1. Le brevi considerazioni seguenti rispecchiano – più o meno – il contenuto di un secondo intervento che avrei desiderato realizzare nell’ambito dell’incontro a più voci “Tangentopoli trent’anni dopo” (organizzato dal Dipartimento di scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università statale di Milano e svoltosi il 18 marzo 2022) [qui la registrazione video], ma che non ho potuto poi svolgere per mancanza di tempo essendosi il primo ciclo dei programmati interventi protratto fino all’ora di chiusura dell’Aula magna.
Mi spinge a supplire per iscritto alla mia mancata replica orale non certo la presunzione di poter dire cose imperdibili, bensì l’impressione di avere ascoltato dagli altri interventori opinioni e punti di vista ricchi di spunti per riflessioni ulteriori in più direzioni, e in una duplice prospettiva di fondo: cioè sia diagnostica, al fine di cercare di comprendere meglio – appunto – dopo tre decenni l’esperienza giudiziaria di Mani Pulite per metterne in evidenza, nella maniera più equilibrata possibile, luci ed ombre; sia prognostica, vale a dire per verificare quali insegnamenti possiamo trarne in vista non solo di una sempre più efficace attività di prevenzione-repressione dei reati di corruzione in senso lato, ma anche di un dibattito più ampio – che sarebbe, a mio avviso, opportuno riaprire – sui compiti della giustizia penale e sul ruolo della magistratura nella realtà contemporanea.
2. Nel mio intervento orale avevo tentato di riassumere le riflessioni contenute nel mio recente scritto dal titolo Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria, ma non esemplare (leggibile in giustiziainsieme.it, 16 febbraio 2022) ma, prefissomi di non superare la soglia massima dei trenta minuti, ho forse finito con lo sbilanciare i miei rilievi più sul versante delle ‘ombre’ che su quello delle ‘luci’; e poi ho forse ecceduto nel soffermarmi su alcuni nodi problematici di portata generalissima oggetto di persistente e conflittuale dibattito anche nello spazio pubblico (se competa al magistrato penale la ‘lotta’ contro i fenomeni sistemici o se ciò ne determini una indebita sovraesposizione politica sia endogena che esogena, e altresì ne solleciti una criticabile tendenza a utilizzare le fattispecie incriminatrici come ‘armi da combattimento’ disinvoltamente passibili di applicazioni estensivo-analogiche, o a prescegliere la qualificazione penalistica della condotta – ad esempio concussione in luogo di corruzione – in funzione di logiche di scambio con l’indagato, o ancora a impiegare la carcerazione preventiva per fini investigativo-confessori et similia), mentre ho trascurato gli aspetti più tecnico-normativi in senso canonico come ad esempio un bilancio applicativo della riforma Severino a un decennio di distanza.
Essendo stato quello di cui sopra il mio prevalente approccio, avrò io stesso indotto Massimo Dinoia a interpretare il mio intervento come quello di un “pubblico ministero” animato dal proposito di mettere sotto accusa Mani Pulite! Ma il fatto è che in questo ruolo non mi riconosco, e non solo perché lo sento anche psicologicamente estraneo in linea generale al mio (specie attuale) modo di sentire. Ritengo pure io – come ho sostenuto nel mio scritto prima citato – che Mani Pulite abbia senz’altro segnato una svolta nel dimostrare che il controllo penalistico può essere esercitato su vasta scala pure nei confronti della cosiddetta criminalità dei potenti, così soddisfacendo aspettative di giustizia e legalità egualitarie profondamente avvertite dai cittadini – anche se a questo importante passo avanti si sono purtroppo accompagnati aspetti negativi sia nel condizionare alcune forme di giustizia sostanzialistica e sommaria, sia nell’assecondare pulsioni punitive in chiave di aggressiva e ritorsiva vendetta sociale, e ciò grazie anche a un sostegno mediatico incline a fare da cassa di risonanza delle indagini del pool milanese di allora e, perciò, privo di sufficiente distanza critica.
Diagnosticando in Mani Pulite una coesistenza di aspetti positivi e negativi tale da farla ai miei occhi apparire una impresa giudiziaria non priva di ambiguità o ambivalenza, finisco davvero col rivestire i panni del magistrato d’accusa? Personalmente, ambirei piuttosto – se ne fossi davvero capace – a svolgere il ruolo di uno storiografo penal-giudiziario, più simile quindi a quello di un giudice terzo.
