Opinioni  
11 Maggio 2020


Il cigno nero del processo penale


Sergio Lorusso

1. Ha l’effetto di uno shock sul nostro processo penale il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (cd. “decreto Cura Italia”), convertito con modificazioni nella l. 24 aprile 2020, n. 27, recante Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi, entrata in vigore lo scorso 30 aprile.

L’ampliamento a trecentosessanta gradi del dibattimento a distanza, trasformato ormai in processo a distanza, ha quasi il sapore di un’evangelizzazione digitale del sistema processuale penale e delle sue dinamiche procedimentali, o comunque di una sua avanguardia, si presenta come uno snodo irreversibile tipico di quei passaggi – talora silenti – che segnano la transizione da un’età ad un’altra.

Quella riforma epocale più volte impropriamente evocata negli ultimi decenni a mo’ di spot politico-elettorale da tanti governi sembra concretizzarsi all’improvviso – seppur ancora in nuce – fra le pieghe di un testo normativo nato per tutt’altri scopi, in seguito ad un’emergenza globale che ha colto tutti impreparati. Un testo passato per lo più inosservato – se si esclude l’universo circoscritto degli addetti ai lavori – stante la polarizzazione dell’opinione pubblica sulle vicende drammatiche di una pandemia senza precedenti, almeno da un secolo a questa parte. Il processo penale come noi lo conosciamo e i suoi addentellati fatti di principi (e di regole) costituzionalmente sanciti è stato travolto da un’onda anomala che ben difficilmente si ritrarrà senza lasciare segni del suo fluire.

Il cigno nero – quell’evento imprevedibile (rectius, a prevedibilità retrospettiva), raro e di enorme impatto secondo la visione di Nassim Nicholas Taleb[1] – ha investito anche il nostro processo e non si può ignorare quanto accaduto: occorre prenderne atto, valutarne le conseguenze, ipotizzare possibili rimedi al suo inatteso comparire che coniughino l’uso (ormai ineludibile) dei mezzi tecnologici con le garanzie costituzionali. Altrimenti, si rischia di abdicare senza condizioni cedendo lo scettro della giustizia penale al “mondo nuovo” senza colpo ferire.

 

2. La l. 27 del 2020, dunque, delinea un archetipo di processo penale a distanza che muta le stesse fondamenta del processo “smaterializzato”, finora coincidente essenzialmente con il concetto di dibattimento a distanza (peraltro soggettivamente circoscritto a determinate categorie di persone, accomunate dal vincolo dello status detentionis).

Un’espansione significativa degli atti e delle udienze espletabili con tali modalità, da un lato. E dei soggetti che di tale modalità possono essere i destinatari, dall’altro. Come vedremo meglio tra un attimo. Quindi, dell’ambito oggettivo e di quello soggettivo della virtualità del processo, nel quale la dimensione fisica del suo svolgimento cede il passo a quella veicolata tecnologicamente perdendo la valenza prioritaria e per certi versi ineludibile tradizionalmente attribuitale.

Ma anche – aspetto finora trascurato – un mutamento dello stesso assetto spaziale dell’udienza celebrata a distanza che, a differenza di quanto fino ad oggi è accaduto, non prevede più un “luogo” naturale del processo cui si aggrega uno spazio “altro” delocalizzato (differente dal primo) nel quale quel soggetto o parte processuale protagonista della partecipazione a distanza si trova. Uno scenario, questo, da cui emerge una disparità di trattamento (potenzialmente discriminante) tra chi è presente fisicamente nell’aula d’udienza (tutti i soggetti e le parti processuali, tranne l’interessato) e ha quindi la possibilità di interagire mediante modalità standard con tutti i soggetti e le parti processuali tranne quelli collegati a distanza, senza dover quindi rinunciare alla fisicità se non rispetto a quella fetta di udienza delocalizzata, e chi invece a quell’udienza partecipa “da remoto”[2], relegato in uno spazio diversificato dal quale osserva e partecipa alla porzione – nettamente prevalente – di udienza dibattimentale “fisica” centralizzata.

