* Questo scritto riproduce una relazione tenuta all’Incontro-Webinar “L’ergastolo ostativo nella società e nell’ordinamento: Silenzio, parla la Corte costituzionale”, organizzato da ItaliaStatodiDiritto, dalla Camera penale di Roma e dall’Ordine avvocati di Roma (Roma, 4 novembre 2022). Nella esposizione orale alcuni passaggi erano stati omessi al fine di rispettare i tempi dell’Incontro.
1. Storia complessa e tormentata, quella dell’ergastolo ostativo, la forma di ergastolo oggi dominante nella prassi: interessa oltre 1.150 condannati, su un totale di circa 1.800 ergastolani.
Particolarmente tormentata la storia dei rapporti tra ergastolo ostativo e Costituzione.
Paradossalmente, si può dire che la storia dell’ergastolo ostativo davanti alla Corte costituzionale si inaugura con una sentenza – la 264/1974 – che precede la stessa introduzione di tale forma di ergastolo nell’ordinamento. In quella sentenza la Corte afferma la legittimità dell’ergastolo in relazione all’art. 27 co. 3 Cost. sulla base di un duplice ordine di considerazioni: da un lato, la Corte nega che “funzione e fine della pena sia il solo riadattamento dei delinquenti”, dall’altro rileva che l’istituto della liberazione condizionale — applicabile al condannato all’ergastolo per effetto della l. n. 1634/1962 — consente il reinserimento dell’ergastolano nel consorzio civile. Due argomenti improponibili in relazione all’ergastolo ostativo e che anzi, oggi, parlano nel senso della illegittimità costituzionale di questa forma di ergastolo.
Ben presto, peraltro, la Corte costituzionale affronta direttamente il tema dell’ergastolo ostativo. Si registrano dapprima due sentenze di rigetto: la 306/1993 e la 135/2003. Il parametro di riferimento è sempre l’art. 27 co. 3 Cost. Nella sent. 306/1993 la Corte, pur affermando la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, osserva che “inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una ‘rilevante compressione’ della finalità rieducativa della pena”. Nella sent. 135/2003 la Corte nega che l’art. 4 bis ord. penit. opponga una preclusione assoluta al condannato non collaborante: la disciplina dell’ergastolo ostativo, facendo salve le ipotesi di collaborazione impossibile o oggettivamente irrilevante, sarebbe “significativamente volta ad escludere qualsiasi automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione non possa essere imputata ad una libera scelta del condannato”.
Nel 2019 la Corte costituzionale per la prima volta pronuncia una sentenza di accoglimento relativa all’art. 4 bis co. 1 ord. penit.: la sent. 253/2019, che ha peraltro quale oggetto specifico ed esclusivo l’accesso ai permessi premio da parte dei condannati per reati di mafia. Per effetto della pronuncia della Corte, queste misure possono ora essere concesse anche al condannato non collaborante, a condizione che siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
La sentenza 253/2019 appare destinata a segnare una svolta nei destini dell’intero art. 4 bis co. 1 ord. penit., tanto più che tale disposizione era stata in precedenza censurata – pochi mesi prima, nel corso dello stesso 2019 – dalla Corte Edu, nella celebre sent. Viola c. Italia, che giudicava l’ergastolo ostativo incompatibile con il principio di umanità della pena di cui all’art. 3 Cedu.
Le attese suscitate da queste pronunce vengono però deluse dalla stessa Corte costituzionale, allorché, con l’ord. 97/2021, la Corte accerta, ma non dichiara contestualmente l’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo (il problema era stato sollevato con riferimento all’accesso alla liberazione condizionale da parte dei condannati per reati di mafia). La Corte rinvia di un anno – al 10 maggio 2022 – la trattazione nel merito della questione, ritenendo che un intervento meramente demolitorio avrebbe compromesso la tenuta complessiva della normativa di contrasto alla criminalità organizzata: a giudizio della Corte, si rende dunque necessario – secondo una logica di “collaborazione istituzionale” – un tempestivo intervento del legislatore.