2. Non potevo non ascoltare con particolare interesse l’intervento di Gherardo Colombo, e ciò per ragioni che non credo sia necessario esplicitare. Intervenendo subito dopo di me, invero Colombo ha assunto – almeno così mi è parso – un atteggiamento prevalentemente difensivo rispetto ai punti problematici da me prima prospettati. Il che pare abbastanza comprensibile, e perciò non sorprende che egli (in qualità di ex componente del gruppo di pm impegnati nell’azione di contrasto di Tangentopoli) abbia cercato di negare o ridimensionare ad esempio la possibile tentazione di scelte qualificatorie in termini di concussione come – per dir così – premio concesso all’imprenditore disposto a vuotare il sacco anche chiamando in causa altri, o di strumentalizzazioni applicative della custodia cautelare per scopi investigativi e confessori. Dal mio punto di vista, però, la cosa importante non è verificare (il che sarebbe del resto, a maggior ragione oggi, impossibile!) in quanti casi concreti i magistrati milanesi di allora abbiano di fatto adottato prassi giudiziarie discutibili del tipo di quelle ora menzionate: quel che mi sembra più rilevante è continuare a riflettere, in una prospettiva che guarda soprattutto al presente e al futuro, se certi metodi poco compatibili con un garantismo penale degno di questo nome possano essere comunque tollerati – secondo una logica utilitaristica di risultato – tutte le volte in cui si tratti di fronteggiare gravi fenomeni criminali a carattere sistemico (come ad esempio anche nel caso delle mafie).
Confesso che ho molto apprezzato soprattutto la seconda parte del discorso di Colombo, che – per quello che può valere – condivido in non piccola misura: la parte cioè in cui egli ha addotto argomenti per evidenziare i limiti anche intrinseci della giustizia penale quale strumento di contrasto della corruzione sistemica e, più in generale, per porre in dubbio che la pena tradizionale riesca con prevalente successo a perseguire come funzioni reali quegli obiettivi di prevenzione generale e di prevenzione speciale che i manuali universitari continuano – con forse eccessiva fiducia teorica – ad assegnarle come scopi costituzionalmente legittimi. È da questa sopravvenuta sfiducia che traggono altresì origine – è da ritenere – la decisione di Colombo (che mi permetto di considerare moralmente apprezzabile perché molto coerente) di dimettersi alcuni anni fa dall’attività di magistrato e il suo attuale impegno culturale a favore di modelli alternativi di giustizia e, in particolare, della giustizia cosiddetta riparativa. Prospettiva culturale, questa, che anch’io considero meritevole di essere sviluppata e diffusa, specie ad alcune condizioni che sintetizzerei così: purché si approfondiscano – sul piano sia teorico che pragmatico – i rapporti tra rieducazione e riparazione, e purché la ‘riparazione’ non diventi un nuovo mito, una nuova bandiera ideologica o – peggio – una retorica alla moda destinati alla lunga (come nel precedente caso della rieducazione!) a sfociare in una ennesima delusione.
3. Ho ascoltato con interesse anche gli interventi dei due giornalisti Pietro Colaprico e Mario Consani, anch’essi testimoni diretti di Mani Pulite nella veste di giovani cronisti addetti a seguire le indagini. Entrambi hanno richiamato parti del mio intervento, muovendomi qualche obiezione critica e trovandosi d’accordo nel sottolineare che non si può oggi giudicare l’esperienza giudiziaria di allora senza calarsi nel particolare “contesto” in cui essa si è ambientata. Ora, se questa esigenza di contestualizzazione implicasse implicitamente anche l’avere in qualche modo e misura vissuto quell’esperienza da vicino, ne conseguirebbe – estremizzando – che autorizzati a parlarne sarebbero soprattutto i testimoni; e, dunque, rischierebbe di essere percepita come sostanzialmente ‘abusiva’ la pretesa di uno studioso che come nel caso mio (non solo non testimone, ma per giunta non milanese perché palermitano!) pretenda o si illuda di poterci riflettere sopra a notevole distanza temporale e per di più geografica. Senonché, è forse superfluo rilevare che la possibilità di rileggere con sforzo di obiettività ed equilibrio vicende del passato presuppone una sapiente interazione tra sguardo ‘interno’ e sguardo ‘esterno’, tra rievocazione da parte dei testimoni diretti e ricostruzione critica da parte di osservatori-terzi.
