Riceviamo e pubblichiamo un contributo a firma del prof. Sergio Lorusso con il quale apriamo sulla nostra Rivista un dibattito in merito alla proposta di separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero.
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La querelle sulla separazione delle carriere torna periodicamente alla ribalta, recentemente sull’onda degli intendimenti espressi della maggioranza di governo e di una proposta di legge costituzionale all’esame del Parlamento recante «Modifiche all’articolo 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura» (proposta presentata il 13 ottobre 2022 d’iniziativa del deputato Enrico Costa, AC 23).
La possibile riforma – depurata da retropensieri – dovrebbe apparire tutt’altro che eversiva dello status quo, e piuttosto congeniale al naturale completamento di un cammino avviato ormai quasi trentacinque anni orsono perché se l’esistenza di «due magistrature in un corpo» può essere considerata un «eclettismo normale» in un «sistema a forte residuo inquisitorio»[1], non altrettanto può dirsi in un processo che abbracci le linee portanti del modello accusatorio.
Accade invece che tale eventualità venga definita addirittura “inquietante” perché foriera di una “educazione all’accusa” lesiva della “cultura della giurisdizione” che attualmente accomuna – almeno sulla carta – la magistratura requirente e quella giudicante[2].
L’analisi, per certi versi singolare, induce ad alcune sintetiche riflessioni nell’intento di sottrarre un tema così controverso nel nostro Paese – oggetto per un trentennio di visioni strabiche e di strumentalizzazioni politiche – ad approcci ideologici, falsi miti e manipolazioni ricorrenti, restituendolo, se possibile, alla sua dimensione più autentica che tenga conto delle coordinate di sistema.
La carriera unica – che pur vanta una tradizione ultrasecolare, risalente al 1890 – si afferma con forza nella neonata Repubblica, all’indomani della caduta del regime fascista, per ragioni per lo più trascurate. Si vuole evitare, in sostanza, che un pubblico ministero “separato” possa essere condizionato dall’esecutivo, divenendo strumento di quest’ultimo. È ancora viva, difatti, la memoria degli abusi e dei soprusi perpetrati nel ventennio, quando la “giustizia” era stata troppe volte piegata a strumento per ridurre in silenzio gli avversari. Di qui la costituzionalizzazione della magistratura come organismo unitario, in cui pulsano due cuori. «La magistratura» (di cui fanno parte giudici e pubblici ministeri), recita l’art. 104 comma 1 della Carta fondamentale, «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Una sorta di linea Maginot contro ogni aggressione alla divisione dei poteri (rectius, delle funzioni).
Oggi il contesto è sensibilmente mutato. E non soltanto perché sono passati tre quarti di secolo. Viviamo in un sistema democratico che – seppure con non poche incertezze e difficoltà – si è progressivamente consolidato. Prova ne è proprio la riforma del codice di rito che, nel 1988, ha introdotto un’architettura processuale agli antipodi del codice previgente, figlio della dittatura fascista e sopravvissuto (seppur ampiamente interpolato) fino alla soglia degli anni Novanta.
Al di là delle etichette – codice (di fatto) inquisitorio quello del 1930, (tendenzialmente) accusatorio quello del 1988 – e delle reiterate, pesanti rivisitazioni che il codice vigente ha subito, è indubbio che un siffatto modello processuale sarebbe stato improponibile in un contesto autoritario. Così come è innegabile che introdurre un “processo di parti”, in cui l’accusa è contrapposta alla difesa (ciò che costituisce l’essenza del modello accusatorio), impone, perché la formula non sia ridotta ad una semplice etichetta, che il pubblico ministero sia distinto rigorosamente non soltanto dal difensore ma anche dall’organo giudicante. Solo così la dialettica a tre, che regge l’intero impianto, può davvero funzionare.
