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  Opinioni  
25 Novembre 2022


Perché la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne non sia commemorativa ma propositiva


1. Premessa. – Anche quest’anno il 25 novembre, nella giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, vi saranno celebrazioni, convegni e conferenze sulla violenza contro le donne sull’intero territorio nazionale. D’altro canto, quotidianamente, si apprende di fatti di cronaca relativi a maltrattamenti, lesioni personali, stalking e femminicidio. Ancora vivido è il ricordo della grave vicenda di A. M., la donna uccisa a martellate dall’ex fidanzato in piena estate a Bologna: il caso ha rappresentato l’ennesimo – in parte prevedibile – femminicidio e episodio di vittimizzazione secondaria[1], che palesa l’inaccettabile incapacità dello Stato di tutelare una donna che nel presentare la denuncia presso l’autorità giudiziaria intendeva ottenere protezione e tutela.

Ora, senza entrare nel merito della vicenda, è certo che l’omicidio ha generato una scia infinita di comprensibile indignazione tanto da indurre l’allora Guardasigilli Prof.ssa Marta Cartabia all’invio degli Ispettori: la scelta della Ministra è parsa, da subito, ragionevole, posto che il nostro Paese ha subito negli ultimi anni 5 condanne dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo[2] per inidoneità a tutelare le vittime che si sono rivolte all’autorità pubblica per denunciare fatti di violenza di genere e/o domestica, o chiedere, più in generale, una protezione per sé e i minori sottoposti a tali violenze.

 

2. L’Italia è un Paese sotto “vigilanza rafforzata”. – Il nostro Paese è, infatti, già sotto vigilanza rafforzata nell’ambito della procedura di esecuzione davanti al Comitato dei ministri del Consiglio D’Europa che, nel bilancio d’azione di ottobre 2020, pur lodando gli sforzi compiuti dalle autorità legislative per prevenire e combattere la violenza non si è detto soddisfatto dell’applicazione pratica di tali strumenti. Chiaro il monito dei giudici europei: spetta al nostro Paese affrontare in maniera accelerata ed effettiva la violenza di genere e/o domestica, anche in chiave preventiva, adottando ogni opportuno provvedimento.

Invero, il legislatore nazionale ha sempre posto attenzione alla materia[3], ma è solo a fronte della condanna irrogata al nostro Paese con la nota sentenza Talpis che ha avuto origine la l. n. 69 del 2019, meglio conosciuta come codice Rosso[4], con cui si è avviato un percorso immediato e peculiare proprio a protezione delle vittime, anche minori, dei reati violenti. È questo, infatti, il provvedimento che più di altri ha, di recente, inciso sul contrasto alla violenza domestica e di genere rafforzando le inziali tutele processuali.

Quel testo onera, infatti, il pubblico ministero ad attivarsi, entro 3 giorni dall'iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all'art. 335, c.p.p., al fine di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi abbia presentato la denuncia e/o la querela – salvo che ricorrano imprescindibili esigenze di tutela dell'infradiciottenne o della riservatezza delle indagini, anche nell'interesse della persona offesa – e la polizia giudiziaria a procedere, senza ritardo, nel compimento degli atti di indagine delegati dal pubblico ministero e a trasmetterli sempre senza ritardo allo stesso al fine di consentirgli l’immediata adozione di eventuali misure, anche cautelari. L’intero testo mira, infatti, a garantire una celere progressione del procedimento penale attraverso un'accelerazione delle attività di indagine affinché il pubblico ministero possa, ove necessario, assumere tempestivamente ogni determinazione tesa alla tutela e protezione delle vittime fra cui, se indispensabili, dei provvedimenti limitativi della libertà personale. Molteplici sono gli aspetti su cui tale provvedimento ha inciso anche se alcune lacune sono ancora evidenti: il rinvio va all’assenza di un termine entro il quale (eventualmente) il giudice, a cui è richiesta la cautela (progressivamente incrementate nelle tipologie e rito proprio in ragione di tale fenomeno: v., ad esempio, artt. 291, comma 2-bis, 282-bis, 282-ter, 282-quater c.p.p. nonché, artt. 299, 90-ter c.p.p.), è chiamato a pronunciarsi ( certamente non mancherà di provvedere sollecitamente al suo accoglimento, ma è bene precisarlo) ovvero a quella completezza e circolarità delle conoscenza tra giudizi (civili e penali) differenti ma convergenti in materia che proprio l’introdotto art. 64-bis disp. att. c.p.p. doveva assicurare e che invece non si è attuata tanto da imporre già una sua modifica (v. d. lgs. n. 149 del 2022).