La risposta del Parlamento al monito della Corte costituzionale prende forma in una proposta di legge (AC 1951-3106-3184-3315-A) frutto dell’unificazione di quattro proposte di legge di iniziativa parlamentare presentate tra il 2019 e il 2021, che avevano come primi firmatari, rispettivamente, gli on. Bruno Bossio, Ferraresi, Delmastro Delle Vedove e Paolini. Il testo unificato, avendo avuto l’approvazione della Camera il 31 marzo 2022, viene trasmesso al Senato il 1° aprile e qui designato come AS 2574.
Non essendosi completato l’iter parlamentare nei termini dettati dall’ordinanza 97/2021, il 10 maggio, con l’ord. 122/2022, la Corte costituzionale dispone un secondo rinvio: rinvia all’udienza del prossimo 8 novembre, motivando la propria scelta con “lo stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge”.
Si arriva così al 31 ottobre in una situazione di incertezza. L’ipotesi più plausibile, per l’udienza dell’8 novembre, appare comunque – al 31 ottobre – quella di una pronuncia sul merito della questione: e cioè di una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit. (e delle norme ad esso collegate). L’8 novembre doveva dunque segnare la resa dei conti con l’ergastolo ostativo.
Il 31 ottobre interviene però un fatto nuovo, un vero coup de théâtre: il Governo riesuma il d.d.l. 2574 e lo ripropone nella forma del decreto legge (con una variante – peggiorativa per il condannato – relativa all’ipotesi in cui siano in corso di esecuzione pene inflitte sia per reati ostativi, sia per reati diversi, e questi ultimi siano stati commessi per eseguire o occultare un reato ostativo o ovvero per conseguire il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l'impunità per uno o più di tali reati). Il monito della Corte costituzionale, che non ha avuto ascolto per un anno e mezzo, viene assunto a fondamento della “necessità ed urgenza” del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162: nella Relazione che accompagna il provvedimento governativo si afferma che il testo approvato dalla Camera non è pervenuto all’approvazione da parte del Senato solo a causa dello scioglimento delle Camere.
A ben vedere, la necessità ed urgenza che starebbero alla base del decreto-legge derivano dalla volontà del Governo di salvare l’ergastolo ostativo dalla scure della Corte costituzionale: lo ha fatto capire la stessa Presidente del Consiglio nella conferenza-stampa seguita al Consiglio dei ministri del 31 ottobre, esplicitando quanto si intravvede nello stesso tenore letterale della premessa al testo del decreto legge. Siamo lontani anni luce dalle ipotesi di “straordinaria necessità ed urgenza” – un terremoto, l’eruzione di un vulcano – alle quali faceva riferimento Piero Calamandrei in Assemblea costituente, caldeggiando la previsione nella Costituzione di provvedimenti governativi provvisori dotati di forza di legge.
Il sottotitolo del nostro Convegno potrebbe essere, a questo punto, “Silenzio: Corte costituzionale sta’ zitta!”.
Sottolineo che la disciplina dell’ergastolo ostativo contenuta nel decreto-legge potrebbe subire modifiche nel breve periodo, posto che, a norma dell’art. 77 Cost., il decreto dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni: un’eventualità – quella della conversione con modifiche – tutt’altro che remota, se si considera che il disegno di legge era stato votato alla Camera dai partiti che sostenevano il Governo Draghi, mentre non era stato votato da Fratelli d’Italia, all’epoca unico partito di opposizione e ora primo partito nella maggioranza che sostiene il Governo Meloni. E si consideri che la ragione dell’astensione di Fratelli d’Italia alla Camera risiedeva nel carattere “troppo timido, balbettante, claudicante” del disegno di legge: per l’on. Delmastro Delle Vedove, il testo ora riesumato dal Governo parrebbe integrare uno di quei “gargarismi garantistici” (sono parole pronunciate in un recente passato dal neo-sottosegretario alla Giustizia) che consegnerebbero la vittoria alla mafia nella sua lotta contro l’ergastolo ostativo.
La stessa Presidente del Consiglio ha fatto espresso riferimento a ‘interventi migliorativi’ che potrebbero essere apportati con la legge di conversione: interventi migliorativi nella prospettiva di chi, riferendosi all’ergastolo ostativo, proclama a pieni polmoni che “nella lotta alla mafia non intendiamo fare neanche mezzo passo indietro, ma solo passi in avanti”. La Presidente, d’altra parte, non ha escluso che gli ‘interventi migliorativi’ possano essere realizzati successivamente, in un mutato quadro costituzionale: allorché, se ben intendo, fosse stata approvata una proposta di legge costituzionale (AC 3154), prima firmataria l’on. Meloni, presentata l’8 giugno 2021, che aggiunge al comma 3 dell’art. 27 Cost. il seguente periodo: “La legge garantisce che l'esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”.
