Questa breve riflessione vuole essere un contributo al dibattito che si è sviluppato dopo i tragici fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Con ancora negli occhi le immagini terribili delle videoriprese di quanto è accaduto all’interno dell’istituto penitenziario casertano, è importante, prima di ogni altra considerazione, riconoscere le esatte dimensioni della gravità e portata di quanto accaduto. La sensazione, infatti, è che non si tratti affatto di un episodio isolato, ma della parossistica manifestazione di una crisi profonda dell’istituzione carceraria che ha a lungo covato sotto le ceneri dell’indifferenza di chi avrebbe dovuto provvedere e dell’ipocrisia della politica. È soltanto resistendo alla tentazione minimizzante di trattare i fatti sammaritani come – appunto – un episodio, pur grave, ma isolato, che si conserverà la prospettiva corretta per riconoscere l’esistenza di un problema sistemico interno alle carceri e interrogarsi con la necessaria lucidità su quali interventi siano possibili e necessari per evitare che simili accadimenti non abbiamo più a ripetersi.
Quanto è successo nel carcere di S. Maria ha una portata devastante per tutti i protagonisti di questo dramma: anzitutto per le vittime primarie delle violenze, cioè le persone detenute. Ma colpito al cuore è anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al quale da molte parti viene imputato l’insufficiente impegno di fronte al verificarsi di un episodio così distruttivo per l’immagine stessa del Dipartimento e per lo Stato di diritto. Certamente, è necessario interrogarsi sulle criticità che stanno alla base di quanto accaduto, su cosa non abbia funzionato nella catena di comando, dei motivi che hanno reso possibile un atto organizzato di natura tanto brutale ed eversiva dei princìpi costituzionali – come ha affermato la Ministra Cartabia – senza che nessuno abbia presagito quanto stava per accadere e non vi abbia posto adeguato freno. Infine, ne esce a pezzi la credibilità di un’istituzione cardine dell’ordine pubblico interno alle carceri. La Polizia penitenziaria, tra i cui appartenenti è montato nel tempo – sordo e colpevolmente inascoltato – un sentimento di frustrazione e rabbia per le sempre più difficili condizioni di lavoro, le carenze di organico e le gravi situazioni locali che gli appartenenti al Corpo si trova, spesso senza strumenti adeguati, a dover gestire quotidianamente, con assunzione diretta dei correlati rischi e responsabilità. È così assurdo pensare che una rabbia e una frustrazione così a lungo represse possano alla fine scaricarsi in forme di una violenza talmente cieca e brutale che ha più della disperazione che della lucida premeditazione?
Di fronte a questi scenari, si possono realisticamente immaginare interventi e riforme che possano porre un argine al ripetersi degli obbrobri che i telegiornali della sera hanno scaraventato nelle case di cittadini attoniti nell’assistere alla violenza istituzionale che macchia indelebilmente divise altrimenti degne di rispetto?
Provo a stendere una “lista della spesa” di quello che potrebbe essere concretamente fatto:
1) Un primo problema è certamente rappresentato dalle condizioni materiali di detenzione che attualmente tristemente connotano la maggioranza degli istituti di pena italiani. Molti di essi sono in condizioni strutturali inadeguate e deplorevoli (in alcuni istituti i bagni sono ancora “alla turca”, le stanze di pernottamento anguste e insalubri, gli impianti di riscaldamento spesso non sono adeguati e mancano sistemi di raffrescamento degli ambienti nei mesi estivi; gli spazi per le attività trattamentali sono insufficienti e privi di dotazioni, le salette per i colloqui con i familiari e gli avvocati lasciate in stato di degrado). La Commissione “Zevi”, istituita per proporre soluzioni in materia di edilizia penitenziaria, sta licenziando i propri lavori e sarà a breve disponibile una relazione finale con proposte che potranno rappresentare una preziosa fonte di indicazioni per interventi sul fronte del miglioramento delle condizioni materiali di detenzione. Oltre all’aumento dell’offerta dal punto di vista della capienza degli istituti (anche per evitare il proliferare dei ricorsi per violazione dell’art.3 CEDU) è altrettanto necessario rendere umanamente più vivibili le strutture in cui vivono forzatamente sia i detenuti che gli agenti di polizia penitenziaria, tutti con-dannati alle stesse degradate (e degradanti) situazioni ambientali, che hanno una forte incidenza nella genesi della violenza e negli atti repressivi che puntualmente le seguono. Se – come ormai è acclarato – ambienti deteriorati dal punto di vista architettonico e ambientale influenzano negativamente i comportamenti sociali degli individui, un vero e proprio “Piano Marshall” per la ristrutturazione e messa a norma degli istituti penitenziari deve costituire una priorità per disinnescare la spirale di violenze, con l’impiego di adeguati finanziamenti e procedure semplificate per il rapido affidamento degli appalti dei lavori. L’esperienza del Ponte Morandi può servire anche a costruire ponti di civiltà verso le nostre carceri.