Le diverse previsioni contenute nella novella del 2019 muovono dalla considerazione della complessità delle condotte criminali in questione, dell’utilità di interventi multidisciplinari, anche in ambito esecutivo, attesa la necessità di intervenire non solo con la repressione delle condotte illecite, ma anche, e soprattutto, con la prevenzione di ulteriori comportamenti violenti nei confronti di chi è portato ad agire in siffatto modo nei rapporti interpersonali[5].

 

3. Il vulnus: la valutazione del rischio. – In particolare, nell’ultimo caso D. G. le criticità rilevate dalla Corte europea sono analoghe a quelle del passato: quello che si rimprovera alle autorità nazionali è l’assenza di un’adeguata valutazione del rischio, come già evidenziato, peraltro, dal GREVIO (gruppo di esperte sulla violenza contro le donne è l’organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul in tutti i paesi che l’anno ratificata). Si rimprovera, segnatamente, il mancato riconoscimento della violenza da parte dell’autorità giudiziaria, vale a dire la mancanza di una visione d’insieme, nella successione degli episodi – come richiesto nei casi di violenza domestica[6] nei tribunali italiani. In particolare, il giudice europeo riscontra, comunemente, delle carenze, non tanto nella reazione degli organi di polizia, quanto dei pubblici ministeri.

Nonostante i rapporti della polizia giudiziaria, i referti sanitari e gli atti dei servizi sociali contengano spesso degli elementi e prove di quanto la vittima afferma – segnalano i giudici di Strasburgo – i magistrati, incaricati di valutare, di volta in volta, il caso non sempre assumono le dovute iniziative per rispondere alle denunce della donna, e la loro inazione, afferma la Corte di Strasburgo, crea, spesso, una situazione di impunità per i (potenziali) autori del fatto. Si sottolinea come le autorità non esercitano con la dovuta diligenza i loro obblighi, venendo meno quello positivo imposto dagli artt. 2 e 3 Cedu di proteggere la ricorrente e i bambini dalla violenza domestica e/o all’art. 8 della Cedu che tutela il diritto alla vita privata e all’integrità personale.

Nella decisione i giudici di Strasburgo ribadiscono che «non rientra nella sua competenza sostituirsi alle autorità nazionali e fare una scelta al loro posto tra le misure da adottare, ma, la Corte Edu ribadisce come, in materia di violenza domestica, il compito di uno Stato non si esaurisca nella mera adozione delle disposizioni di legge, ma si estende ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva: si censura, dunque, l’inazione dei magistrati nonostante la gravità delle denunce[7].

D’altro canto, l'inerzia delle Autorità nell'applicare la legge vanifica gli strumenti di tutela previsti: lo Stato ha, dunque, l’obbligo di attuare misure capaci di salvaguardare in modo efficace i beni supremi della vita e dell’integrità delle persone quando vi è un rischio, immediato e reale, che quei diritti possano essere aggrediti.

È questo, forse, il rimprovero che può essere mosso ad alcune Procure e che anni di analisi e studi del fenomeno hanno rilevato: la violenza domestica è crimine connotato da proprie caratteristiche e la tipologia, ha ben detto il Procuratore Capo di Tivoli Dott. Menditto – uno dei massimi esperti in materia – fa sì che essa possa essere equiparata al crimine mafioso. Si pensi al fatto, consueto, della reticenza della donna abusata o maltrattata a presentare la denuncia ovvero alle troppe volte in cui essa ritira la querela/denuncia per timore (o sulla scorta) della minaccia dell’autore delle violenze: è fin troppo evidente che non si tratta di manifestazioni di volontà spontanee ma, al contrario e molto spesso, indotte dalle intimidazioni del violentatore.

In termini assolutamente generali: da un lato si tende a sottovalutare il bisogno di protezione delle donne con la complicità di una lettura errata di quanto sta accadendo nella loro vita – scambiando troppo spesso la violenza con le dinamiche conflittuali – e dall’altro si tende a ritenere che una denuncia sia un’azione già sufficientemente esaustiva. È accertato, invece, come il momento della denuncia o la volontà palesata al partner di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza a esiti letali quali le lesioni gravissime, il tentato omicidio, il femminicidio.

