ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Opinioni  
23 Novembre 2020


Il fascino indiscreto della "mediatezza"


Il contributo riprende e sviluppa i contenuti della Relazione dal titolo "Vero e falso sul valore probatorio delle indagini", tenuta in occasione del Web-Conferencing dal titolo "La procedura criminale. Quali riforme", svoltosi il 22 e il 23 ottobre 2020.

 

1. L’emancipazione dell’elemento probatorio e la dissoluzione dell’immediatezza. – Le indagini preliminari sono ormai diventate la fucina in cui vengono forgiati gran parte degli strumenti cognitivi di cui si avvale il giudice per la decisione dibattimentale. L’emancipazione dell’elemento probatorio – strutturalmente antitetico e funzionalmente non dialogante con la prova, collocata al di là di un invisibile ma invalicabile asticella nella geografia processuale del codice 1988 – è un dato di fatto. Ed è sotto gli occhi di tutti.

Le conseguenze sono altrettanto nette e difficilmente contestabili: una «lenta agonia del processo accusatorio», come affermato di recente con la consueta visione di ampio respiro e con la nettezza che lo contraddistingue Paolo Ferrua nell’evidenziare il differenziale esistente tra i principi scolpiti nella Costituzione (che lo vedono sulla carta trionfante) e lo stato asfittico in cui il modello del processo di parti e lo schema accusatorio versano nella realtà.

I valori in gioco, si afferma, sono il contraddittorio, l’oralità, la pubblicità, la concentrazione e l’immediatezza. La Cenerentola, quest’ultima, per motivi che si cercherà di sintetizzare. Una Cenerentola che negli ultimi tempi si è cercato di rispolverare e di rimettere a nuovo, a seguito della pandemia da Covid-19 che, in particolare, ha indotto ad espandere i confini finora circoscritti del processo a distanza (anche se, in fondo, ad essere coinvolta è anche e piuttosto la concentrazione nella sua sotto-specificazione teorizzata da Gaetano Foschini di “localizzazione”, intesa nel senso che «il dibattimento, a differenza degli atti che lo procedono e che lo seguono, non può svolgersi in località diverse, ma deve attuarsi tutto intero in un apposito luogo» [G. Foschini, voce Dibattimento (diritto processuale penale), in Enc. dir., vol. XII, 1964, Giuffrè, Milano, 345]). Un colpo tremendo, secondo taluni, inferto alle fondamenta dell’edificio processuale.

Pensando, in questa maniera, di alzare delle barricate di fronte a un fenomeno che, seppur suscitato da una situazione emergenziale, ad una più attenta osservazione si presenta come un’embrionale mutazione delle dinamiche consolidate del processo penale – senza che per questo, ovviamente, si debba rinunciare alle garanzie fondamentali della persona – legata a doppio filo con l’evoluzione tecnologica e, nello specifico, al mondo informatico che costituisce la quintessenza della società contemporanea.

Non si tratta, in altri termini di un epifenomeno giuridico derivante dal Covid-19. Quest’ultimo, più probabilmente, ha costituito l’occasione perché nuovi input digitali (finora esistenti ma compressi) venissero alla luce e tentassero di coniugarsi con lo stato dell’arte. Un po’ come – e il paragone non appaia improprio tenuto conto dei contesti assolutamente non comparabili – è accaduto per lo smart working, modalità lavorativa le cui risorse tecnologiche sono da tempo disponibili ma che prima dell’emergenza pandemica trovavano un’applicazione assai ridotta.

Gli interessi in gioco sono assai dissimili e non paragonabili, certo, ma è altrettanto vero che appare infeconda la levata di scudi (quasi) generalizzata con cui si è agitato lo spettro di un’irreparabile lesione dei “fondamentali” del processo penale, tra i quali l’ineffabile principio dell’immediatezza che tra tutti appare come il più etereo ed esposto, perciò, al rischio concreto di rimanere confinato nelle pur dotte elaborazioni teoriche o, magari, in esercizi di stile ben lontani dal “diritto vivente”.

 

 

2. Scie di un mutamento irreversibile. – È di quest’ultimo, viceversa, che ci dobbiamo occupare per poterne trarre elementi di sintesi e – ove possibile – tentare una sistematizzazione assai improba in tempi nei quali il legislatore opera sempre più “a sportello”, rispondendo a singoli input tra loro slegati piuttosto che agire secondo una visione d’insieme (condivisibile o meno, ma che sia tale).