Qui sembra piuttosto di trovarsi di fronte – per mutuare un’immagine propria dei diagrammi adoperati in statistica – ad una torta equamente diffusa tra i vari partecipanti all’udienza o all’attività interessata, le cui fette concorrono a formare il tutto (almeno tendenzialmente) a parità di condizioni quanto a modalità percettive e comunicative. Nella sede usualmente deputata allo svolgimento dell’udienza vi era originariamente solo un ausiliario del giudice, quindi un soggetto del tutto estraneo rispetto alle dinamiche procedimentali impegnato nella documentazione dell’attività espletata, cui un legislatore ondivago ha aggiunto – a pochissimi giorni dalla promulgazione della l. 27 del 2020 – il giudice (art. 1 lett. c) del d.l. 30 aprile 2020, n. 28). Una modifica che ha una valenza simbolica, ma che non muta la sostanza del nuovo processo a distanza. Il fulcro, se vogliamo considerare tale l’aula d’udienza, è il centro virtuale di una costellazione costituita dall’insieme di soggetti e parti processuali, ciascuno dislocato in una postazione “remota”. Continuano ad essere infrante quindi le classiche coordinate spazio-temporali dell’udienza (ed in ispecie di quella dibattimentale), viene meno la sua unità di tempo e di luogo. Con la correzione introdotta si vuole salvaguardare l’immagine della giustizia, l’autorevolezza dell’organo giudicante che ne è la massima espressione, sottraendolo ad una dimensione “domestica” che certo stride con la rappresentazione usuale della macchina processuale. Ma nulla di più.

Il nuovo modello disegnato dal legislatore – nonostante le modifiche conseguenti alla decretazione d’urgenza – può essere definito a “smaterializzazione diffusa”, poiché, in realtà, non c’è un centro della scena cui si aggrega una propaggine bensì è la stessa scena a frammentarsi in più segmenti delocalizzati, nessuno dei quali può essere considerato – fermi restando, ovviamente, i poteri e le competenze di ciascuno che rimangono inalterati nella conduzione dell’udienza o nell’effettuazione di un atto – il centro fisico dell’attività processuale in corso di svolgimento. E ciascuno si trova nella medesima situazione, distanziato dagli altri protagonisti dell’udienza. Il giudice, certo, torna a sedere nella sua classica posizione nell’aula d’udienza, ma quell’aula vuota e silenziosa, animata soltanto dalla luce riflessa dei vari collegamenti, è lontana anni luce dall’aula d’udienza che conosciamo.

Potremmo anche definirla “delocalizzazione diffusa”, che evidentemente non è la stessa cosa rispetto al meccanismo di dibattimento a distanza finora conosciuto ma qualcosa di strutturalmente diverso. La differenza è importante e non è da sottovalutare, per le ricadute ipotizzabili in tema di parità delle armi (intesa nell’accezione di identità o meno delle potenzialità concesse dallo strumento tecnologico ai vari attori del processo).

Si amplia, come si diceva, l’ambito oggettivo del distanziamento processuale.

Il nuovo corso del processo a distanza – seppur pensato in chiave emergenziale e temporanea – consente di operare con tali modalità per una serie di atti e attività che vanno dalle prime battute della fase investigativa alla deliberazione della sentenza, fino a raggiungere il procedimento innanzi alla Corte di cassazione.

In particolare, si prevede la possibilità per il pubblico ministero e per il giudice delle indagini preliminari di compiere nel corso della fase procedimentale in modalità a distanza atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e del difensore, nonché di consulenti tecnici, di esperti o di altre persone, qualora la loro presenza fisica non possa «essere assicurata senza mettere a rischio le esigenze di contenimento della diffusione del virus COVID-19» (art. 83 comma 12-quater). Una previsione ad ampio spettro, tesa a preservare la prosecuzione delle indagini preliminari nel corso dell’emergenza pandemica. L’alternativa, difatti, sarebbe stata quella di “congelare” per un periodo di tempo determinato ma suscettibile di proroga (vista l’imprevedibilità dell’evoluzione dell’emergenza sanitaria) le indagini preliminari, con intuibili ricadute – potenzialmente irreversibili – sulla loro completezza ed efficacia. Di fatto, pressoché ogni atto riferibile alla fase procedimentale può svolgersi in tale modalità – con le specificazioni contenute nella norma relative al luogo in cui deve trovarsi l’interessato e alle forme partecipative di cui può avvalersi il difensore –, abbia esso una valenza investigativa o di garanzia. Esclusi, ex art. 1 lett. d) del d.l. 28 del 2020, quelli di formazione anticipata della prova a contenuto dichiarativo (salvo diverso accordo delle parti).

