La nostra Rivista ambisce a trattare i temi del diritto e del processo penale con uno sguardo esteso oltre la dimensione tecnico-giuridica (pure per noi fondamentale), rivolto anche alla giurisdizione, ed alla dimensione costituzionale ed istituzionale del suo esercizio. Per questa ragione siamo particolarmente lieti – all’indomani tra l’altro di un intenso discorso del Presidente della Repubblica sulla necessità di una rapida e profonda innovazione delle prassi istituzionali in materia di giustizia – di ospitare un contributo del prof. Gaetano Silvestri sul ruolo costituzionale del Consiglio Superiore della Magistratura, e sulla possibile riforma del relativo sistema elettorale. Il prof. Silvestri è da sempre un costituzionalista attento ai temi dell’indipendenza della magistratura e del ruolo di questa nel sistema costituzionale. Già professore di diritto costituzionale nell’Università di Messina, Rettore di quello stesso ateneo, componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura, giudice costituzionale e poi Presidente della Corte costituzionale, Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, è attualmente Presidente della Associazione italiana dei costituzionalisti.
SOMMARIO: 1. Sistema elettorale e natura del CSM. - 2. “Forza politica” e “politicità intrinseca” del Consiglio. - 3.Il sistema maggioritario. - 4. Il sistema proporzionale. - 5. Sistema proposto.
1. Sistema elettorale e natura del CSM. - Lo scopo di un sistema elettorale si deduce dalla natura costituzionale dell’organo, i cui componenti devono essere scelti con metodo democratico. Dallo scopo, a sua volta, si deduce la tecnica di trasformazione dei voti in seggi. In nessun caso è corretto costruire un sistema elettorale avendo di mira un risultato “politico” (nel senso ampio o ristretto del termine). Il risultato politico è frutto del funzionamento del sistema elettorale ed è (e deve essere!) largamente imprevedibile. Un buon sistema elettorale deve essere pensato e definito sotto un “velo di ignoranza”, nel senso, chiarito in ambito scientifico, che non si possa sapere in partenza a chi gioverà e a chi nuocerà. Purtroppo oggi in Italia le proposte – anche per il microcosmo del CSM – sono influenzate da scopi politici diretti o indiretti, avendo riguardo a contingenze di vario genere, quali, ad esempio, i rapporti tra correnti della magistratura, i rapporti tra correnti e partiti, le aspettative di gruppi di interesse, l’intento di valorizzare – o, al contrario, ostacolare – questo o quel gruppo.
Proviamo invece a seguire il metodo prima enunciato, che mi sembra più corretto dal punto di vista del diritto costituzionale.
Occorre innanzitutto prendere posizione – al fine della classificazione del CSM – nella grande dicotomia: organo politico – organo di garanzia. Posto il quesito in modo così netto, la risposta maggioritaria in dottrina è, senza dubbio, per la seconda ipotesi. Sennonché, nell’uso corrente, il Consiglio è qualificato “organo di autogoverno” e addirittura vi è stato un congresso dell’Associazione nazionale magistrati (1996) intitolato «Governo della giustizia e autogoverno della magistratura». Si potrebbe dire: due equivoci messi insieme fanno un grave errore. Chi può pretendere di “governare” la giustizia? Il Governo? Certamente no, poiché il Ministro del settore non si occupa della giustizia tout court, ma, più limitatamente, dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.), mentre il CSM non governa né la giustizia né i magistrati, ma espleta soltanto quelle funzioni che Alessandro Pizzorusso ha felicemente denominato di “amministrazione della giurisdizione”, sottratte al Ministro per garantire l’indipendenza esterna dei magistrati e non per sostituirsi a quest’ultimo in una inammissibile pretesa di direzione dall’alto.
Ma allora perché si è formato e consolidato l’equivoco originario (organo di autogoverno)?