Cogliendone le coordinate in una prospettiva diacronica che possa far emergere i motivi – in parte noti – che, fondendosi in un unicum, hanno condotto a quell’ipertrofia della fase delle indagini preliminari da cui è germogliato il collasso del disegno originario del primo codice della Repubblica.

A fronte di coordinate che faticano ad essere applicate nitidamente, a generare un bianco e nero da camera oscura – che, del resto, non appartiene al diritto in genere –, centrare l’obiettivo sul tutto, superando la frammentazione (e le contraddizioni) di istituti, microistituti, istituti trasversali, prassi consolidate e interpretazioni ondivaghe, può aiutare a capire quale sia il potenziale probatorio della fase investigativa oggi.

Ed allora, proprio da uno sguardo panoramico sulle attuali dinamiche della fase delle indagini preliminari emerge un quadro nel quale le categorie del vero e del falso – che solitamente evocano certezze, convinzioni assolute, e che per ciò solo poco si addicono alla flessibilità del fenomeno investigativo, al suo essere un duttile strumento in progress – rapportate al valore probatorio del materiale in questa sede raccolto si flettono consolidandosi in una progressiva stabilità che è – o dovrebbe essere – tipica della prova, dato consolidato per definizione.

Lo si è detto in più circostanze, è la progressiva centralità acquisita dalla fase procedimentale ad aver determinato un ribaltamento all’indietro delle dinamiche del processo penale. L’ulteriore effetto è, per l’appunto, il consolidamento degli elementi cognitivi ivi raccolti, la loro stabilizzazione che li parifica allo strumento cognitivo antagonista, la prova, formata secondo le regole del processo accusatorio e le dinamiche del processo di parti. Entrambi si presentano ormai davanti al giudice con pari dignità, con la particolarità che i primi si connotano per un’efficacia espansiva della quale non si intravede il punto d’arrivo.

L’elemento di prova, insomma, si fa strumento cognitivo per il convincimento del giudice senza destare particolare scandalo, a dispetto di un processo che avrebbe dovuto trovare nella fase dibattimentale la sua essenza.

In molti infatti ricorderanno che il codice 1988 nacque innalzando un severo recinto entro il quale gli elementi di prova – fatte salve specifiche e residuali eccezioni – dovevano rimanere circoscritti. Era stato probabilmente l’horror hereditatis del famelico giudice istruttore del codice 1930, più che la volontà di attuare pienamente le modalità del processo accusatorio, ad ispirare questo sbarramento, in funzione quindi difensiva piuttosto che di emancipazione da dinamiche incompatibili col modello adottato.

Sbarramento, però, destinato progressivamente a sbriciolarsi.

Su questo dato di base, difatti, si sono innestati, prima, input “emergenziali” che hanno condotto all’elaborazione da parte della Consulta di un inedito principio di non dispersione della prova (1992), sostanzialmente sradicando quei paletti concettuali con i quali il recinto era stato costruito e aprendo così la strada ad ogni possibile deroga della regola separatoria delle fasi del processo; poi, nuove tipologie probatorie che hanno conquistato gradualmente la scena – anche mediatica – della vicenda processuale.

Inedite tipologie il cui fattore unificante, al di là delle svariate caratterizzazioni, è costituito dal nascere (quasi) esclusivamente nella fase investigativa ed in una situazione, quindi, in prevalenza, di sbilanciamento tra accusa e difesa (e questo nonostante il rispetto formale dei diritti e delle garanzie difensive venga ove possibile sempre garantito).

Il contraddittorio c’è, quando gli accertamenti sono irripetibili, quando l’attività è destinata a cristallizzarsi nel segmento procedimentale, ma quanto al resto è inevitabilmente posticipato: si esaminerà in seconda battuta il materiale che costituisce il substrato probatorio, si discuterà successivamente di quanto acquisito, con l’apporto imprescindibile degli esperti il cui contributo però – più che dichiarativo – sarà valutativo, pur se veicolato dalla parola scritta o detta. Ed anche attività come quelle svolte sul luogo e nell’immediatezza del fatto assumono una valenza e un peso non paragonabili a quelli un tempo riconducibili a tale categoria, all’epoca una delle poche derogante al principio di separazione tra fasi.