2) La seconda, perdurante, criticità è costituita dall’endemico sovraffollamento degli istituti penitenziari. È fin troppo chiaro che condizioni di detenzione caratterizzate da eccessive presenze uccidono nella culla ogni tentativo di recupero dei soggetti detenuti, ai quali – in assenza di valide e realistiche prospettive di accesso ai benefici penitenziari – spesso non resta che la resa alle proprie fragilità, personali e culturali, e la scelta del “tanto peggio, tanto meglio”. Senza ricorrere a scorciatoie di dubbia opportunità e ancor più incerta fattibilità politica, quali l’amnistia o l’indulto, è necessario allora rivitalizzare e sviluppare l’esecuzione penale extramuraria. Una tale prospettiva dovrebbe comprendere, in una visione organica e complessiva del sistema, la predisposizione di nuove forme di uscita meritata dal processo; l’introduzione di nuove tipologie di pena non detentiva, comprese sanzioni ispirate alla giustizia riparativa; l’implementazione delle misure alternative alla detenzione in fase esecutiva, la riforma organica delle misure di sicurezza. Tale prospettiva non appare affatto in contraddizione con l’esigenza che le pene siano dotate della necessaria effettività: nulla vieta di esigere, a fronte di una accresciuta possibilità di accesso ai benefici esterni al carcere, più stringenti obblighi riparatori e riparativi in capo ai condannati (che possono ben comprendere lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, forme di risarcimento del danno, frequenza di corsi di educazione alla legalità, etc.). In questa prospettiva, i lavori delle Commissioni ministeriali “Giostra” e “Pelissero” – e da ultimo anche della Commissione “Lattanzi” – rappresentano un patrimonio di proposte cui immediatamente attingere per una riforma dell’esecuzione penale e penitenziaria che riporti dignità e umanità all’interno delle strutture penitenziarie.
3) Il terzo problema riguarda le risorse umane dedicate ai trattamenti rieducativi dei detenuti. È chiaro che pretendere che il carcere possa effettivamente costituire quella fucina di nuovi cittadini rispettosi della legalità voluta dalla Costituzione senza irrobustire il percorso trattamentale dei detenuti delle necessarie professionalità, soprattutto dell’area educativa, resterebbe un auspicio – nella migliore delle ipotesi – quantomeno illusorio. È dunque necessario prendere coscienza della necessità di implementare e valorizzare il ruolo degli educatori. La stessa attenzione dovrebbe essere, altresì, dedicata ai servizi di supporto psicologico all’interno degli istituti. Proprio quello che la Commissione “Giostra” aveva proposto e che è stato puntualmente disatteso dal legislatore… L’evidenza dell’esponenziale aumento della domanda di assistenza psicologica dovrebbe spingere, in particolare, ad un intervento in tempi rapidi per potenziare il servizio psicologico intra moenia, che possa fungere anche da centro di ascolto delle tensioni che possono maturare nelle sezioni detentive, contribuendo a disinnescarne gli effetti.