Si prevede poi che le udienze penali per le quali non sia richiesta «la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti» possano svolgersi in modalità a distanza (art. 83 comma 12-bis). Anche in questo caso la gamma – in origine – era piuttosto ampia, comprendendo non soltanto udienze di smistamento o dedicate all’esame di questioni procedurali e alla discussione, ma anche udienze deputate alla formazione di importanti mezzi di prova che coinvolgano esclusivamente persone che rivestono un determinato ruolo nel processo. Il ripensamento quasi istantaneo di un legislatore tentennante ha portato infatti ad escludere, da un lato, le udienze di discussione finale (in udienza pubblica o in camera di consiglio) e, dall’altro, le udienze in cui devono essere sottoposti ad esame testimoni, periti, consulenti tecnici o periti, espungendo quindi dall’udienza “smaterializzata” l’attività di formazione della prova (art. 1 lett. d) del d.l. n. 28 del 2020). Un ridimensionamento corposo, che ha recepito (tardivamente) le sollecitazioni dell’avvocatura. Si tratta però di uno sbarramento non assoluto, superabile dal consenso delle parti all’utilizzazione della modalità a distanza.

Ancora, si ricorre alle modalità telematiche qualora nei procedimenti innanzi alla Corte di cassazione ex artt. 127 e 614 c.p.p. (per i quali la norma emergenziale prescrive come regola il rito camerale non partecipato ex art. 611 c.p.p.) una delle parti private o il procuratore generale proponga richiesta di discussione orale (art. 83 comma 12-ter, come interpolato dall’art. 1 lett. e) n. 1 del d.l. n. 28 del 2020, che ha opportunamente parificato tutte la parti processuali superando l’originario dettato normativo fonte di ingiustificabili discriminazioni).

Infine, si introduce la camera di consiglio “virtuale”, che consente di assumere deliberazioni collegiali a distanza, rispetto alle quali il luogo dal quale ciascun magistrato si collega è considerato a tutti gli effetti di legge camera di consiglio (art. 83 comma 12-quinquies). Previsione anch’essa riscritta dal d.l. n. 28 del 2020, che all’art. 3 comma 1 lett. g) esclude tale possibilità nel caso in cui la deliberazione in camera di consiglio segua ad un’udienza di discussione finale (in pubblica udienza o in camera di consiglio) svolta in presenza. In sostanza, si introduce un principio di omogeneità delle forme.

In tutti i casi si rinvia ad un provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia per l’individuazione e la regolamentazione dei collegamenti “da remoto” sotto il profilo tecnico.

È evidente che non tutti questi atti e tutte queste attività hanno il medesimo peso specifico nell’economia complessiva del rito penale e che – soprattutto – ciascuno si interfaccia in maniera differente con le modalità a distanza in ragione della sua valenza, dei diritti e delle garanzie che il suo espletamento implica. A partire dalla loro collocazione nella fase procedimentale piuttosto che in quella processuale.

Tutto ciò rende più semplice sostenere la compatibilità con i canoni costituzionali (e con le relative trasposizioni codicistiche) di atti investigativi unilaterali come l’assunzione di informazioni, l’interrogatorio di persona imputata in un procedimento connesso, l’individuazione di persone e cose, meno di quelli partecipati (o tendenzialmente partecipati) come l’interrogatorio o il confronto.