2. Ma veniamo ora, per punti, a quelli che mi sembrano gli aspetti più significativi – nel bene o nel male – della disciplina dell’ergastolo ostativo contenuta nel decreto legge n. 162/2022.
1) Il primo punto riguarda le condizioni in presenza delle quali il detenuto (o internato) non collaborante può essere ammesso al lavoro all’esterno, ai permessi premio, alle misure alternative alla detenzione o alla liberazione condizionale (art. 1, lett. a, n. 2).
In proposito, il decreto legge opera una distinzione all’interno del coacervo di reati progressivamente confluiti nell’art. 4 bis co. 1 ord. penit. Il decreto legge, infatti, da un lato dedica una previsione (art. 4 bis co. 1bis) ai delitti propriamente riconducibili alla criminalità organizzata: delitti di terrorismo o di eversione, delitti di mafia, favoreggiamento dell’immigrazione illegale, associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti o al contrabbando di tabacchi; a tali reati, si aggiunge, ex art. 4 bis co. 1 bis.2, l’associazione per delinquere ex art. 416 c.p., nei casi in cui sia finalizzata alla commissione di delitti di cui al co. 1 bis. D’altro lato, il decreto legge dedica un’ulteriore previsione (art. 4 bis co. 1 bis.1) ai restanti delitti di cui all’art. 4 bis co. 1: delitti contro la pubblica amministrazione, delitti in materia di schiavitù, tratta di persone, prostituzione e pornografia minorile, violenza sessuale di gruppo, sequestro di persona a scopo di estorsione.
Nella prima disposizione – quella cioè relativa ai delitti di criminalità organizzata – al condannato (o internato) si richiede che: a) abbia tenuto una regolare condotta carceraria, abbia partecipato al percorso rieducativo e abbia dichiarato la propria dissociazione dall’organizzazione criminale; b) dimostri l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato (in alternativa, dovrà dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiervi); c) alleghi “elementi specifici elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo del ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. In tale valutazione, il giudice terrà conto “delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”, nonché dell’eventuale “sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”.
Queste condizioni, che riguardano sia il condannato all’ergastolo, sia il condannato alla reclusione per uno o più delitti di cui al co.1, sono dettate in un nuovo co. 1 bis, che si sostituisce al previgente co. 1 bis, che viene dunque soppresso.
Per gli altri reati – reati cioè che non si inquadrano nella criminalità organizzata – il nuovo art. 4 bis co. 1 bis.1 ord. penit. prevede condizioni analoghe a quelle ora illustrate, che peraltro vengono rimodellate tenendo conto dell’assenza di un’organizzazione criminale di cui il condannato faccia parte: la disposizione fa esclusivo riferimento ai “collegamenti” con il “contesto nel quale il reato è stato commesso”. Va soprattutto sottolineato che il decreto-legge richiede che si possa escludere l’attualità di tali collegamenti, e non anche il pericolo del loro ripristino.
2) Quanto agli adempimenti richiesti al giudice in vista della decisione sull’istanza presentata dal condannato non collaborante, il decreto legge n. 162/2022 (art. 1, lett. a, n. 3) conserva l’art. 4 bis co. 2 ord. penit. in tema di informazioni da acquisirsi per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica del luogo di detenzione del condannato. Ulteriori informazioni dovranno essere acquisite attraverso la direzione dell’istituto in cui si trova l’istante. Sono inoltre previsti accertamenti sulle condizioni economiche, sulle attività economiche, sul tenore di vita del condannato e del suo nucleo familiare, nonché su eventuali misure di prevenzione personali o patrimoniali disposte nei loro confronti.
Accanto alle informazioni, il decreto legge prevede pareri che devono essere rilasciati da parte delle procure: in particolare dal p.m. presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo di grado. Quando si tratti di condannati per reati di cui all’articolo 51 co. 3 bis e co. 3 quater c.p.p., il parere deve essere richiesto al procuratore nazionale antimafia e al p.m. presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado.