Su questo fondale si staglia la cd. “prova scientifica”, che dopo il successo ottenuto negli Stati Uniti è approdata in Italia divenendo in breve tempo nell’immaginario collettivo “la prova delle prove”, anche grazie a un’errata percezione – alimentata a livello mediatico –indotta dal riferimento terminologico alla “scientificità”, che ha portato molti ad attribuirle la griffe di prova privilegiata, quasi una prova legale del terzo millennio. Sappiamo che non è così. Anche in questo caso, il rimbalzo alla fase dibattimentale è inevitabile, divenendo molto spesso materiale “preconfezionato” sul quale esercitare l’argomentazione critica (quel contraddittorio “sulla prova” teorizzato al debutto del codice 1988 da Delfino Siracusano).

È quindi intervenuta la rivoluzione digitale, con le sue consistenti ricadute sulle dinamiche probatorie. Classificabile come una species del genus “prova tecnico-scientifica”, la digital evidence ha finito per surclassare il suo progenitore. Anche in questo caso, l’operatività delle nuove forme probatorie si gioca prevalentemente (anzi, quasi esclusivamente) nella fase investigativa (ispezioni e perquisizioni digitali, sequestri di dati informatici, intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche, uso del captatore informatico e l’ampio ventaglio di strumenti investigativi atipici di derivazione digitale), con l’ulteriore caratteristica che qui il range applicativo è più ampio, sensibilmente più esteso rispetto a quello del capostipite. Non una determinata categoria di reati, ma un’estesa gamma di illeciti penali.

Ancora, la prova basata sull’intelligenza artificiale, ultimo approdo dell’universo digitale applicato al processo denso di implicazioni ancora tutte da vagliare e da seguire con attenzione.

 

 

3. La “mediatezza” processuale. – Quali considerazioni possiamo trarre da questo scenario composito, attraversato con una rapida carrellata? Da questa trama fino a qualche tempo fa inimmaginabile nella quale la prova “tradizionale” ha ormai assunto una valenza residuale?

Un dato sembra certo. La separazione tra giudice del dibattimento, parti e fonte di prova è divenuta quasi la regola, lo iato tra coloro che avrebbero dovuto condividere la scena processuale è crescente a dispetto di quell’immediatezza da sempre vagheggiata ma, in fondo, mai realizzata.

Da tempo, se mai, ha fatto irruzione nel nostro processo il valore della “mediatezza”, per ricorrere a un neologismo, chiaramente antitetico a quell’immediatezza, che qualcuno invece continua a rincorrere – un po’ come Don Chisciotte con i mulini a vento, scambiati per giganti dalle braccia rotanti e combattuti inutilmente (nonostante i tentativi del fido Sancho Panza di dissuaderlo) – e che peraltro da sempre ha costituito il più impalpabile e il meno rispettato tra i principi che presiedono al processo di ispirazione accusatoria.

Lo zoccolo duro dell’immediatezza, peraltro, continua ad essere costituito dall’immutabilità dell’organo giudicante a discapito della formazione “delocalizzata” e temporalmente “decontestualizzata” del materiale probatorio. Profili sui quali, invece, si innesta il concetto di “mediatezza”, intesa per l’appunto come formazione dei contenuti probatoriamente utilizzabili in contesti spaziali e temporali distanti dalla sede dibattimentale.

Gli approdi più recenti della Consulta, del resto, vanno esattamente in questa direzione – pur ritenendo entrambi non costituzionalizzati – valorizzando la species immutabilità nel genus immediatezza.

La Corte costituzionale infatti, nella sentenza 20 maggio 2019, n. 132, ha affermato che il principio di immediatezza costituisce un «mero simulacro», in quanto i tempi dilatati dei processi penali – ed in particolare dei dibattimenti – vanificano la possibilità che la diretta percezione dell’assumenda prova dichiarativa offre rendendo di fatto prioritari i verbali della prova formata tempo addietro. L’One Day in Court, tipico del processo nordamericano, nel nostro ordinamento, è una pallida eccezione. La Corte, inoltre, dubita dell’idoneità di un siffatto meccanismo a garantire i diritti fondamentali dell’imputato «in maniera effettiva e non solo declamatoria». Nulla di dissimile, in fondo, da quanto sostenuto oltre mezzo secolo fa da Mario Chiavario, secondo il quale l’immediatezza in un sistema processuale può effettivamente funzionare solo se l’attesa del giudizio risulta ragionevole [M. Chiavario, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, 1969, Milano, Giuffrè, 261].

E dobbiamo tenere in conto che qui siamo nel cuore dell’apparato probatorio, parliamo della prova “tradizionale” che pure, come detto, è in fase di evidente ritirata.