Ora, dal canto suo, se bene dice il Dott. Roia – fra i primi e più autorevoli studiosi del tema[8] – quando indica come necessaria una maggiore preparazione della polizia e dell’autorità giudiziaria, come proprio i tanti e recenti fatti di cronaca mettono in luce non v’è dubbio che parte delle problematiche giudiziarie vedono nella valutazione del “rischio” – in parte contemplato nella legge del 2019, nella misura in cui stabilisce la “dovuta” celerità nell’attività investigativa e giudiziaria – l’attuale nodo problematico, tanto sul piano normativo, quanto empirico, di tali gravissimi eventi delittuosi.

In verità, scopo della rapidità imposta dal codice Rosso è per l’appunto quello di effettuare i primi accertamenti per determinare la “soglia di rischio” che soffre la persona e gli eventuali minori. È, però, questo uno degli aspetti della legge che ha fin da subito una interpretazione lata al punto da ammettere la delegabilità dell’intera attività alla polizia giudiziaria, benché si tratti di uno dei passaggi più delicati della “presa in carico della vittima che si rivolge allo Stato” per ottenere protezione.

 

4. Condizioni (minime) sulla valutazione e il suo rilievo. – Dunque, sembrerebbe annidarsi attorno a tale ricognizione uno dei vulnus della disciplina: una tale ricognizione volta all’adozione di eventuali atti a tutela della vittima e dei minori è certamente quello di più difficile determinazione essendo influenzata da tutta una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta e della persona offesa. È anche vero che da tempo esistono delle metodologie per stabilire (tendenzialmente) qualche fattore di rischio o di vulnerabilità: il rinvio va alla valutazione delle caratteristica del maltrattante, della relazione che sta intrattenendo con la persona offesa, delle condizioni di scarsa autonomia della vittima, dell’abuso di sostanze, ad esempio.

 Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati anche dalle forze dell’ordine e dai centri antiviolenza e servizi territoriali si annovera, ad esempio, il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime), ampiamente usato, a partire dal 2006, attraverso quella specifica formazione di cui forse manca proprio il magistrato vale a dire colui a cui la legge affida tale difficile compito.

La valutazione consente di ridurre il rischio che la persona offesa possa essere ri-vittimizzata dal suo partner o ex partner o essere oggetto dell’escalation della violenza nelle relazioni intime e permette, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e del reo, di scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari (ordine di allontanamento dalla casa familiare, divieto di dimora o la custodia cautelare in carcere) o precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte trattamentali adeguate. Si tratta, in altri termini, di mettere a fuoco quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza per sé, i figli (se esistenti) o chi (familiari ed altri) con lei convive o è messo in pericolo, se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie, in ogni caso, che l’assenza di fattori di rischio non esclude la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile, così come la loro presenza non indica necessariamente che quell’autore della violenza persevererà nella sua condotta o ucciderà la sua partner. Entrando, in maniera assolutamente sintetica, nel dettaglio, i fattori di rischio possono dedursi dalle precedenti gravi violenze fisiche o sessuali; gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza; escalation sia della violenza fisica o sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di porre in essere tali violenze; violazione delle misure cautelari o interdittive; precedenti penali/condotte antisociali; problemi relazionali, di lavoro o finanziari; abuso di sostanze e/o disturbi mentali. Per quanto riguarda la persona offesa il rischio va, invece, valutato rispetto alla condotta e atteggiamento incoerente che questa può assumere nei confronti del reo; nell’estrema paura nei confronti del reo, nella scarsa sicurezza di vita e/o nei problemi di salute psicofisica, di dipendenza, anche economica della stessa. È certo, in ogni caso, che priorità assoluta va data alla rilevazione della presenza di armi, bambini testimoni (violenza assistita) e/o abusati. Peraltro, la valutazione del rischio è un processo dinamico, si parla infatti di Active Risk Assessment (ARA), e pertanto dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo per monitorare l’evoluzione del livello di rischio, senza tralasciare l’importanza di condividerla con le figure professionali più adatte e preparate (servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con lei in momenti diversi della sua storia e che dovrebbero, a nostro avviso, in un lavoro di équipe coadiuvare il lavoro del magistrato.