Quest’ultimo – il procuratore distrettuale – può inoltre svolgere le funzioni di pubblico ministero nelle udienze del tribunale di sorveglianza che abbiano ad oggetto la concessione dei benefìci di cui al comma 1 nei confronti di condannati per reati di cui all’articolo 51 co. 3 bis e co. 3 quater c.p.p (nuovo art. 4 bis co. 2 ter ord. penit., introdotto dall’art. 1, lett. a, n. 5 decreto legge n. 162/2022).
Se “dall’istruttoria svolta emergono indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”.
3) Il decreto legge prevede novità in relazione alla competenza a concedere il lavoro all’esterno e i permessi premio, quando l’istanza sia presentata da un condannato per reati di cui all’art. 4 bis co. 1 ord. penit. Di regola competente in materia è il magistrato di sorveglianza: tuttavia una scelta diversa viene ora operata in relazione ai condannati per delitti di terrorismo o di mafia (art. 30 ter ord. penit., come modificato dall’art. 1, lett. c, n. 1 decreto legge n. 162/2022): il decreto legge attribuisce la competenza al tribunale di sorveglianza – dunque, all’organo collegiale – che ha giurisdizione sull’istituto di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta.
4) Rilevanti modifiche riguardano la liberazione condizionale del condannato non collaborante (in relazione a tutti reati dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit.). Il condannato alla reclusione vi potrà accedere dopo aver scontato almeno due terzi della pena; il condannato all’ergastolo vi potrà accedere solo dopo aver scontato almeno trent’anni e chiuderà definitivamente i conti con la giustizia dopo altri dieci anni trascorsi in libertà vigilata (art. 2, lett. b decreto legge n. 162/2022).
5) La disciplina dettata dal nuovo art. 4 bis ord. penit. non si applica a chi, detenuto o internato per delitti di cui co. 1, sia sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis ord. penit.: per espressa previsione legislativa (art. 4 bis co. 2 ult. periodo, nella versione dell’art. 2, lett. a, n. 3 decreto legge n. 162/2022), in assenza di collaborazione con la giustizia, i benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis co. 1 possono essere disposti solamente dopo che il provvedimento applicativo del regime detentivo speciale sia stato revocato o non prorogato.
3. Passo ad illustrare alcune riflessioni relative agli aspetti della riforma sui quali mi sono soffermato nella mia esposizione.
1) A proposito delle condizioni per l’accesso ai benefici da parte del condannato non collaborante, la riforma dell’art. 4 bis ord. penit. poteva fornire l’occasione per rivedere in senso restrittivo il catalogo dei reati ‘di prima fascia’: l’attuale contesto politico, peraltro, rende impensabile un intervento di questo tipo.
Il catalogo dei reati ‘di prima fascia’ è dunque rimasto immodificato: anzi, è stato sostanzialmente ampliato, come accennavo, per effetto di una disposizione relativa ad ipotesi di connessione qualificata tra reati non ostativi e reati ostativi, inserita dal decreto legge quale ultimo periodo nell’art. 4 bis co. 1 ord. penit.
Il decreto legge si è limitato ad una sorta di maquillage della disposizione del vecchio primo comma: ha ‘spacchettato’ il catalogo dei reati compresi nell’elenco, stabilendo condizioni in parte diverse per l’accesso ai benefici a seconda che si tratti o meno di reati criminalità organizzata: o, per meglio dire, condizioni diverse perché l’istanza possa essere esaminata nel merito, fermi restando – se ben intendo – i presupposti generali per l’applicabilità del lavoro all’esterno, dei permessi premio, delle misure alternative e della liberazione condizionale. Quando l’istanza provenga, ad esempio, da chi sconta la pena della reclusione per un peculato o per una violenza sessuale di gruppo, non avrebbe senso chiedere che il condannato alleghi elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Non è facile, peraltro, comprendere che cosa intendano l’art. 4 bis co. 1bis e l’art. 4 bis co. 1bis.1 quando fanno riferimento al “contesto nel quale il reato è stato commesso”: c’è chi ha proposto di porre il quesito all’Accademia della Crusca…
Un merito va riconosciuto al decreto: quello di riferire alla sola criminalità organizzata il “pericolo di ripristino” di collegamenti, un requisito entrato in scena per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019. Il decreto legge risparmia dunque al magistrato o al tribunale di sorveglianza la probatio diabolica insita nell’accertamento del pericolo di ripristino quando i collegamenti riguardino, anziché un’organizzazione criminale, il “contesto” in cui il reato è stato commesso.