La garanzia cui sono chiamati alcuni organi costituzionali - Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura – non è meramente custodiale-conservativa, ma, dall’avvento della Costituzione rigida del 1948, attuativa-evolutiva. La trasformazione radicale dell’intero ordinamento giuridico non è avvenuta una volta per tutte, ma si produce continuamente, per effetto della natura immanente della Costituzione medesima e della sua penetrazione molecolare in tutti i settori del sistema giuridico. A subire quindi una quotidiana metamorfosi non è soltanto il sistema normativo, ma l’insieme di atti e di prassi che coinvolge, oltre al potere legislativo, anche l’esecutivo e il giudiziario. Come notava già molti anni addietro Norberto Bobbio, i princìpi generali hanno, ad un tempo, valore delimitante e propulsivo. A maggior ragione tale effetto lo possiedono i princìpi costituzionali, che rimodellano, nelle forme e nei contenuti, sia la legis latio, sia la legis executio. Sono norme giuridiche vere e proprie - secondo l’insegnamento di Vezio Crisafulli – che vincolano sia la politica e la sua attività creativa, sia l’interpretazione e la sua attività concretizzatrice ed attuativa, in sede amministrativa e giudiziaria. Ma anche il legislatore svolge una funzione interpretativa delle norme costituzionali di principio, così come l’amministrazione e la giurisdizione, ciascuna nel proprio ambito, si ispirano direttamente alla Costituzione.
Il moto circolare che politici, amministratori e operatori di giustizia sperimentano ogni giorno fa sì che tra politica e garanzia vi siano molteplici punti di contatto, che confinano nel regno dell’utopia la netta distinzione tra organi politici e di garanzia. Non a caso l’orientamento della Corte costituzionale in favore della cosiddetta interpretazione conforme è mal tollerato da chi rimane legato a concezioni drastiche della distinzione tra diritto e politica che, a mio modesto avviso, esistono solo negli schemi teorici, ma non nella realtà degli ordinamenti giuridici. Non posso occuparmi, in questa sede, del fenomeno del c.d. attivismo giudiziario, come della produzione normativa del potere esecutivo. Mi basta aver precisato la relatività della distinzione tra la sfera politica e quella di controllo, derivante dalla natura dinamica e dall’influenza quotidiana dei princìpi costituzionali.
2. “Forza politica” e “politicità intrinseca” del Consiglio. - La consapevolezza che l’equilibrio tra i poteri dello Stato fosse anche frutto della loro integrazione reciproca, ferma restando la distinzione per prevalenza funzionale, ha indotto, già negli anni ’50, Temistocle Martines a constatare la “forza politica” degli organi costituzionali di garanzia.
Sarebbe frutto di chiusura ideologica negare che gli atti del Presidente della Repubblica, della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura (e, ad un livello diffuso, dei giudici comuni) influenzino la politica, pur non essendo inquadrabili in una attività volta ad attuare un programma prefissato, che non sia quello emergente dalle norme costituzionali La “politica” del CSM riguarda la razionalizzazione del suo modus operandi in rapporto alla finalità generale della migliore tutela dell’indipendenza della magistratura, nel quadro dell’ordinamento giudiziario vigente. Quello che potremmo chiamare “indirizzo politico-giudiziario” rimane confinato non soltanto nei limiti della materia dell’amministrazione della giurisdizione, ma esclude in modo radicale il perseguimento di programmi prefissati nell’esercizio della funzione giurisdizionale. D’altra parte, esso si iscrive all’interno di quello che Paolo Barile chiamava “indirizzo politico-costituzionale” - ben distinto dall’indirizzo politico di maggioranza - dal Maestro fiorentino riferito principalmente al Capo dello Stato, non a caso collocato dalla Costituzione alla presidenza del CSM. Politica non significa, su questo versante, schieramento sistematico di parte, ma, al contrario, confronto volto all’individuazione della più regolare, coerente ed efficace prassi attuativa delle norme costituzionali e legislative. Se questa “politica” in senso peculiare fosse stata sempre prevalente nel Consiglio, forse le correnti non si sarebbero trasformate in macchine spartitorie di posti e benefici, favorite, in questa loro disdicevole tendenza, da accordi slegati da ogni considerazione generale, che non sia di pura accumulazione del potere, anche in collegamento con la politica partitica, che avrebbe dovuto invece rimanere fuori dall’organo di garanzia.
Rimane saldo pertanto il primato della legislazione parlamentare, giacché solo a quest’ultima spetta la responsabilità della scelta tra più strade attuative dei medesimi princìpi costituzionali. Il popolo che si dà una Costituzione rigida e garantita esprime la sua sovranità storica, che prevale sulla volontà contingente di transeunti maggioranze politiche, rese oggi ancor più fluttuanti dalla crisi rovinosa dei partiti politici, come dimostrano vicende recenti e ancora attuali.
