di particolare tenuità; e, dall'altro, gli artt. 648 bis e 648 ter 1. c.p., che, viceversa, correlano la riduzione di pena (ad effetto comune) soltanto alla (minore) gravità del delitto o della contravvenzione presupposti, senza riferimento alcuno al fatto di particolare tenuità.
Al netto di qualche recente, eppure autorevole, opinione contraria[11], a me pare che non si possa fondatamente dubitare che si tratti di una circostanza attenuante piuttosto che di una fattispecie autonoma attenuata, orientando verso questa soluzione numerosi indici, di stampo formale o sostanziale, a valenza meramente indiziante o probante, tra cui, senz'altro, la tecnica di descrizione dell'enunciato normativo, che lascia in evidenza il reato-base senza procedere ad una tipizzazione ex novo dell'elemento specializzante.
Ma, una volta inquadrata dogmaticamente, non si comprende la ragione per cui detta attenuante connoti soltanto la ricettazione e l'impiego e non anche il riciclaggio e l'autoriciclaggio, non rispondendo una siffatta disparità contenutistica ad alcun imperativo logico o di politica-criminale. Non si può, infatti, non registrare la distanza che, sul piano assiologico, separa il delitto di impiego dalla ricettazione ed, al contrario, la sua prossimità con il riciclaggio e con l'autoriciclaggio, essendo questi ultimi addirittura accomunati dalla stessa condotta di impiego, così da rendere ancora più grossolano il difetto di omogenizzazione sul meno spinoso versante degli elementi accidentali.
Sarebbe, dunque, opportuno che, in sede di approvazione finale, si procedesse ad estendere l'attenuante della particolare tenuità del fatto anche ai delitti di riciclaggio e di autoriciclaggio, giacché, in un sistema ordinato, se è astrattamente ipotizzabile che lo sia un fatto di reimpiego non può non esserlo anche un fatto di riciclaggio o di autoriciclaggio.
A meno che, al pari di quanto già – inopinatamente a mio parere – positivizzato in altre parti del codice (penso alla esclusione, tra i fatti di particolare tenuità nei delitti dei p.u. contro la P.A. di cui all'art. 323 bis, comma 1, c.p., della rivelazione di segreti di ufficio o del rifiuto/omissione di atti di ufficio a fronte del contestuale richiamo al peculato o alla concussione), non si ritenga che mai riciclaggio ed autoriciclaggio possano atteggiarsi a fatti di particolare tenuità. Se così fosse, per quanto si tratti di una prospettiva di tutela improntata ad un rigorismo repressivo privo di valide giustificazioni, si dovrebbe consequenzialmente procedere alla soppressione dell'attuale comma 4 dell'art. 648 ter c.p., perché soltanto in questo modo si terrebbe fede al proposito di licenziare testi di legge epurati da profili, più o meno marcati, di irragionevolezza, benché raggiunta seguendo la direttrice esattamente opposta a quella, a mio avviso, raccomandabile.
c) La modifica dell'art. 648 ter. 1, comma 7, c.p. – Si sollecita, infine, a valutare l'opportunità di correggere l’absurdum a cui, in sede redazionale, ha condotto il rinvio indiscriminato operato dal settimo comma dell’art. 648 ter.1 c.p. all'ultimo dell’art. 648 c.p. Se il precetto che sancisce la punibilità del ricettatore anche quando l’autore del reato-presupposto sia non imputabile o non punibile (oppure – ma lo si precisa soltanto per completezza espositiva non rilevando ai nostri specifici fini – difetti una condizione di procedibilità) fosse, sic et simpliciter, esteso all’art. 648 ter.1 c.p., bisognerebbe convenire sul paradosso di un soggetto attivo che, esente da responsabilità penale per il reato-presupposto in quanto non imputabile, si trovi ugualmente a rispondere quale autoriciclatore.