Il terreno più delicato è, evidentemente, quello della formazione della prova a distanza, toccando il cuore del processo e delle opzioni accusatorie. La l. 27 del 2020, come si è visto, operava una selezione tra i vari strumenti cognitivi costituendi in ragione della loro dimensione soggettiva (rectius, della connotazione soggettiva della fonte), escludendo dal novero delle prove che potevano essere formate a distanza quelle legate alla presenza di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai loro difensori, dagli ausiliari del giudice, dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria, dagli interpreti, dai consulenti tecnici e dai periti: in sostanza, principalmente le testimonianze (se rese da soggetti diversi dagli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria) ma anche le prove come ricognizioni, confronti (tranne che tra coimputati) ed esperimenti giudiziali che richiedano la partecipazione di soggetti terzi rispetto a quelli tecnicamente definiti processuali. Vi rientravano, viceversa, l’esame delle parti, dei testimoni se agenti o ufficiali di polizia giudiziaria, dei periti e dei consulenti tecnici; nonché i confronti tra coimputati ed eventuali esperimenti giudiziali esperibili senza la presenza di persone terze.

È indiscutibile che in questi casi il contraddittorio, così come l’immediatezza, avrebbero subito dei sussulti rispetto alla tradizionale maniera di esplicarsi “in presenza”, sobbalzi nondimeno giustificabili nell’ottica emergenziale che aveva ispirato le norme in esame. Mentre la pubblicità esterna (immediata e mediata) sarebbe venuta meno. Tuttavia, la titubanza dimostrata dal legislatore, insieme ad alcuni velati intendimenti emersi nella fase di gestazione della disciplina di cui si dirà di qui a poco, devono far ritenere tutt’altro che accantonate opzioni normative in tale direzione.

Si amplia pure l’ambito soggettivo.

È questo, anzi, il primo passo compiuto dal legislatore in sede di conversione del d.l. 18/2020, che ha anticipato gli ulteriori e ben più radicali interventi appena richiamati.

Viene infranta infatti la barriera, che fino a poco tempo fa sembrava invalicabile, dello status detentionis – a vario titolo – dell’indagato, imputato o condannato cui viene negata la presenza fisica in udienza, al pari di quella relativa alla tipologia di reato addebitato al soggetto. Per effetto di un emendamento al cd. “decreto Cura Italia” poi accolto, difatti, a far data dal 9 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020 (termine poi prorogato al 31 luglio dal d.l. n. 28 del 2020, a conferma di come siano fattori non preventivabili a tenere le fila della disciplina) è possibile come detto fruire del distanziamento processuale in un ventaglio di situazioni che prescindono dalla restrizione della libertà personale dell’interessato, facendo di conseguenza cadere quei parametri che ispirano la disciplina in oggetto come riscritta dalla 23 giugno 2017, n. 103 (cd. “legge Orlando”), nei casi di partecipazione a distanza facoltativa: ragioni di sicurezza, in primis, e poi particolare complessità del dibattimento quando sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento (art. 146-bis comma 1-quater c.p.p.). È un punto a cui occorre guardare con attenzione, qualora si dovesse profilare la trasformazione in disciplina ordinaria della normativa emergenziale, non essendo tali parametri tutti replicabili – nella nuova ottica – in un contesto che prescinda dalla gravità del reato contestato o per il quale l’imputato è stato condannato.

 

3. La disciplina presenta numerose criticità.

Profili problematici dei quali si deve dar conto anche in vista di un’eventuale metamorfosi dello scenario normativo.

Indispensabile in primo luogo disciplinare per legge – e non per decreto, emesso addirittura da un esponente dei vertici ministeriali (nel caso specifico, il Direttore generale dei sistemi informativi del Ministero) – le modalità di utilizzo degli apparati tecnologici, che assumono un’intuibile centralità nella gestione e dunque nei risultati dell’atto o dell’attività processuale. Se il modus operandi adottato in ragione dell’emergenza può essere considerato per certi versi comprensibile (ma non giustificabile), risulterebbe del tutto improponibile e inaccettabile in un contesto di ordinarietà che impone il rispetto di tempi e modi propri della normazione processuale. I cd. “protocolli” e i loro presupposti, insomma, non possono essere né diventare materia amministrativa. Devono essere elaborati e graduati con attenzione all’interno delle fonti appropriate di cui l’ordinamento dispone.