Fondato o infondato il sospetto di poter essere stato percepito come abusivo, riprendo innanzitutto il primo rilievo di Colaprico: sarebbe secondo lui infondata l’ipotesi che i pm milanesi perseguissero l’obiettivo generale – politicamente (oltre che giudiziariamente) rilevante – di combattere il fenomeno della corruzione sistemica, dal momento che essi all’inizio non sapevano che si trattasse di “fenomeno” diffuso, ma lo hanno scoperto soltanto dopo man mano che le indagini proseguivano. In verità, non mi sembra una obiezione probante: in questo senso, infatti, non è decisivo il frangente temporale (iniziale o susseguente) della scoperta giudiziaria del carattere sistemico dei fatti di corruzione, bensì il dato che a partire da un certo momento il pool avesse comunque acquisito piena consapevolezza che effettivamente di questo si trattava. E che l’obiettivo principale fosse poi divenuto quello non di giudicare il singolo reato o il singolo imputato, bensì di processare il “sistema”, sembra in effetti confermato da un insieme ricco e variegato di elementi di riscontro (rinvio in proposito al mio articolo richiamato in precedenza e alla relativa bibliografia). In secondo luogo, Colaprico ha contestato l’esistenza di relazioni di contiguità e di scambio di reciproci favori tra procure e stampa etichettabile come “circo mediatico-giudiziario” (etichetta che egli dichiara di aborrire). A prescindere dal fatto che io non avevo usato questa espressione, non mi sembrerebbe al riguardo una sufficiente prova contraria l’esperienza personale che egli afferma di aver fatto, e che attesterebbe che invece i cronisti giudiziari hanno in genere difficoltà ad acquisire informazioni perché i magistrati le custodirebbero gelosamente e le gestirebbero in modo mirato e in ogni caso parsimonioso. Anche questa volta, non mancano molti riscontri di segno opposto, di cui sono a conoscenza anche per esperienza personale (sia pure indiretta); e, a ulteriore riprova, si consideri quanto pure di recente osservato da un personaggio di variegata competenza istituzionale come Luciano Violante, anch’egli ex magistrato e impegnato in passato nel contrasto di forme di grande criminalità: “le carriere da separare rimangono quelle tra giornalisti e pubblici ministeri” (cfr. Il Riformista, 28 maggio 2020).
Dal canto suo, Consani non si è limitato a enfatizzare l’esigenza di riconsiderare Mani Punite senza ignorarne il complessivo contesto storico-sociale e politico di riferimento, ma ha poco gradito l’impiego da parte mia della parola “fiancheggiamento” per alludere all’ampio e insistito sostegno che il giornalismo scritto e parlato ha fornito all’operato del pool di Milano: come se la parola in questione sottintendesse il rimprovero rivolto ai giornalisti di avere in qualche modo manipolato o alterato la verità delle vicende narrate, o avallato in forme indebite la fondatezza delle indagini. Nessuna intenzione, da parte mia, di avanzare sospetti di tal genere. Del resto, gli stessi vocabolari della lingua italiana attestano che fiancheggiamento può essere ben utilizzato come sinonimo di sostegno, di appoggio: e che questo sostegno o appoggio vi sia stato, e sia risultato efficace nell’incoraggiare l’azione dei magistrati inquirenti e nel convincerli di esaudire finalmente istanze popolari di giustizia egualitaria a lungo in precedenza eluse, nessuno lo può negare. Lo stesso Consani ha riconosciuto espressamente che era normale e giusto che i giornalisti soddisfacessero il sacrosanto bisogno dei cittadini di sapere, di essere adeguatamente informati sulle malefatte dei potenti. A mio avviso, non è in discussione questo. Piuttosto, si tratta di mettere in evidenza un altro lato della medaglia, cioè un possibile risvolto negativo ben lumeggiato da Goffredo Buccini nel recente saggio Il tempo delle Mani Pulite (Laterza, 2021): risvolto costituito dal fatto che l’amplissima copertura mediatica dell’attività investigativa in prevalente chiave di appoggio rischiava di incidere negativamente sull’obiettività del lavoro giornalistico, facendo venir meno quella vigilanza critica che in teoria spetta anche alla stampa esercitare allo scopo di controllare l’operato degli stessi giudici e di denunciarne eventuali errori, eccessi o abusi.
È vero, come ha obiettato Consani, che i cittadini non sono tutti raffinati giuristi e che è, perciò, comprensibile che le emotive pulsioni punitiviste diffuse nel pubblico possano prevalere sugli scrupoli garantistici. Ma non vorrei apparire troppo aristocraticamente professorale nell’auspicare, per altro verso, che un giornalismo culturalmente avveduto si guardi dall’ assecondare troppo persistenti (o riemergenti) umori giustizialisti reclamanti condanne e punizioni sentite, a tutt’oggi, come vendette pubbliche contro (reali o presunti) nemici vecchi e nuovi del (presunto) popolo sano. È una pretesa eccessiva auspicare che almeno una parte della stampa contribuisca a migliorare la cultura giuridico-costituzionale del cittadino medio?