Alla luce di quanto detto sopra, si comprende meglio il profondo significato della “politicità intrinseca”, che Paolo Barile attribuiva al CSM, organo sì di garanzia e non di governo, ma il cui rilievo costituzionale non deriva dalla natura degli atti, oggettivamente eterogenei – per lo più amministrativi, ma anche giurisdizionali, come quelli della Sezione disciplinare – bensì dalla particolare natura dei soggetti amministrati. Il loro status deve essere sottratto al potere esecutivo, per tutelarne l’indipendenza, che il Costituente ha voluto rafforzata rispetto a tutti gli altri pubblici dipendenti. Le ricadute – non le finalità! – politiche dell’attività giudiziaria sono troppo evidenti, per doverle dimostrare. Ne consegue che l’organo incaricato di mantenere integra la loro indipendenza abbia una sua “politicità intrinseca” deducibile anche percorrendo a ritroso la scala delle legittimazioni istituzionali nel complicato sistema di pesi e contrappesi di una democrazia pluralista.
Il CSM ha un rapporto diretto con la legge, non mediato dall’Esecutivo. Con il Ministro della giustizia esiste una continua collaborazione su basi paritarie, nell’ambito delle rispettive funzioni, definite, nelle loro linee generali, dagli artt. 105 e 110 della Costituzione. Di qui la piena legittimità, anzi la doverosità, di quella che viene impropriamente denominata attività “paranormativa”, collegata all’attuazione delle norme legislative dell’ordinamento giudiziario. Come potrebbe quest’attività non avere “politicità intrinseca”? Per quanto dettagliate, le norme legislative di ordinamento giudiziario lasciano margini considerevoli di discrezionalità, non in violazione della riserva di legge in materia, ma per limitare la discrezionalità attuativa, che altrimenti, negli spazi lasciati liberi dalla legge, rischierebbe di degenerare, come accennavo prima, nell’arbitrio del caso per caso. La discrezionalità del Consiglio può essere ampliata o ridotta soltanto dal legislatore e moderata nella prassi dal Presidente della Repubblica, nei limiti consentiti dal principio della separazione dei poteri. In caso di dubbio e conseguente conflitto, può essere chiesto l’intervento chiarificatore della Corte costituzionale, come più volte è già accaduto.
3. Il sistema maggioritario. - Sulla base delle premesse generali enunciate nei paragrafi precedenti, è preferibile, per il CSM, un sistema elettorale maggioritario o proporzionale?
Per dare una risposta meditata a questa domanda, occorre ripercorre quanto si è detta sulla specifica “politicità” del Consiglio. Se si condividono quelle considerazioni si arriva alla conclusione che non ci troviamo di fronte né ad un organo costituzionale politico, come Parlamento e Governo, né ad un organo meramente tecnico-amministrativo, ancorché nobilitato dall’appellativo di “alta amministrazione” (“inutile complimento” diceva ironicamente Pizzorusso).
Gli studiosi della materia sanno che il sistema elettorale maggioritario è finalizzato alla stabilizzazione degli esecutivi o comunque alla formazione di maggioranze solide, in grado di durare tendenzialmente per una intera legislatura. Come è evidente, nel CSM non si formano esecutivi di governo – tale non potendo essere definito il Comitato di presidenza – e quindi ottenere maggioranze stabili a questo fine non avrebbe senso.
Se pensiamo poi, indipendentemente dalla formazione di un governo, ad un confronto stabile, ordinato e sistematico tra maggioranza e opposizione, ben delimitate e schierante su fronti contrapposti, ciò potrebbe essere, secondo alcuni, un bene per un parlamento rappresentativo della collettività dei cittadini, ma mi sembra senz’altro un male per l’organo di garanzia della magistratura. Mentre i criteri orientativi degli atti amministrativi dovrebbero essere ragionevoli, coerenti e imparziali – e quindi ben venga un indirizzo politico metodologico - le singole decisioni dovrebbero, al contrario, essere frutto di valutazioni derivanti dalla considerazione del singolo caso, alla luce di criteri pre-stabiliti, ma al di fuori di ogni vincolo di schieramento. Per la giustizia disciplinare valgono i princìpi comuni della giurisdizione.