In questo contesto risulta sicuramente stringata e insufficiente, nonché pleonastica nella sua genericità, l’affermazione contenuta nell’art. 83 comma 12-bis secondo cui le modalità adottate devono essere tali da salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Trattasi di garanzie costituzionali, che in alcun modo potrebbero essere eluse, si tratta di capire come debbano essere soddisfatte in concreto, e questo costituisce sicuramente un limite della disciplina legislativa, un passo falso dei conditores considerata la centralità nell’economia complessiva del processo di tali profili che richiederebbero scelte uniformi e non rimesse alla discrezionalità e alla sensibilità del singolo magistrato, con il rischio di ingenerare ingiustificate (e ingiustificabili) disparità di trattamento. Un classico caso di miopia legislativa, tollerabile soltanto tenendo presente la fretta con cui si è dovuto operare (una volta tanto, la necessità e l’urgenza erano reali e non una mera clausola di stile apposta nella premessa di un decreto-legge per giustificarne l’emanazione bypassando il confronto in Parlamento).

Fondamentale è procedere ad una graduazione degli atti e delle attività potenzialmente realizzabili a distanza, tenuto conto del loro differente peso prima evidenziato, non potendosi escludere l’introduzione di procedure differenziate in ragione degli interessi in gioco e delle priorità da tutelare.

Occorrerebbe poi pensare all’utilizzo di tale modalità – passato il periodo dell’emergenza – in maniera ovviamente non esclusiva ma integrativa di quella in presenza, sulla base del consenso delle parti e/o di parametri dettagliati – certo non di facile individuazione – che potrebbero essere legati all’urgenza del procedimento, alla sua facile risoluzione (collegata all’esiguità e alla linearità dell’istruttoria dibattimentale), alla necessità di tutelare determinati soggetti, alla difficoltà di garantire la presenza di altri. Si tratta ovviamente solo di spunti da approfondire adeguatamente e da contestualizzare.

La collegialità “virtuale” della camera di consiglio dell’organo decidente di primo acchito disorienta ma, al di là della sua dimensione necessitata in pendenza dell’emergenza da Covid-19, non appare di per sé confliggente con i canoni del processo accusatorio che la riguardano (immediatezza della decisione, segretezza della deliberazione). Quanto alla segretezza, in particolare, se in astratto sono ipotizzabili azioni intrusive (mediante hackeraggio e affini) – specie, magari, in processi delicati (come quelli per reati in materia di criminalità organizzata nei quali è possibile ipotizzare forme di pressione e di ricatto nei confronti dei decisori) – tese ad irrompere silenziosamente nella camera di consiglio “virtuale” per carpirne le dinamiche decisorie, il grado di rischio che ne deriva sotto il profilo della segretezza non appare di molto superiore a quello derivante nella camera di consiglio “fisica” da un eventuale utilizzo di strumenti di captazione (come ad es. trojan inoculati negli smartphone dei giudicanti). Operazioni complicate che presuppongono in taluni casi la conoscenza di dati personali, ma non impossibili. Se mai, il problema può essere quello della condivisione del materiale decisorio (sempre che lo stesso sia in forma cartacea).

Sono questi i principali aspetti spinosi dei quali non si può non tener conto e sui quali non si può non intervenire nel processo a distanza che verrà.

 

4. Sulla base di quali elementi si può affermare che tale disciplina costituisca in embrione un dato fondante del processo penale del futuro?

La domanda esprime il tentativo di andare al di là delle contingenze – senza consultare improbabili sfere di cristallo delle quali nessuno dispone – per guardare in una prospettiva di medio (e lungo) periodo alle sorti del nostro processo penale. Ed anche per evitare di arrivare impreparati a svolte che appaiono in qualche modo nelle cose.