Sottolineo, infine, su questo punto, che il decreto legge pone a carico dell’istante un onere di allegazione di elementi tali da escludere l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o con il contesto nel quale il reato è stato commesso: di ‘onere di allegazione’ aveva parlato la Corte costituzionale nella sentenza n. 253/2019. Su quella linea si colloca il nuovo testo, che – contrariamente a quanto si è letto in alcuni primi commenti al decreto legge, non si spinge fino a prevedere un’inversione dell’onere della prova.
2) Circa gli adempimenti richiesti al giudice in vista della decisione sull’istanza, il decreto legge n. 162/2022 prevede un ampliamento delle fonti di conoscenza di cui il giudice deve avvalersi, per attingerne informazioni: un ampliamento verosimilmente utile, in considerazione della delicatezza della questione oggetto del giudizio, ancorché destinato ad appesantire l’iter della decisione.
Per altro verso, il decreto legge attribuisce un ruolo ben più rilevante alle procure: un nuovo ruolo che ha il suo aspetto più vistoso nel rilascio di pareri in merito all’istanza. Analoghe previsioni erano presenti – sulla scia, tra l’altro, della Proposta di legge Ferraresi (AC 3106) – nella versione originaria del Testo unificato da cui traeva origine il d.d.l. AS 2574. Per contro, la Proposta di legge Bruno Bossio (AC 1951) stabiliva espressamente che le informazioni previste dall’art. 4 bis non dovessero contenere pareri sulla concessione dei benefìci.
A differenza delle informazioni, volte ad ‘aiutare’ il giudice perché assuma una decisione ponderata e pienamente consapevole, i pareri delle procure rappresentano, a mio avviso, un limite di dubbia opportunità apposto alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza, che ritengo in grado di decidere al meglio, anche alla luce delle informazioni ricevute, per l’accoglimento o per il rigetto dell’istanza: a meno che i pareri non si riducano, nei contenuti, a mere informazioni…
3) In materia di competenza a decidere sulle istanze relative a benefici e misure di cui all’art. 4 bis ord. penit., sottolineo che il decreto legge non introduce deroghe alla disciplina ordinaria della competenza per territorio. Durante i lavori preparatori del provvedimento si era profilato l’accentramento dei giudizi presso il Tribunale di sorveglianza di Roma quando si trattasse di detenuti o internati per delitti di cui all’art. 51 co. 3 bis e co. 3 quater c.p.p.: questa soluzione era contenuta nella Proposta di legge Ferraresi, sulla scia di un’indicazione che veniva dalla Commissione nazionale antimafia (in analogia a quanto previsto dall’art. 41 bis co. 2 quinquies ord. penit. per i reclami avverso i provvedimenti relativi al regime detentivo speciale).
Giudico positivamente l’accantonamento di quella proposta, che, in nome di esigenze di uniformità delle decisioni, faceva torto alla fondamentale natura di “giurisdizione di prossimità” propria della magistratura di sorveglianza.
4) Quanto alla liberazione condizionale, mi domando se, fissando a trent’anni la soglia temporale per l’accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato che non collabora con la giustizia, ma ha comunque rescisso ogni collegamento con la criminalità organizzata, la riforma non crei un divario irragionevole tra la condizione di questo condannato e quella del condannato collaborante, che, a norma dell’art. 16 nonies del decreto legge n. 8/1991, convertito nella legge n. 82/1991, può accedere alla liberazione condizionale dopo aver espiato dieci anni di pena: una così radicale disparità di trattamento mi sembra integrare una violazione del principio di eguaglianza/ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
La soglia temporale di trent’anni prevista per il condannato non collaborante eccede ampiamente, d’altra parte, il limite che la Corte Edu (Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter c. Regno Unito) annovera tra le condizioni in presenza delle quali la pena detentiva perpetua può considerarsi ‘riducibile’ de iure e de facto. La Corte, infatti, rilevato che tra gli Stati contraenti “vi è una netta tendenza in favore della creazione di un meccanismo speciale che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta” (§120), concludeva che laddove il diritto nazionale non preveda tale possibilità “una pena dell’ergastolo effettivo contravviene alle esigenze derivanti dall’art. 3 della Convenzione” (§ 121). A favore della possibilità di riesame della pena dopo venticinque anni parla anche, come pure sottolinea la Corte Edu nella citata sentenza Vinter, lo Statuto della Corte penale internazionale, allorché all’art. 110 co. 3 individua il periodo massimo decorso il quale il condannato alla pena perpetua può ottenere il riesame della pena.