Certo, non occorre necessariamente essere adagiati sulle letture che la Consulta dà delle norme e delle dinamiche processuali, ma è indubbio come sia pragmaticamente alquanto arduo contestare affermazioni di questo genere che traggono origine dal dato esperenziale.

Il divario tra vero e falso, in questo caso, è lampante. Così come è drammaticamente visibile il gap tra principi ispiratori del codice e loro applicazione.

Rimane dunque aperta per il legislatore – argomenta nella parte conclusiva la Consulta – la facoltà «di introdurre ragionevoli eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide, in funzione dell’esigenza di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale», a condizione che siano presenti «meccanismi “compensativi” che garantiscano la correttezza della decisione».

E l’assist fornito dalla Corte costituzionale è stato istantaneamente colto dal legislatore nel cd. progetto di riforma Bonafede, ove si propone di inserire una norma che estenda la regola il cui all’art. 190-bis comma 1 c.p.p. ai casi in cui – nei procedimenti di competenza del tribunale – a seguito del mutamento del collegio in uno dei suoi componenti – sia richiesto l’esame di un testimone o di uno dei soggetti indicati nell’art. 210 c.p.p. quando questi abbiano già reso dichiarazioni nel corso del dibattimento innanzi al collegio originario in contraddittorio con la persona nei cui confronti tali dichiarazioni saranno utilizzate (art. 5 lett. e)).  Così scindendo il legame ritenuto da taluni indissolubile tra contraddittorio e immediatezza.

Un ulteriore slittamento verso la “mediatezza”, che sembra sempre più costituire la cifra del nostro processo penale.

Né la sentenza Bajrami delle Sezioni unite [Sez. un., 10 ottobre 2019, n. 41736] può venire in soccorso, nel momento in cui di propone di introdurre una differenziazione tra casi in cui la rinnovazione, e dunque l’immediatezza, è obbligatoria e casi in cui, viceversa, non lo è. L’immediatezza, infatti, così argomentando si configura solo in chiave eventuale. Non certo come feticcio oggetto di devozione incondizionata.

E la questione, del resto, è risalente, se già la sentenza delle Sezioni unite Iannasso [Sez. un., sentenza 15 gennaio 1999, n. 2], aveva aperto varchi in questa direzione, superando il dogma – come tale intangibile – dell’immediatezza. La prova assunta nel dibattimento prima del mutamento del collegio non può essere dispersa, era l’idea di fondo, quindi va recuperata attraverso i verbali in cui è stata cristallizzata.

Peraltro, è noto che l’atteggiamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in proposito – seppur valorizzando le esigenze che sottendono alla piena realizzazione del modulo che contraddistingue la formazione della prova dichiarativa nel processo di parti (e, dunque, in una situazione di “parità delle armi”) – si muove nella direzione di non attribuire i connotati dell’assolutezza a tale esigenza, ben potendosi derogare in presenza di particolari circostanze che legittimino un’eccezione all’oralità (e all’immutabilità) [v., tra le tante, Corte eur. dir. uomo, 23 settembre 2016, Ben Moumen c. Italia; Corte eur. dir. uomo, 10 febbraio 2005, Graviano c. Italia; Corte eur. dir. uomo, 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia; Corte eur. dir. uomo, 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia].

Ben poco resta, dunque, di quell’assetto del quale era parte imprescindibile, potremmo dire necessitata, la riduzione ad un tasso vicino allo zero della permeabilità tra fasi e, quindi, della possibilità di attribuire valore probatorio al materiale cognitivo che si forma nella fase delle indagini.

Dottrina di retroguardia e suggestioni picaresche a parte, allora, occorre ormai confrontarsi con una realtà normativa che si colloca agli antipodi di quel valore dipinto a tinte forti in passato ma mai tradottosi in un’opera compiuta da poter esporre al pubblico ed essere fruita concretamente dagli appassionati del genere. Occorre confrontarsi con la “mediatezza” processuale, cui fa da riscontro l’inesorabile caduta del vessillo dell’immediatezza.