Un’affermazione contenuta nell’ordine del giorno dell’esecutivo approvato il 24 aprile 2020 dalla Camera dei Deputati contestualmente alla conversione in legge del d.l. 18/2020 (AC 2463 A), che ha il sapore di un lapsus freudiano, svela del resto le intenzioni future del legislatore. Il governo, nell’impegnarsi a riconsiderare la possibilità di svolgere in modalità a distanza le udienze dedicate alla discussione e all’esame di parti, testimoni, periti e consulenti tecnici (istanza poi recepita dal d.l. n. 28 del 2020), infatti, dichiara che la nuova normativa in materia di processo a distanza costituisce una “disciplina sperimentale”[3]: affermazione che tradisce l’effettiva voluntas legis di proseguire su questa strada (indipendentemente dagli atteggiamenti pendolari mostrati). Storie di ordinaria provvisorietà, del resto, fanno parte del nostro background legislativo.

Non si dimentichi, d’altro canto, che accanto alla contrazione delle situazioni in cui si può ricorrere all’udienza “smaterializzata” il d.l. n. 28 del 30 aprile 2020 si muove in un’ottica espansiva di quella che è l’altra direttrice del processo virtuale, quella della digitalizzazione degli atti, prevedendo che il pubblico ministero possa depositare in modalità telematica – all’esito peraltro di un procedimento farraginoso che vede coinvolti il Guardasigilli e l’immancabile Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia – memorie, documenti e istanze ex art. 415-bis comma 3 c.p.p., e attribuendo analogo potere ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria per comunicare al pubblico ministero atti e documenti in modalità telematica (art. 1 lett. f) del d.l. n. 28 del 2020). Restano le perplessità per la mancata previsione di poteri simmetrici per il difensore, che avrebbe costituito un ulteriore indice di una scelta di campo in tale direzione.

L’ostracismo alla rivoluzione digitale (già iniziata con l’introduzione di forme telematiche di notificazione, comunicazione e deposito degli atti processuali) non ha molto senso, si traduce in posizioni vintage che erigono barricate destinate ad essere spazzate via senza particolare sforzo dalla realtà e dalla storia. Quest’ultima non procede per gradi, ma per scosse. E quella a cui stiamo assistendo sembra essere una di quelle scosse, destinata ad incidere su ogni aspetto della nostra vita[4].

È questo il punto dal quale occorre partire, accantonando preconcetti e sterili chiusure intellettuali. Senza dimenticare, ovviamente, il contesto in cui lo svolgimento a distanza di segmenti processuali è nato e i passaggi che hanno scandito la sua evoluzione normativa.

Il tema dell’esame a distanza, e più in generale della partecipazione al dibattimento a distanza, come sappiamo, ha suscitato fin da subito cautele e perplessità in ordine alla compatibilità degli istituti di riferimento con le garanzie costituzionali del processo penale – diritto di difesa, fair trial – e, in particolare, con i canoni del dibattimento di ispirazione accusatoria: immediatezza e contraddittorio in presenza, sotto il profilo del pieno dispiegarsi delle sue dimensioni soggettiva ed oggettiva. Ma anche pubblicità.

Da qui un atteggiamento critico pressoché concorde della dottrina, che muoveva dall’assoluta impossibilità di equiparare le due modalità di celebrazione del dibattimento (o di una sua parte) non essendo in alcun modo sovrapponibile il “processo reale” al “processo virtuale”[5]. Tra le motivazioni l’evidente inadeguatezza degli strumenti tecnologici – a quei tempi effettivamente ancora rudimentali e comunque non paragonabili a quelli (peraltro in continua evoluzione) attualmente disponibili –, che rendevano assai arduo trasmettere in maniera fedele e condividere non soltanto la voce del dichiarante (o del partecipante) ma anche, attraverso l’immagine, le sue sembianze fisiche, la sua gestualità, il suo linguaggio del corpo. Tutti elementi importanti per un corretto e accurato svolgimento di attività a contenuto probatorio di natura dichiarativa. Per altro verso, i criteri legittimanti tale scelta apparivano, da un lato, discriminanti in ragione delle tipologie di reato addebitate al dichiarante (o al partecipante) e dello status detentionis dello stesso, approfondendo il solco del doppio binario processuale, dall’altro, troppo generici nel loro fare riferimento ad esigenze di economia processuale.