Siamo dinanzi, come è facilmente intuibile, ad un effetto incontrollato e – si immagina – “preterintenzionale” dell'abuso del ricorso alla tecnica del rinvio per relationem: ciò che si confà ai delitti di ricettazione/riciclaggio ed impiego, che si radicano per l'appunto sull'alterità tra autore del delitto presupposto ed autore di quello conseguente, non può risultare parimenti appropriato anche per una figura criminosa, la cui nota distintiva è proprio quella della coincidenza, sul versante del soggetto attivo, tra il protagonista della fase “prodromica” e quello della fase successiva, al punto che nessuno dubita della sua natura di reato proprio o a soggettività qualificata.
Ed allora, abolito ogni riferimento alla non imputabilità[12], si dovrebbe limitare la persistente punibilità del reato al ricorrere delle sole cause soggettive di esclusione della pena, evitando così l'ulteriore incongruenza di incriminare per autoriciclaggio chi abbia posto in essere un fatto-presupposto in sé oggettivamente o soggettivamente insussistente (per la presenza di una scriminante o di una scusante).
[1] Dal quale risulta la seguente definizione: «attività criminosa»: qualsiasi tipo di coinvolgimento criminale nella commissione di un qualsiasi reato punibile, conformemente al diritto nazionale, con una pena detentiva o con una misura privativa della libertà di durata massima superiore ad un anno ovvero, per gli Stati membri il cui ordinamento giuridico prevede una soglia minima per i reati, di un qualsiasi reato punibile con una pena detentiva o con una misura privativa della libertà di durata minima superiore a sei mesi». Per poi proseguire con l'elencazione di una serie di figure criminose (tra cui la partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, il terrorismo, la tratta di esssere umani ed il raffico di migranti, lo sfruttamento sessuale, il traffico illecito di sostanze stupefacenti, di armi, di beni rubati, rapina, omicidio, lesioni gravi, reati fiscali ed ambientali ecc), che appartengono comunque alla categoria.
[2] Sez. un., 26 novembre 2009, n. 12433, Nocera, in Riv. it, dir. proc. pen., 2011, p. 300 ss.
[3] Come noto l'art. 712 c.p. è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda non inferiore ad € 10.
[4] Per un'utile esemplificazione delle disposizioni codicistiche contraddistinte dalle cornici edittali richiamate dal legislatore v. F. Giunta, L'Europa chiede un ulteriore giro di vite nel contrasto al riciclaggio, in www.disCrimen.it, 30 settembre 2021, p. 1
[5] In questi termini ancora F. Giunta, L'Europa chiede un ulteriore giro di vite, cit., p. 3.
[6] «Gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per garantire che le condotte di cui al paragrafo 1 siano punibili come reato se l'autore sospettava o avrebbe dovuto essere a conoscenza che i beni provenivano da un'attività criminosa».
[7] Sez. un., 27 febbraio 2014, n. 25191, in Dir. pen. cont., 17 settembre 2014.
[8] Già prima della Direttiva n. 2018/1673 si erano registrati pressanti inviti da parte del Parlamento europeo affinché gli Stati membri approdassero alla penalizzazione dell'autoriciclaggio. Così la Risoluzione del 25 ottobre 2011 sulla criminalità organizzata, in particolare al punto n. 41 collocato all'interno della sezione intitolata «Misure di contrasto relative a specifici ambiti di azione della criminalità organizzata»; o la Risoluzione del 23 ottobre 2013 sulla criminalità organizzata, la corruzione ed il riciclaggio di denaro: raccomamdazioni in merito ad azioni ed iniziative da intraprendere e, segnatamente, al punto n. 12 collocato all'interno della sezione intitolata «Per un quadro legislativo omogeneo e coerente – Protezione e assistenza alle vittime».