4) Il quarto punto riguarda il profilo istituzionale. La profonda crisi che (lo si ribadisce: non da oggi) ha investito il sistema penitenziario pone una rilevante questione relativa alle garanzie del rispetto dei diritti fondamentali nelle carceri. Dai primi resoconti, pare che alcuni degli agenti coinvolti gridassero all’indirizzo dei detenuti: “qui non ci sono i giudici, lo Stato siamo noi!”, come a dire che nessuno avrebbe potuto difenderli e che, in quel posto, comandavano loro. Il problema che si pone, allora, è di assicurare ad ogni livello che – invece – un giudice ci sia sempre, non solo per sanzionare a posteriori eventuali condotte illecite, ma anche e soprattutto per essere garante della legalità. Un tale obiettivo, per avere qualche possibilità di successo, deve certamente prevedere un controllo esterno, ma soprattutto un presidio interno alla stessa istituzione. Quest’ultima esigenza chiama in causa un profilo delicato. Si intende alludere alla tradizionale preferenza che, nella scelta dei vertici del DAP, viene tradizionalmente riservata ai magistrati inquirenti, preferibilmente se provenienti dalle DDA o dalla PNA. L’idea che sta alla base di una tale opzione è quella che i magistrati “antimafia” meglio degli altri potrebbero “leggere” i segnali che provengono dal mondo del carcere (in particolare dalle sezioni “41-bis” e “alta sicurezza”) e utilizzare le informazioni acquisite per scopi investigativi e di prevenzione soprattutto del crimine mafioso. Ebbene, si deve riflettere sul fatto che un carcere rispettoso della Costituzione – dunque volto all’obiettivo costituzionale della rieducazione delle persone condannate – non può essere ridotto a mero ingranaggio della macchina investigativa bensì deve recuperare il ruolo di motore del recupero sociale che la Costituzione assegna all’esecuzione della pena. A fronte dei gravissimi fatti che continuano a sfregiare la Costituzione e della violazione dei diritti fondamentali dei ristretti, non sembra fuor di luogo pensare che ai vertici dell’istituzione penitenziaria possano essere collocati anche giudici, soggetti istituzionalmente terzi ed estranei sia all’amministrazione dell’interno che alla pubblica accusa: giudici appartenenti alla magistratura di sorveglianza, in grado di rappresentare – sia per la posizione istituzionale (la magistratura di sorveglianza è, infatti, come afferma l’art.69 dell’Ordinamento penitenziario, l’autorità preposta alla tutela dei diritti dei reclusi) che per la specifica esperienza professionale e la profonda conoscenza del contesto carcerario – un’autorità oggettivamente terza e imparziale, cioè garante dei diritti fondamentali di tutte le parti, tanto di quella pubblica, portatrice delle esigenze preventive e afferenti all’ordine pubblico, quanto di quella privata, espressione di quel mondo spesso abbandonato e dolente costituito dalle decine di migliaia di detenuti che affollano le nostre carceri. È infatti, ancora una volta, l’esperienza sul campo a dimostrare che l’approntamento di strumenti di controllo esterni (quali i reclami giurisdizionali e i rimedi compensativi introdotti dopo la sentenza Torreggiani: artt. 35-bis e 35-ter, ord. penit.) valgono ben poco laddove non si operi, invece, dall’interno dell’istituzione.
5) Il quinto aspetto critico è rappresentato dalla profonda crisi in cui versa la Polizia penitenziaria. È necessario intervenire tanto con una rifondazione ideale e motivazionale, sviluppando formazione e professionalità del Corpo attraverso stage e percorsi formativi qualificati che tendano a potenziarne la vocazione di polizia moderna e proiettata a funzioni di collaborazione attiva nell’esecuzione della pena in senso costituzionale (in questa prospettiva è possibile attuare la proposta, da tempo in discussione, di istituzione dei nuclei di Polizia penitenziaria presso gli Uffici di Sorveglianza); quanto sul versante organizzativo e di miglioramento dello status complessivo, anche sotto il profilo della carriera. Sotto altra prospettiva, se condotte illecite eventualmente accertate devono incontrare la giusta sanzione nelle sedi opportune (che non sono certo i processi mediatici, imbastiti sulla stampa o sulle tv come goffe parodie delle aule di giustizia) occorre, altresì, riconoscere che le difficili condizioni di lavoro del personale che opera all’interno delle carceri esige che lo Stato offra concrete garanzie per chi compie, in condizioni così difficili, il proprio dovere. Agli agenti penitenziari (come del resto a tutti i dipendenti pubblici che operano esposti al rischio giudiziario), lo Stato dovrebbe assicurare assistenza legale ed economica per il personale raggiunto da esposti o denunce che, anche laddove infondate e utilizzate come mero strumento di pressione o ritorsione, arrecano comunque un rilevante danno economico e psicologico a quanti le subiscono, minando alla radice la necessaria serenità di chi le subisca.
Se persone detenute o internate e personale di Polizia penitenziaria vivranno ed opereranno in ambienti dignitosi e in strutture ispirate a logiche trattamentali e non meramente custodialistiche; se gli ambienti detentivi saranno arricchiti e migliorati da dotazioni e servizi adeguati alla dignità delle persone umane; se chi vi è ristretto potrà ricorrere all’assistenza di sanitari, psicologi e di educatori che incoraggino scelte di legalità piuttosto che la permanenza in sottoculture ispirate alle ideologie criminali; se all’interno delle istituzioni si rafforzeranno le garanzie per tutti i soggetti, allora è ragionevole presumere che molte delle cause che ingenerano la violenza potranno essere disinnescate prima che degenerino in atti apertamente ostili. Se le cose saranno lasciate così come stanno, la balcanizzazione delle nostre carceri sarà un futuro annunciato che nessuno potrà imputare al fatale corso di un destino ostinatamente avverso.