Il vincolo derivante dal diritto sovranazionale non è dunque rispettato da un limite temporale di trent’anni: il che si traduce in un ulteriore vizio di illegittimità costituzionale, relativo, questa volta all’art. 117 Cost.
Rammento ancora che il decreto legge porta a dieci anni (il doppio, dunque, del termine previsto in via generale) il tempo durante il quale il condannato non collaborante (quando si tratti di condannato all’ergastolo) verrà sottoposto alla libertà vigilata a norma dell’art. 230 co. 1 n. 2 c.p.
A questo proposito uno spunto di riflessione è offerto da una questione ora al vaglio della Corte costituzionale (per effetto di un’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Firenze il 24 marzo 2022). I dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal giudice fiorentino riguardano il carattere obbligatorio della misura (ex art. 230 c.p.) e la sua durata fissa (quale si ricava dall’art. 177 co. 2 c.p., nella parte in cui preclude al giudice il riesame della pericolosità sociale del libero vigilato e il conseguente potere di revocare anticipatamente la misura, prima che sia estinta la pena). Sia in dottrina sia in giurisprudenza è presente una tesi secondo cui la libertà vigilata applicata contestualmente alla liberazione condizionale non sarebbe una misura di sicurezza, ma un aliud, ancorché identico nei contenuti alla misura di sicurezza. Anche chi aderisca a questa tesi non può peraltro disconoscere che si tratti di una misura penale, come tale sottoposta ai principi della rieducazione del condannato e di proporzionalità del trattamento sanzionatorio, con i quali sembra confliggere sia il carattere obbligatorio dell’applicazione della misura, sia la sua durata fissa. Ora, mentre si attende il responso della Corte costituzionale, il decreto legge n. 162/2022 non solo conserva i caratteri che proiettano dubbi di legittimità costituzionale su questa forma di libertà vigilata, ma addirittura raddoppia la durata – fissa – della libertà vigilata quando riguardi chi, condannato all’ergastolo per un delitto di cui all’art. 4 bis co. 1 ord. penit., non collabora con la giustizia.
5) A proposito della disposizione in tema di 41 bis ord. penit., osservo che tale disposizione sembra sostanzialmente superflua: la sottoposizione al regime detentivo speciale presuppone infatti l’esistenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. L’obiettivo perseguito dalla disposizione sembra dunque, nella sostanza, quello di rassicurare l’opinione pubblica, che già a seguito della sentenza della Corte cost. 253/2019 era stata messa in allarme da alcune voci della politica e della stessa magistratura, che denunciavano come prossimo il riversarsi per le vie delle nostre città di frotte di boss mafiosi in permesso premio: un allarme che è stato radicalmente smentito dai fatti.
4. Ho lasciato come ultimo il tema – certamente non ultimo per importanza – della collaborazione impossibile (tale in ragione della limitata partecipazione al fatto criminoso, ovvero dell’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità) e della collaborazione oggettivamente irrilevante (tale allorché al detenuto o internato sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 62 n. 6 c.p., dall’art. 114 c.p. ovvero dall’art. 116 co. 2 c.p.). Come ho anticipato, tali situazioni non hanno rilievo nella nuova disciplina, mentre nella versione previgente dell’art. 4 bis ord. penit. erano equiparate all’utile collaborazione: il decreto legge, sopprimendo il vecchio co. 1 bis, impone al giudice di procedere al vaglio delle condizioni previste dai nuovi commi 1 bis e 1bis.1 per l’accesso ai benefici anche in situazioni in cui la collaborazione risulterebbe impossibile o irrilevante.