[9] Cfr., in questo senso, Sez. II, 21 giugno 2019, n. 37503, in ilfallimentarista.it, 2019, con nota di C. Santoriello; Sez. II, 1 febbraio 2019, n. 8851, in C.E.D. Cass., n. 275495; Sez. II, 7 giugno 2018, n. 30401, in www.italgiure.giustizia.it; Sez. II, 14 luglio 2016, n. 33074, in Dir. pen. proc., 2017, p. 482 ss, con nota di A. Gullo.
[10] È noto l'indirizzo dottrinale e giurisprudenziale che si sforza di riconoscere all'art. 648 ter c.p. un qualche spazio di operatività distinguendo tra unità e pluralità di comportamenti e di determinazioni volitive. Soltanto nel primo caso, e non anche nel secondo, potrebbe, infatti, trovare applicazione l'art. 648 ter c.p., in quanto norma volta a sanzionare le condotte di impiego che siano frutto di una determinazione teleologica unitaria, la quale soltanto consentirebbe di ritenere "assorbita", alla stregua di un antefatto non punibile, la precedente attività di sostituzione o di ricezione. A diversa soluzione dovrebbe pervenirsi, invece, quando l'autore del delitto di ricettazione o riciclaggio si decida a reimpiegare i proventi di derivazione illecita in un momento successivo rispetto a quello nel quale è avvenuta l'iniziale ricezione del denaro o di altre utilità: la pluralità di azioni e, soprattutto, di atti di volontà protesi a delinquere orienterebbe l'interprete nel senso della prevalenza degli artt. 648 o 648 bis c.p. e, dunque, dell'effettività della clausola di sussidiarietà di cui qui si discute. O la tesi, per vero minoritaria, che traccia la linea di demarcazione tra gli artt. 648 e 648 bis c.p., da un lato, e l'art. 648 ter c.p., dall'altro, sulla sussistenza, nel ricevente, della consapevolezza della provenienza da reato dei capitali da impiegare sin dal tempo della ricezione o, al contrario, acquisita in concomitanza con la condotta di reimpiego.
[11] F. Giunta, L'Europa chiede un ulteriore giro di vite, cit., p. 3, che, inoltre, taccia di incostituzionalità la nuova disciplina (in realtà già esistente, ancorché rimodulata per la necessità di adeguare la risposta sanzionatoria alla natura delittuosa o contravvenzionale del reato presupposto) poiché ingiustamente preclusiva del più favorevole trattamento assicurato dall'art. 131 bis c.p., allo stato (in attesa, cioè, dell'attuazione dell'art. 1, comma 21, lett. a) della «Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giusitiza riparativa e per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che indica come limite all'applicabilità dell'art. 131 bis c.p. la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni e non più quella non superiore nel massimo a cinque) astrattamente ipotizzabile per la sola ipotesi nella quale la ricettazione o il reimpiego c.d. affievoliti attengano a denaro o cose provenienti da contravvenzione. In effetti, nel concorso (apparente) tra la causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p. e le attenuanti di cui agli artt. 648, comma 5, e 648 ter, comma 4, c.p., ad essere prevalenti, per la specialità derivante dalla loro collocazione all'interno di specifiche fattispecie di parte speciale ed alla conseguente scelta del legislatore di limitarsi ad una degradazione di pena piuttosto che spingersi sino ad un'esclusione della stessa, sembrerebbero proprio quest'ultime. Rapporto di specialità che rimarrebbe, peraltro, immutato anche successivamente all'adozione del decreto legislativo con cui si verrebbe ad ampliare la portata applicativa dell'art. 131 bis c.p. assumendo come parametro di riferimento il minimo anziché il massimo edittale.
[12] Non mi pare, infatti, che abbia molto senso insistere in una puntualizzazione che, sorta per far fronte ad esigenze del tutto eccentriche rispetto a quelle imposte dall'autoriciclaggio, finirebbe per conservare un qualche significato soltanto nell'ipotesi-limite in cui un minore si renda autore di un reato principale, i cui proventi vada, poi, ad impiegare soltanto una volta raggiunta la maggiore età.