D’altro canto, a fronte delle differenti “soglie” la legge offre una gradualità di strumenti e approcci che vanno dall’ammonimento, quale tipica misura di prevenzione esclusiva del Questore che ha lo scopo di garantire alla vittima di atti persecutori, violenza domestica, cyberbullismo, una tutela rapida ed anticipata rispetto alla definizione del procedimento penale e che coinvolge il presunto stalker e le persone informate dei fatti onde consentire l’adozione delle prime misure a fronte dei cd. reati “sentinella”, che non sempre si è rivelata idonea allo scopo normativo[9], all’avvio del vero e proprio procedimento penale, quando venga proposta denuncia e, in ogni caso, quando si tratta di un reato procedibile d’ufficio. È in questo caso, allora, che la “valutazione del rischio” dovrebbe essere effettuata dal p.m. avvalendosi di esperti: ora, la legge tace sul punto, ma è chiaro che sarebbe auspicabile che un tale difficile giudizio possa venire espresso da un’équipe di soggetti specializzati. Si tratta, pertanto, di porre a sistema e in rete tutti gli attori – centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali, tribunali, case rifugio, presidi ospedalieri, rete familiare e/o amicale – coinvolgendoli nel processo di presa in carico e gestione di quello specifico caso, ricordando che ogni storia di violenza è una storia a sé, con caratteristiche per certi versi simili, ma che comunque variano da una all’altra.

Certamente, in termini generali un incremento considerevole della protezione e tutela per le vittime di violenza domestica e di genere è stata assicurata dall’art. 2 della l. n. 134 del 2021 che ha ampliato la portata della l. n. 69 del 2019 alle vittime di tentato omicidio e alle vittime di delitti, in forma tentata, di violenza domestica e di genere[10].

Ma v’è da chiedersi se anche quest’ ultimo intervento sia del tutto idoneo a colmare quelle “falle” già evidenziate dai giudici europei, i quali censurano le Autorità nazionali che “avrebbero dovuto sapere del rischio reale e immediato» che circonda la vittima. Ebbene, proprio il caso bolognese dimostra, invero, la delicatezza dei giudizi che vanno, in tali casi, formulati. Come ha indicato il Procuratore Capo di Bologna, il Dott. Amato: quand’anche le autorità sono in grado di effettuare una giusta valutazione del rischio, non sempre hanno a disposizione fondati e accertati elementi per procedere processualmente.

Ne discende, allora, se si considerano le carenze riscontrate nel proteggere la donna durante l’iter che parte con la denuncia, che occorre, ancora una volta, incrementare gli strumenti a disposizione dell’autorità pubblica. È questa una costante del tema in oggetto: l’evoluzione (ergo, involuzione) che tale fenomenologia delittuosa ha comportato, da sempre, un costante “adattamento” della legislazione ad essa dedicata passando, progressivamente, dallo sguardo rivolto alla repressione a quello proteso alla prevenzione e, sempre più, a condannare le modalità e condotte che, mutate nel tempo, hanno imposto un persistente intervento dal legislatore.

Un osservatore attento può, infatti, verificare come dapprima questo si sia rivolto verso le tematiche tese all’acquisizione anticipata delle prove (art. 392, comma 1-bis c.p.p.) e, solo successivamente, alla disciplina cautelare, e, via via, si è rivolta l’attenzione alla fase iniziale dell’attività investigativa, non disgiunta dai riflessi che l’eventuale condanna determina sul versante esecutivo.

Se così è, occorre, allora, procedere verso un (ennesimo) completamento dell’ampia legislazione preventiva e repressiva messa in opera in questi anni: un (possibile) iniziale strumento potrebbe essere l’approvazione del d.d.l. A. S. n. 2566 presentato, a firma congiunta, dalle Ministre Bonetti, Lamorgese, Cartabia[11] nella scorsa legislatura.