Si tratta di un profilo estremamente significativo, che evidenzia forse più di ogni altro il divario tra la nuova disciplina e le indicazioni che venivano dalla Corte costituzionale: rende chiaro che il decreto legge n. 162/2022 formalmente attua il monito della Corte costituzionale, ma nella sostanza tende a neutralizzarlo.
Il decreto legge pone infatti il condannato che si trovi nelle situazioni ora richiamate in una posizione deteriore rispetto a quella in cui si trovava in passato. Di qui la previsione di una disciplina transitoria (art. 3 co. 2 decreto legge n. 162/2022) per effetto della quale la normativa in materia di collaborazione impossibile e di collaborazione oggettivamente irrilevante continuerà ad applicarsi – per quanto riguarda le misure alternative e la liberazione condizionale, non anche il lavoro all’esterno e i permessi-premio – a quanti abbiano commesso delitti di cui all’art. 4 bis co. 1 prima dell’entrata in vigore della nuova legge (prima cioè del 31 ottobre 2022); nei confronti del condannato all’ergastolo, allorché la collaborazione risulti impossibile o oggettivamente irrilevante, non si applicherà nemmeno il termine di trent’anni per l’accesso alla liberazione condizionale, né il prolungamento a dieci anni della durata della libertà vigilata.
5. In sintesi, l’iter attraverso il quale si è giunti prima al d.d.l. 2574 e poi al decreto legge n. 162/2022 è segnato dall’intento di ridurre al minimo le aperture auspicate dalla Corte costituzionale a favore del condannato non collaborante.
I disegni di legge immediatamente seguiti all’ord. 97/2021 guardavano alla pronuncia della Corte costituzionale come al “problema da risolvere”, e non come all’incentivo alla soluzione di un problema (rubo questa felice osservazione a Andrea Pugiotto): un problema posto dall’illegittimità costituzionale della normativa allora vigente.
Poco è cambiato nei passaggi successivi: solo una minima parte della distanza dalla pronuncia della Corte costituzionale è stata colmata. Profili censurabili nella disciplina varata dal Governo risiedono, a mio avviso, nelle soglie temporali per l’accesso alla liberazione condizionale, nel carattere obbligatorio e nella durata fissa (doppia rispetto a ieri) della libertà vigilata da applicarsi all’atto della liberazione condizionale, nonché nella previsione di pareri delle procure: alcune di tali censure, come si è detto, possono tradursi in dubbi di legittimità costituzionale.
Soprattutto, va in direzione opposta rispetto alla recente giurisprudenza costituzionale la soppressione nel decreto-legge delle disposizioni che riguardano la collaborazione impossibile e la collaborazione oggettivamente irrilevante.
Sottolineo peraltro che il novum in quest’ultima materia è destinato a produrre effetti soltanto nel lungo periodo: quando cioè andranno in esecuzione condanne per delitti di prima fascia commessi a partire dal 31 ottobre 2022. Ciò evidenzia la presenza nella riforma dell’art. 4 bis ord. penit. – accanto ad altre ‘disposizioni manifesto’ contenute nel decreto legge – di una componente che definirei declamatoria, volta cioè a trasmettere un messaggio politico più che ad incidere sulla condizione di chi oggi si trova in carcere in espiazione della pena inflitta per un reato ostativo.
Il decreto legge n. 162/2022, dunque, mostra all’opinione pubblica un volto ancora più arcigno di quanto non sia in realtà, almeno per un apprezzabile arco di tempo.
In ogni caso, la riforma rifiuta di offrire al condannato che non collabora con la giustizia, ma ha ripudiato le pregresse scelte di vita e non mantiene legami con la criminalità organizzata, quella speranza che per lui chiedeva la Corte costituzionale: apre uno spiraglio in quella direzione, ma lo spiraglio è del tutto insufficiente. Alle timide aperture si accompagnano nuove chiusure rispetto al diritto previgente, su aspetti tutt’altro che marginali.
Il decreto legge – ribadisco – nella sostanza, mira a salvare l’ergastolo ostativo: tutti noi ci dobbiamo impegnare, ora, nei limiti consentiti dal ruolo di ciascuno, per impedire che questo obiettivo si realizzi e si consolidi.
Ho detto “tutti noi”: intendo tutti coloro che non dimenticano come l’art. 27 co. 3 Cost. – così come è oggi formulato… – si riferisca a tutte le pene, anche all’ergastolo.