Anche Giovanni Conso, pur ammettendo la sua iniziale contrarietà alla separazione delle carriere «perché legato alle tradizioni, al proprio vivere, alla propria mentalità», ha ritenuto «ineluttabile» la separazione per poter attuare pienamente lo spirito del codice Vassalli[3]. E Giovanni Falcone, che certo non può essere tacciato di astio o di sabotaggio nei confronti dei pubblici ministeri, ha scritto a chiare lettere che con il “nuovo” codice «il pubblico ministero può essere soltanto ‘parte’ ed è quindi connaturale al suo ruolo il coordinamento delle indagini e la raccolta degli elementi a sostegno dell’accusa […]. Egli deve quindi adattarsi al suo nuovo ruolo di ‘non giudice’ e trasformarsi in una sorta di avvocato della polizia. Sarà difficile, ma bisognerà arrivarci»[4].
Ecco perché evocare l’espressione coniata nel 1936 da Francesco Carnelutti che attribuisce al pubblico ministero il ruolo di “parte imparziale” – un ossimoro – significa sbattere la porta in faccia alle dinamiche accusatorie, erigere un muro invalicabile che impedisce al contradditorio, assurto a metodo privilegiato di conoscenza processuale in sintonia con una visione liberale del mondo e delle relazioni interpersonali, di esprimersi compiutamente. Ammonisce John Stuart Mill, nel suo Saggio sulla libertà (1859), che la verità «è realmente nota soltanto a chi ha dedicato un’attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni».
Certo, l’organo dell’accusa è una parte pubblica, come tale non sovrapponibile all’imputato, ma l’art. 358 c.p.p., spesso invocato a sostegno della tesi della “parte imparziale” in quanto impone al pubblico ministero di svolgere accertamenti anche in favore dell’indagato, è poco più che una “norma-manifesto”, priva di sanzioni processuali. Il pubblico ministero non può ovviamente occultare prove favorevoli alla difesa nelle quali si dovesse imbattere, ma da questo a sostenere che non si muova seguendo una linea tesa ad avvalorare l’ipotesi accusatoria abbracciata c’è una bella differenza. La norma insomma non è in concreto determinante, non ha una forza tale da poter sbilanciare la dialettica tra accusa e difesa che è insita nel modello accusatorio. L’organo dell’accusa «formula un’ipotesi per cercare la verità, ma sovente finisce per cercare la verità della sua ipotesi»), in quanto la sua visione è fatalmente selettiva: «una visione monoculare, parziale, della realtà»[5]. Negarlo significa (scientemente) chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
Anche sul concetto di “cultura della giurisdizione” non bisogna equivocare. La giurisdizione penale «è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario» (art. 1 c.p.p.). Altro è dunque il ruolo del pubblico ministero. A differenza del codice Rocco – di stampo autoritario – che esordiva con una norma dedicata all’azione penale e quindi al pubblico accusatore, implicitamente esaltandone il ruolo.
Non si vuol fare riferimento all’esercizio della giurisdizione, bensì ad una cultura processuale ispirata alle regole della giurisdizione? Ma se così è, perché non ritenerla ineludibile anche per il difensore? Sotto questo profilo la cultura della giurisdizione non è un’esclusiva della magistratura ma è figlia della contrapposizione tra accusa e difesa[6]. E perché allora il diverso status dovrebbe automaticamente “spegnerla” nell’organo dell’accusa?
Naturalmente occorre individuare con attenzione l’assetto istituzionale più opportuno per il pubblico ministero “separato”, onde evitare condizionamenti e garantire lo svolgimento delle sue funzioni in maniera indipendente. Su tali aspetti il dibattito resta aperto e risulterebbe più proficuo se preconcetti e pregiudizi venissero definitivamente accantonati.
[1] Franco Cordero, Procedura penale, 9a ed., Milano, 2012, p. 213
[2] Gustavo Ghidini, Giustizia: «Il pm rimanga parte imparziale», in Corriere della Sera, 12 settembre 2023
[3] Giovanni Conso, Intervento al Congresso straordinario dell’Unione delle Camere Penali Italiane, 3 ottobre 2009
[4] Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra, Milano, 1991, p. 164
[5] Glauco Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, Bari-Roma, 2020, p. 64
[6] si veda Massimo Donini, Cultura dei penalisti e condivisione dei saperi. La formazione comune e non separata di magistrati e avvocati è una premessa al tema delle carriere, in questa Rivista, 11 gennaio 2023