Se questo è il risultato auspicabile, a che servirebbero al CSM una maggioranza e una minoranza precostituite dagli elettori come blocchi contrapposti e stabili, potenzialmente per tutta la durata del mandato? Verrebbe meno la principale ragion d’essere del sistema maggioritario. Peraltro si andrebbe dritti verso il “parlamentino” dei giudici, aborrito stranamente proprio da molti sostenitori del maggioritario. Questa “parlamentarizzazione” dell’organo di garanzia si verificherebbe, per di più, senza attenuare la forza di condizionamento delle correnti, come dimostrano le recenti esperienze.
Solo un maggioritario esclusivamente individualistico – simile a quello del Parlamento liberale ottocentesco – potrebbe (solo in teoria!) evitare l’effetto di blocchi di potere. Ciò però richiederebbe l’inesistenza di correnti organizzate, che è invece il risultato che si vorrebbe ottenere. Il cane si insegue la coda: si vuole ottenere ciò che sarebbe indispensabile per ottenerlo.
Il sistema maggioritario sembra inadatto al CSM anche nella sua versione a doppio turno. Tra il primo e il secondo turno ci sarebbe spazio per accordi “strategici” tra le correnti, volti a creare proprio quei blocchi stabili auspicabili soltanto per le assemblee politiche divise in maggioranza e opposizione. Al contrario, nel CSM non devono esistere una maggioranza ed un’opposizione precostituite e stabili, ma una proiezione del più ampio numero di opzioni culturali e ideali – posti i requisiti tecnici richiesti direttamente dalla Costituzione - situazione che, per definizione, il sistema maggioritario tende ad escludere o, comunque, a non prendere in considerazione, per privilegiare invece la “governabilità”.
Anche nell’ipotesi – assai poco probabile – che da un sistema maggioritario parcellizzato in collegi piccoli e numerosi provenissero candidati del tutto privi di collegamenti correntizi, si avrebbe il risultato di una assemblea di “notabili”, non certo impermeabile ad accordi ancor meno trasparenti e decifrabili, perché personalistici, di quelli attuali tra le correnti. Si pensi all’esperienza storica del trasformismo dei parlamentari italiani dell’Ottocento, prima dell’avvento dei grandi partiti di massa. Si pensi al Parlamento inglese del XVIII e XIX secolo, dove un ruolo rilevante veniva svolto dalla “bribery”, mediante la quale si potevano condizionare, secondo precisi interessi, collocazioni dei deputati, pronti a farsi convincere uno ad uno, e quindi contingenti decisioni.
4. Il sistema proporzionale. - I sistemi proporzionali sono più adatti a proiettare nell’assemblea ideali, culture e interessi diversi. Nella versione per liste concorrenti – specie su scala nazionale – gli stessi hanno tuttavia l’effetto, certo non desiderabile per il CSM, di politicizzare in modo estremo la competizione elettorale, mettendo in primo piano i partiti – nel nostro caso, le correnti – ed oscurando la personalità dei candidati, la cui maggior virtù sarebbe la fedeltà all’organizzazione di appartenenza. Sono più facili i processi degenerativi indotti dalla scarsa indipendenza degli eletti e dalla pratica irrilevanza delle loro doti intellettuali, culturali e morali.
Il sistema assicura maggiore visibilità ai partiti (rectius alle correnti) e minore incidenza alla qualità delle persone.
Potrebbe accadere pertanto che le scelte dell’organo collegiale siano nelle mani di pochi individui (nel nostro caso, capi delle correnti, anche al di fuori del consesso elettivo).
In campo politico-partitico, si è tentato di impedire o, quanto meno, attenuare, gli effetti negativi del proporzionale con innesti, variamente concepiti, con il maggioritario: si veda, ad esempio, la “legge Mattarella”, sinora il migliore tra tali tentativi. I risultati però non sono stati quelli sperati. Se per le elezioni politiche il problema è quello di trovare un equilibrio tra rappresentatività e governabilità, nelle elezioni per il CSM il problema è invece quello di dare la massima rappresentatività ai singoli eletti, evitando tuttavia la “balcanizzazione” dei collegi e la pratica irrilevanza delle singole personalità.