4. Rimane qualche riferimento sintetico ai rispettivi interventi dei due avvocati Giuseppe Bana e Massimo Dinoia: il primo tendenzialmente concorde con i rilievi da me avanzati a proposito di certe discutibili modalità operative tipiche di una giurisdizione “di lotta” o “di scopo”, constatate di fatto anche nella sua personale esperienza di difensore di indagati e imputati di Tangentopoli; il secondo invece dichiaratosi in premessa “difensore” dell’operato del pool, in esplicita contrapposizione a chi scrive percepito invece – a torto o a ragione, come già anticipato – quale “pubblico accusatore” di Mani Pulite. Ma entrambi i suddetti avvocati hanno finito, nello svolgere gli interventi, anche col parlare tra di loro e col coinvolgere a tratti pure Colombo. Com’è comprensibile, non posso entrare nel merito di questi momenti di spontanea e imprevedibile interlocuzione intervenuti da un lato tra Bana e Dinoia, e dall’altro tra i primi due e Colombo: io non ero con loro trent’anni fa e, proprio perché ‘non c’ero’, non sono certo in condizione di verificare chi tra loro ricordi meglio o chi abbia davvero ragione.
Piuttosto, mi limito a richiamare una parte dell’intervento di Dinoia, dicendo subito che se io gli ho suscitato l’impressione di fare il pubblico ministero, egli mi è parso viceversa un difensore persino eccessivo dei pur valorosi magistrati con i quali si è trovato a interagire. Un punto soprattutto mi ha colpito e – confesso – in qualche misura inquietato o turbato che dir si voglia, ed è stato in particolare quando Dinoia ha toccato il noto e controverso tema della figura dell’avvocato cosiddetto accompagnatore: tale fu allora definito – lo esplicito a eventuale beneficio dei più giovani lettori – il difensore che accompagnava gli assistiti in procura consigliando loro di fare dichiarazioni confessorie e di collaborare con la giustizia, allo scopo di evitare o interrompere la custodia cautelare in carcere e/o di poter anche ricevere un trattamento punitivo finale complessivamente meno sfavorevole. Nel ribadire con forza la sua convinta condivisione di questo tipo di approccio difensivo, Dinoia ha rilevato che non era soltanto in gioco il prevalente interesse del cliente inquisito. Egli ha aggiunto una supplementare motivazione di fondo, e cioè che suggerendo di collaborare il difensore evitava di farsi complice di un sistema criminale di grave e diffusa corruzione. Insomma, è come se all’impegno etico-politico dei magistrati di contrastare il fenomeno generale della corruzione sistemica si aggiungesse – mutatis mutandis – una complementare analoga preoccupazione etico-politica di alcuni avvocati di adottare modalità difensive utili al perseguimento di un medesimo obiettivo finale. Orbene: è deontologicamente legittima, e compatibile con i principi del giusto processo, questa finalizzazione lato sensu politica della difesa tecnica a scopi collaborativi in funzione di lotta alla criminalità?
È, questo, un interrogativo che meriterebbe forse ulteriori riflessioni. Come studioso privo di significative esperienze di avvocato, la prospettiva di una difesa collaborativa mi richiama alla mente la problematica per certi aspetti simile storicamente affiorata più volte – e non a caso – nei processi (oltre che di criminalità terroristica) di criminalità mafiosa. Mi limito ad accennare, ad esempio, ad alcune vivaci polemiche sorte sul finire degli anni ’20 del Novecento tra la procura palermitana in quel tempo capeggiata da Luigi Giampietro (un agguerrito magistrato di cultura autoritario-statalista e di inclinazione molto repressiva), impegnato nei processi scaturenti dalla energica campagna antimafia del famigerato prefetto Cesare Mori, e gli avvocati penalisti di Palermo decisamente contrari alla figura dell’avvocato difensore concepito come “ausiliare della giustizia”, secondo una teorizzazione elaborata appunto col proposito politico (infine fallito) di “fascistizzare” la professione forense (cfr. A. Blando, L’avvocato del diavolo, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, 2008, 53 ss.). Certo, c’è non poca differenza, non solo di contesto storico ma anche ideologica, tra questa torsione autoritaria in chiave fascistica del ruolo dell’avvocato e quanto sostenuto da Dinoia. Ma temo che il rischio di implicazioni autoritarie poco compatibili con un ordinamento liberaldemocratico sia – a ben vedere – sempre insito in ogni concezione (per quanto benintenzionata e motivabile con ragioni politiche anche intenzionalmente ‘di sinistra’ o ‘progressiste’) della difesa penale come attività volta altresì a scopi collettivi, che come tali trascendono l’esigenza di assicurare, ai singoli indagati e imputati, l’osservanza più piena possibile dell’insieme delle garanzie previste dalla normativa penale e processuale e oggi integrate dal costituzionalismo penale nazionale ed europeo.