Il testo organico e completo agirebbe, infatti, proprio sul piano della prevenzione e della protezione delle donne: sulla scorta delle esperienze maturate – nostro malgrado – vale a dire sulla scorta dei tanti, troppi, episodi criminali che quotidianamente la cronaca ci ricorda, si tratterebbe, allora, di estendere l’applicabilità dell’ammonimento del questore anche ai reati spia di un’escalation di violenza. In secondo luogo, di stabilire, nel caso di violazione dell’ammonimento, cioè di reiterazione delle condotte, l’attivazione della procedibilità d’ufficio di reati finora perseguibili a querela e, ancora, di prevedere l’aumento della pena fino ad 1/3. Sempre in un’ottica preventiva, ormai essenziale, si tratterebbe, poi, di estendere la (possibile) applicazione delle misure di prevenzione, previste dal codice antimafia; di potenziare l’uso del braccialetto elettronico, da tempo indicato come unico mezzo capace di garantire una vera salvaguardia della vittima/e, sia per arresti domiciliari sia in caso di divieto di avvicinamento od obbligo di allontanamento dalla casa familiare, tanto da prevedere un aggravamento della misura cautelare per colui che non presti il proprio consenso e, in caso di manomissione del dispositivo, statuire la custodia cautelare in carcere. Infine, si fornirebbe al p.m. il potere di fermo o, in caso di urgenza, della polizia giudiziaria, della persona gravemente indiziata di delitti compresi nel Codice Rosso, in caso di grave e imminente pericolo per la vita o l’incolumità della vittima.

5. L’ampliamento dello strumentario legislativo e la profonda conoscenza del fenomeno. – Quelli elencati appaiono, infatti, degli strumenti capaci ed idonei – tenuto conto delle diverse e gravi modalità esecutive di tali gravi reati – a colmare quel vuoto di tutela che si ravvisa fra le prime attività procedimentali, a fronte della conoscenza dei fatti di reato della specie indicata, e l’avvio del procedimento ordinario che, come ha palesato proprio il caso di Bologna, non consente un’ulteriore attesa. L’approvazione di quel testo consentirebbe, infatti, un significativo rafforzamento dell’arresto obbligatorio in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento alla vittima, introducendo la possibilità di applicare, anche in tal caso, misure cautelari coercitive, in modo da prevenire più efficacemente il rischio di condotte violente. Ma, anche al di fuori dell’arresto in flagranza di reato, si rafforzerebbe lo strumento cautelare, consentendo l’applicazione di misure coercitive (dalla più blanda, dell’obbligo di presentazione alla PG, fino alla custodia cautelare in carcere) per tutti i casi di lesioni, quando ricorrono le aggravanti del Codice rosso (ad es. quando le lesioni si accompagnano ad altri reati di violenza domestica – ad esempio le violenze del coniuge – o ancora reati quali stalking, violenza sessuale, maltrattamento in famiglia). Interessante è, poi, la previsione secondo la quale violare un divieto emesso dal giudice civile equivale a violare quello emesso dal giudice penale (ad es. la violazione del divieto di avvicinamento al coniuge, emesso dal giudice civile in sede di separazione, sarà punito come la violazione dell’analoga misura cautelare emessa nel procedimento penale): in entrambi i casi è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di reato. Seguendo la direttrice già indicata nei testi normativi negli ultimi anni si restringerebbe, altresì, il possibile accesso alla sospensione condizionale della pena, assicurando un rigoroso controllo – attraverso il coinvolgimento degli uffici dell’esecuzione penale esterna – sull’effettiva partecipazione dei condannati ai percorsi (da incrementare) di recupero. In caso di violazione degli obblighi, sarà subito revocata la sospensione condizionale della pena; in caso di scarcerazione dell’imputato o condannato, saranno avvisate sia le persone offese, sia il Questore e il Prefetto, per valutare le eventuali misure di prevenzione e/o protezione della vittima da adottare. È anche questo un mezzo efficace per la salvaguardia della vittima proprio nel momento in cui, dopo un periodo di restrizione, potrebbe avverarsi un’escalation di violenza, come dimostrano statisticamente gli episodi di violenza monitorati. Il disegno di legge depositato presso il Senato contempla, dunque, mezzi e istituti diversi e potrebbe, se approvato nella sua integralità, incidere proprio in quella sfera “anticipata” della violenza contro le donne e/ o minori o in quelle fasi potenzialmente più pericolose: si conferirebbero, così, nuovi strumenti, attualmente non contemplati, a favore delle diverse autorità (amministrativa o giudiziaria) e si aggiornerebbero quelli esistenti, incrementando, ulteriormente, le forme di protezione delle vittime di violenza e/o minori.