In ogni caso, il concetto di “rappresentanza” mal si concilia con la natura e il ruolo del CSM. Tra l’altro, manca una norma, come l’art. 67 Cost., sul divieto di mandato imperativo.
In definitiva, né rappresentanza di volontà, né rappresentanza di interessi. Come si è tentato di argomentare prima, la “politicità intrinseca” del Consiglio è del tutto peculiare e presenta, come si accennava prima, una natura e un ruolo prettamente metodologici.
5. Sistema proposto. - Da molti anni vado ripetendo che la sintesi più felice tra le diverse esigenze di “rappresentazione” delle opzioni ideali e culturali presenti nell’ordine giudiziario, da una parte, e la visibilità dei singoli candidati e quindi dei loro pregi e difetti dall’altra, potrebbe essere il sistema in vigore per il Senato della Repubblica sino all’avvento del maggioritario, con gli adattamenti resi necessari da una sua possibile diversa utilizzazione.
Se si prende come base la recente proposta di aumentare sino a trenta il numero dei componenti elettivi del CSM (venti “togati” e dieci “laici”) si potrebbe dividere il territorio nazionale in diciotto collegi elettorali uninominali. Ad essi si potrebbe aggiungere un collegio binominale, riservato ai magistrati della Corte di cassazione e della Procura generale presso di essa.
Le candidature dovrebbero essere individuali, senza alcun contrassegno di lista o di gruppo, a differenza di quanto avveniva per il vecchio Senato. Ciascun candidato dovrebbe fare dichiarazione di collegamento con almeno altri due candidati di altri collegi. I voti conseguiti da tutti candidati sarebbero sommati, sul piano nazionale, con quello degli altri con cui ciascuno avrebbe fatto dichiarazione preventiva di collegamento.
I seggi disponibili sarebbero distribuiti tra i vari gruppi di candidati collegati mediante il sistema proporzionale, metodo d’Hondt. Come è noto, questo metodo, che non produce resti, evita la frantumazione estrema degli eletti. All’interno dei singoli gruppi, risulterebbero eletti i candidati percentualmente più votati, non i più votati in assoluto, allo scopo di tutelare anche le minoranze territoriali e di valorizzare il peso dei candidati all’interno dei loro collegi, in comparazione con gli altri dello stesso gruppo.
Secondo questa proposta, non vi sarebbero collegi troppo grandi, che incentivano la politicizzazione pura e il potere delle correnti, né troppo piccoli, che provincializzano la composizione del Consiglio e favoriscono il notabilato locale. Le correnti continuerebbero ad avere un loro ruolo – da non demonizzare frettolosamente – senza però monopolizzare il processo elettorale, giacché la possibilità di ciascun candidato di collegarsi con due soli altri candidati sul piano nazionale consentirebbe aggregazioni di minori dimensioni, anche del tutto nuove, al di fuori delle esistenti correnti organizzate. Tali nuovi gruppi potrebbero avere qualche possibilità di successo. Come si è già detto, non vi sarebbe una prevalenza assoluta del numero – che favorisce i candidati sorretti da grandi organizzazioni correntizie di dimensioni nazionali – giacché sarebbero eletti i candidati percentualmente più votati. Prevarrebbe pertanto l’intensità relativa del consenso, rispetto alla sua consistenza puramente aritmetica.
Il collegio uninominale esclude la caccia alle preferenze, ma, nella proposta che precede, non escluderebbe, a sua volta, una composizione pluralistica del Consiglio. Il numero dei presentatori non dovrebbe essere né troppo alto, né troppo basso (da dieci a trenta), allo scopo di evitare candidature eccentriche o schiaccianti dimostrazioni di forza.
Potrebbe essere attribuita all’elettore la facoltà di dare un secondo voto, purché a candidatura di genere diverso dal primo. Nell’ipotesi di inesistenza nel collegio di candidati di entrambi i generi, l’elettore potrebbe, se volesse, dare il proprio secondo voto ad una candidatura di altro collegio.
Continuo a riproporre, senza successo, questo sistema dal 1997. Ha troppi difetti o troppi pregi?