Il tentativo di ottenere una sponda da parte della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, com’è noto, è risultato infruttuoso, prevalendo considerazioni di natura pragmatica in maniera implicita (per la prima) o esplicita (per la seconda).

Questo dunque lo stato dell’arte fino allo scorso marzo.

Nessun dubbio che il quadro complessivo sia profondamente mutato, anche (e soprattutto) grazie all’improvvisa accelerazione impressa dall’emergenza epidemiologica Covid-19 che ha ridisegnato il nostro rapporto con la dimensione spaziale in ogni ambito. Da quello lavorativo (smart working) a quello dell’insegnamento (didattica a distanza), giusto per fare alcuni degli esempi più eclatanti. Realtà non comparabili, certo, ma che offrono uno spaccato dello stravolgimento sociale determinatosi. Può il processo penale rimane immune a tutto ciò? Nessuno possiede poteri divinatori, ma è ragionevole pensare che difficilmente questo potrà accadere. Che il mondo della giustizia penale rimanga un’isola felice – ma poi veramente lo era fino allo scorso 9 marzo? – attraversata da un unico piccolo torrente refrattario ad ogni altro corso d’acqua nel quale dovrebbe invece naturalmente confluire appare davvero un’utopia.

Di questo, però, sono ancora in pochi ad averne consapevolezza.

L’avvocatura, nella sua massima espressione rappresentata dall’Unione delle Camere Penali Italiane, ha manifestato fin da subito forti critiche, contrapponendosi frontalmente alle scelte effettuate in materia dal governo per gestire l’emergenza giustizia determinata dal Covid-19 (e proponendo quale antidoto una limitata attività giudiziaria e rinvii brevi avvalendosi in parte della porzione temporale riservata alla sospensione feriale). Posizione comprensibile, nell’ottica degli interessi che l’Unione rappresenta e tutela, cui si è accodata parte della dottrina in maniera apertamente demolitoria dell’innovazione normativa. Con accenti, peraltro, che ingenerano confusione quando equiparano la “giustizia virtuale” alla “giustizia sommaria”[6], evocando classificazioni concettuali niente affatto comparabili sia che si voglia fare riferimento al “processo sommario” sia che si voglia invece richiamare la realtà estrema della “giustizia sommaria”. Nel primo caso, infatti, ci troviamo di fronte ad una deviazione netta dalle scansioni e dalle sequenze procedimentali ordinarie, ad una loro contrazione – o addirittura elisione – corposa (come nel classico caso del rito monitorio e della sua “condanna senza processo”, secondo la nomenclatura di Franco Cordero[7]), e di certo non ad un iter processuale che, rispettando appieno tutti i passaggi codificati, si contraddistingue rispetto al rito ordinario per le peculiarità “logistiche” nello svolgimento di singoli atti o di determinate udienze (le cui ricadute non si vuole certo ignorare ma ricondurre nel loro alveo “naturale”). Quale sia il tasso di sommarietà riscontrabile in casi come questi non è facile comprendere. Quanto alla “giustizia sommaria”, poi, la memoria storica ci riporta a vicende in cui il processo, con le sue forme, addirittura manca del tutto e viene oscurato dall’esecuzione di una pena irrogata senza alcuna garanzia – anzi, senza che un processo venga celebrato – perché sommovimenti sociali hanno messo in crisi le leve del potere o queste hanno assunto connotazioni autoritarie. Qualcosa di assai distante, insomma, dal processo nato dal distanziamento sociale. Un’iperbole, forse, quella della “giustizia sommaria”, che però non fornisce alcun contributo costruttivo all’analisi di un fenomeno nuovo e per certi versi destabilizzante e rivoluzionario.