Invero, ad ogni evento di cronaca si rinnova la necessità di provvedere ma è da troppi mesi che quel provvedimento giace in Parlamento, nonostante la Relazione dall’ex Ministro dell’Interno presentata nell’agosto scorso indichi che in un anno, tra il primo agosto 2021 e il 31 luglio 2022, sono state uccise 125 donne rispetto alle 108 uccise nei 12 mesi precedenti: in media, dunque, perde la vita più di una donna ogni 3 giorni, così come è accaduto in altri tempi storici per la guerra di mafia o di camorra. Ma la violenza non è solo questione i numeri, è fattore che impone l’obbligo dello Stato di tutelare ogni persona, tanto più se subisce atti di lesione della propria libertà fisica e morale, pena, altrimenti, il “trattamento inumano e degradante” delle donne, a cui l'Italia è stata, troppe volte, condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Le decisioni lasciando trasparire la necessità di cambiare la cultura del Paese, in particolare quella di chi deve applicare quelle norme[12], comprendendo fino in fondo tale fenomenologia, le sue dinamiche e le sue modalità, anche di carattere processuale, cercando di decodificare comportamenti e linguaggi così com’è accaduto per altre forme gravi di criminalità (terrorismo e/o mafia).

 

 

[1] Sul punto v., amplius, T. Bene, Forme di bias nel sistema di tutela delle donne vittime di violenza, in questa Rivista, 29 novembre 2021.

[2] M. Bosio, La violenza di genere al cospetto della corte europea dei diritti dell’uomo, Key editore, 2020.

[3] A. Venere – c. Desideri – F. Fratoni, Vittime della violenza di genere. V., per una peculiare prospettiva, T. Vitarelli, Violenza contro le donne e bulimia repressiva, in questa Rivista, 1 ottobre 2020.

[4] V., oltre a P. De Nicola – F. Menditto, Codice Rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi Commento alla legge 19 luglio 2019 n.69, Giuffrè, Milano, 2020, fra gli altri, G. Dalia, La risposta del sistema processuale penale per la tutela delle vittime di violenza di genere, in Arch. pen., 2020; N. Triggiani, L’ultimo tassello nel percorso legislativo di contrasto alla violenza domestica e di genere: la legge “Codice Rosso”, in Proc. e giust., 2020, 2, nonché, volendo, B. Romano – A. Marandola, Codice Rosso: commento alla l. n. 19 luglio 2019, n. 69, Pacini editore, Pisa, 2019.

[6] V., seppur da una diversa prospettiva, P. De Nicola, Pregiudizi giudiziari nei reati di violenza di genere: un caso tipico, in questa Rivista, 11 gennaio 2022.

[7] Corte Europea Dir. uomo, Sez. I, 16 giugno 2022, De Giorgi c. Italia, in questa Rivista, Osservatorio Corte EDU: giugno 2022, 13 Settembre 2022.

[8] F. Roia, Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche, Franco Angeli, 2017, p. 160.

[9] A. Elif Dini, Ammonimento del questore e violenza di genere: un anello debole nella catena protettiva?, in questa Rivista, fasc. 10/2022, p. 75 ss.

[10] Cfr., per tutti, L. Capraro, Disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Processo e Giustizia, 2022, 1, 282 ss.

[11] Il testo del d.d.l. recante “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica” è stato pubblicato in questa Rivista, 22 marzo 2022.

[12] V., da ultimo, la condanna emessa all’unanimità a carico dell’Italia per violenza “istituzionale” da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. I, 10 novembre 2022 a carico delle autorità civili per violazione dell'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e non protetto i figli minorenni di I.M. costringendoli per tre anni ad incontrare il padre accusato di maltrattamenti e nonostante lo stesso continuasse ad esercitare violenza e minacce durante gli incontri protetti disposti dal Tribunale”. Segnatamente tale pratica avrebbe inciso sull’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini, costretti ad incontrare il padre in un ambiente in cui non è stata garantita loro protezione se non dalla madre. La Corte EDU ha, infatti, condannato l’Italia per la prassi diffusa nei tribunali civili di considerare le donne vittime di violenza domestica che non adempiono all’obbligo di effettuare gli incontri dei figli con il padre e che si oppongono all’affidamento condiviso – come ‘genitori non collaborativi e quindi ‘madri inadatte meritevoli di punizione (così come segnalato anche dal Grevio).