D’altronde, l’evoluzione normativa dei modelli processuali di riferimento (Gran Bretagna e Stati Uniti) evidenzia un progressivo allontanamento dalle logiche proprie del rito adversarial, aprendo spazi inusitati alla possibilità che le dichiarazioni rese outside the trial possano supportare il convincimento del jury e non soltanto la valutazione critica della credibilità di quanto dichiarato [Federal Rules of Evidence (1975), Criminal Justice Act (2003)], contribuendo così alla ricostruzione dei fatti. Sono da tempo utilizzabili in Gran Bretagna, ad es., le dichiarazioni rese unilateralmente in sede predibattimentale e non confermate dal teste in dibattimento. Concettualmente emerge il cd. “principio di inclusione”, che privilegia l’ampliamento della base probatoria a scapito del rigido rispetto delle regole auree dello schema accusatorio. L’obiettivo è quello di un “giusto verdetto”, nel senso di deliberazione che si avvicini quanto più possibile alla verità (salvo intendersi, poi, sul significato del termine) [A. Balsamo-Lo Piparo, Principio del contraddittorio, utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali e nozione di testimone tra giurisprudenza europea e criticità del sistema italiano, in europeanrights.eu, 361 s.]. Non siamo molto distanti, insomma, dal “principio di non dispersione” e il “giusto processo” ripiega verso la “giusta decisione”.

A farne la spese è – in parte – l’hearsay rule. Un balzo enorme, rispetto al quale la dottrina britannica, piuttosto che abbracciare atteggiamenti nostalgici o – peggio – esibirsi in sterili esercizi di stile, si è approcciata in un’ottica costruttiva e propositiva per afferrare – contestualizzandola – l’essenza del (brusco) mutamento di rotta. Si afferma, piaccia o no, che oggi lo strumento cognitivo è ammissibile se ha un’efficacia dimostrativa e non più in ragione della sua corrispondenza ad uno schema legale precostituito.

Per tornare al contesto italiano possiamo quindi dire che il dolce vento dell’immediatezza è divenuto soltanto un’aspirazione âgée che si manifesta con rapide e occasionali folate.

La “mediatezza” ha dunque fatto irruzione in maniera (poco) discreta nel nostro processo penale. E tale ingresso viene ad essere corroborato – non senza incoerenze e titubanze da parte del legislatore – dalla normativa emergenziale originata dalla pandemia da Covid-19 ma destinata, con ogni probabilità, a divenire il laboratorio di una normativa ordinaria.

Mentre il mito dell’immediatezza si reitera, continua ad essere rincorso all’infinito in un loop che richiama alla memoria un celebre film surrealista di Luis Buñuel (Il fascino discreto della borghesia, 1972) nel quale l’incedere degli avvenimenti attraverso i quali si snoda la trama viene ciclicamente interrotto da una scena – sempre la stessa – che appare del tutto slegata dalla progressione narrativa. Immagini cinematografiche evocative a parte, quel che sfugge a molti è l’assoluta improponibilità di una statica rappresentazione di un elemento valoriale certo basilare nella teoria generale del processo e nella caratterizzazione dello schema accusatorio ma che potrebbe conservare una sua identità solo se ricalibrato ed attualizzato in modo da sottrarlo a un’evanescenza che sembra preludere alla sua dissoluzione.

 

4. Una proposta eretica. – Si è detto, in sintesi, delle cause dell’affermarsi della “mediatezza” e, quindi, della crescita esponenziale del valore probatorio delle indagini.

Esistono strumenti per arginare un’ondata di tale portata?

Inutile dire che l’illusione di realizzare nel nostro ordinamento un processo accusatorio ha ormai largamente superato l’ora del crepuscolo [S. Lorusso, L’illusione accusatoria al tramonto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 1465 s.]. Siamo cresciuti all’ombra di un cappello magico, che non ha prodotto però l’auspicato incantesimo. Di un sogno accarezzato per oltre trent’anni. Ora, quindi, occorre misurarsi con una realtà consolidata rispetto alla quale appare inutile (e anzi dannoso) sventolare vessilli tessuti con principi intangibili riproposti pedissequamente (ivi compresa l’inossidabile immediatezza). Una realtà dalla quale emerge la “militarizzazione” dell’area degli strumenti cognitivi di cui si avvale l’organo giudicante nella formazione del convincimento da parte degli elementi probatori investigativi (o comunque provenienti dalla fase delle indagini preliminari).

Il contesto di riferimento, l’abbiamo visto, non è unitario – essendo la risultante di una serie di direttrici che si sono sviluppate autonomamente, concorrendo al risultato finale – e dunque difficilmente riconducibile ad una visione omogenea.