Orbene, se è vero che accettare acriticamente tale opzione normativa significa imboccare una china potenzialmente pericolosa, in fondo alla quale si fa concreto il rischio che il processo “smaterializzato” si trasformi «in uno smart working procedurale»[8], è anche vero che adottare una visione pregiudizialmente contraria all’adozione di tali modalità vuol dire cercare di “rimuovere” una realtà chiudendo gli occhi di fronte ad un panorama inedito che non si può ignorare e con il quale invece, piaccia o no, occorre confrontarsi. Per poi cogliere magari, in tale operazione, accanto ad accenti negativi e in grado di mettere in crisi più o meno consistente gli assetti vigenti e le loro coordinate costituzionali, anche note positive che all’inizio si era dato per scontato non potessero esistere.

Naturalmente l’innovazione tecnologica non è tutto, come il guru della rivoluzione digitale Steve Jobs ci ha insegnato affermando che avrebbe barattato tutta la sua tecnologia per una serata con Socrate[9]. Ad ognuno il suo, insomma, mantenendo la “giusta distanza” tra uomo e macchine. Aprirsi al mondo digitale non significa sottovalutare i deficit strutturali della nostra macchina giudiziaria ma, piuttosto, guardare con fiducia ad un’auspicabile sinergia tra due realtà apparentemente inconciliabili.

In definitiva, non serve arroccarsi in un improbabile fortezza, perché il fossato è facilmente guadabile dal “nemico”. Sempre che qualcuno abbia voglia di farlo o non, piuttosto, di lasciare i suoi occupanti in uno splendido isolamento. Un po’ come i soldati dimenticati nell’ultimo avamposto della Fortezza Bastiani ai margini del deserto dei Tartari descritti da Dino Buzzati[10], in attesa di un nemico che mai arriverà.

Il cigno nero colpisce senza preavviso, e impone all’umanità di attrezzarsi per studiare soluzioni inedite al fine di affrontare la nuova quotidianità. Molto spesso costituisce lo strumento attraverso il quale si realizza l’affermazione di innovazioni che erano già presenti, seppur latenti, nella società e che preludono alla nascita di un “mondo nuovo”. In ogni campo. A noi il compito di far sì che ciò accada nel migliore dei modi possibili e senza strappi intollerabili con il “mondo antico”.

Ignorare l’arrivo del cigno nero, del resto, potrebbe voler dire assistere inermi al canto del cigno del processo penale.

 

 

[1] N.N. Taleb, Il cigno nero, Il Saggiatore, Milano, 2014.

[2] Sull’espressione “da remoto,” semanticamente infelice, si vedano le sferzanti considerazioni di E. Amodio, Smettiamo di storpiare l’italiano con il lugubre “da remoto”, in questa Rivista, 24 aprile 2020.

[3] Consultabile qui.

[4] Che si tratti di un fenomeno di portata globale, del resto, è attestato dall’esistenza di un sito web britannico paragovernativo dedicato alle esperienze di processo a distanza nel mondo, consultabile all’indirizzo https://remotecourts.org.

[5] Si rinvia a S. Lorusso, La mutata fisionomia della partecipazione a distanza al dibattimento e il vulnus delle garanzie difensive, in Aa. Vv., Il fragile mosaico delle garanzie difensive. Dalla legge Orlando alle scelte della XVIII legislatura, a cura di S. Lorusso, Giappichelli, Torino, in corso di pubblicazione, e ai riferimenti dottrinali e giurisprudenziali ivi contenuti.

[6] Il riferimento è al documento licenziato il 13 aprile 2020 dal direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale G.D. Pisapia,  nel quale si evoca una “giustizia sommaria” fatta di «trattamenti e pronunce, più che inaffidabili, oggettivamente e istituzionalmente ingiusti».

[7] Cfr. F. Cordero, Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 1074, che lo definisce «l’unico accertamento “sommario” ammesso dal sistema».

[8] In questi termini O. Mazza, Distopia del processo a distanza, in Arch. pen. online, 2020, fasc. 1, p 1, nell’ambito di una critica serrata delle nuove norme sotto il profilo concettuale e delle loro ricadute applicative.

[9] S. Jobs, Intervista, in Newsweek, 29 ottobre 2001.

[10] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Rizzoli & C., Milano-Roma, 1940.