A fronte di prove “tradizionali”, a contenuto narrativo, rispetto alle quali si realizza una progressiva erosione del contraddittorio probatorio, come nel caso emblematico affrontato dalla Corte costituzionale – e prima richiamato – a fronte del mutamento del collegio giudicante, ma che comunque trovano protezione nell’art. 111 commi 4 e 5 Cost., vi è l’insieme di strumenti investigativi e probatori tecnico-scientifici (ivi compresi quelli digitali) che – muovendosi anche sull’asse “tipicità-atipicità” (oltre che su quello più classico della “ripetibilità-irripetibilità”) – producono una serie di implicazioni difficilmente risolvibili con la previsione costituzionale di cui all’art. 111 commi 4 e 5 Cost., stante lo schermo dell’impossibilità oggettiva contenuto nel comma 5 che vi si oppone nitidamente. Regola ed eccezione nella formazione dialettica della prova, difatti, soccombono di fronte ad elementi cognitivi che non possono non essere raccolti ante iudicium finendo per trasformare nel deprecato contraddittorio “sulla prova” il momento di sedimentazione degli stessi. E così il contraddittorio, nel caso di prova scientifica o di digital evidence, abdica quasi sempre alla dimensione naturale del modulo accusatorio sintetizzata nel noto e consolidato paradigma del contraddittorio “per la prova” [D. Siracusano, Le prove, in D. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E. Zappalà, Diritto processuale penale, nuova ed., 2004, Milano, Giuffrè, vol. I, p. 329].

Se si aggiunge poi che non sembra affatto mutato l’atteggiamento culturale di giudici e giurisprudenza i quali – a dispetto del processo di parti – continuano a differenziare il contributo conoscitivo proveniente dall’accusa piuttosto che dalla difesa, ritenendo più affidabile il primo del secondo, il cerchio si chiude.

Affermazioni come quella contenuta in una recente sentenza della Cassazione (sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458), secondo cui l’elaborato del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero durante le indagini preliminari, pur non essendo equiparabile alla perizia disposta dal giudice dibattimentale, «è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente tecnico della parte privata», di talché esiti degli accertamenti e delle valutazioni compiuti ex art. 359 c.p.p. rivestono «una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti», sono emblematiche. Dunque, una valenza probatoria differenziata. Siamo vicini alla figura del pubblico ministero organo di giustizia, tanto cara a molti interpreti del codice 1930. E il libero convincimento?

Quel che più importa, ad ogni modo, è evidenziare come ad essere infranto è il modello del processo di parti, quel rito adversary prima annunciato e poi inseguito – vanamente – per oltre un trentennio. Leggere affermazioni di questo tenore non è altro che la constatazione di un fallimento, per non dire di una disfatta.

Le soluzioni, allora?

Sembrerebbe che tutto converga verso un sistema processuale in cui il coefficiente probatorio della fase procedimentale finirà per essere istituzionalizzato, con un chiaro – quanto inatteso – balzo all’indietro verso un embrione di fase istruttoria, di quella fase rigorosamente bandita dal codice 1988.

In maniera un po’ eretica, allora, si potrebbe dire che sembra questa la strada praticabile per produrre il minor danno possibile alle garanzie difensive. Restaurare una figura avente funzione di formare la prova nella fase delle indagini preliminari significherebbe, comunque, sottrarre l’elaborazione investigativo-probatoria al monopolio di fatto dell’organo dell’accusa.

Senza, magari, quegli eccessi che avevano fatto del giudice istruttore il signore incontrastato del processo, ma con una ripartizione mirata di poteri e di ruoli: un “giudice della prova”, ferma restando la dinamica legata all’iniziativa di parte, che si occupi della formazione del materiale cognitivo la cui proiezione dibattimentale appare incerta o problematica (c’è già l’incidente probatorio, ma il suo ambito è assai ridotto) o – comunque – di quello individuato in maniera concorde dalle parti e ritenuto meritevole di una formazione anticipata. È una soluzione difficile da accettare (e non facile da attuare), certo, ma al momento non si intravedono altre strade praticabili se non l’infruttuosa opposizione dei giuristi d’antan.

Meglio, allora, correre il rischio di apparire non ortodossi piuttosto che accettare supinamente un’evoluzione normativa la quale – tra mille contraddizioni – trova un fattore unificante proprio nel superamento di quel modello a lungo vagheggiato ma mai davvero entrato a regime, realizzato in favore di un processo ispirato alla logica del risultato e decisamente amputato nella sua fase dibattimentale il cui recupero nella forma integrale originaria appare solo poco più di un desiderio irrealizzabile.