1. La riforma della prescrizione, appena entrata in vigore, ha stimolato le riflessioni di studiosi sempre più attenti ai molteplici aspetti di questo istituto così controverso della tradizione penale. Da circa un anno, la dottrina penalistica e quella processual-penalistica hanno manifestato molti punti di vista a riguardo, fino a proporre diversi, se non antitetici, modi di pensare l’assetto normativo in tema di prescrizione. In effetti, la riforma appena entrata in vigore ha certamente acceso il dibattito sui tempi della punibilità e i tempi del processo, tanto che oramai il confronto ha assunto – a mio modo di vedere, provvidenzialmente – i toni di una rinnovata vivacità, che non potrà che portare buoni frutti alla crescita collettiva su questi importanti temi.
Premetto che le mie posizioni in materia possono agevolmente definirsi radicali[1]. Infatti, vedo in un sistema normativo che non interrompa definitivamente il decorso della prescrizione durante il procedimento una garanzia per l’individuo legata ai suoi più importanti diritti costituzionali, messi troppo a rischio dalla sola possibilità di un accertamento e di una punizione eccessivamente differiti. Ma non è di questo che intendo qui occuparmi. Quello che mi preme, in questa sede, è proporre una visione alternativa, un semplice punto di vista diverso, e non sempre incompatibile, con alcune affermazioni e alcuni dati che spesso vengono posti a premessa di analisi favorevoli, sebbene talvolta solo parzialmente, ad una interruzione definitiva della prescrizione nel corso del procedimento.
Per mantenere la promessa della brevità, procederò schematicamente per punti, affrontando quelli che mi sembrano i passaggi più rilevanti.
2. Il fondamento teorico della prescrizione. – Come per la pena, anche per la prescrizione credo sia illusorio voler individuare una ed una sola funzione. Ve ne sono molte, certamente: alcune chiare nella mente del legislatore e ben delineate dalla ricostruzione dei giuristi; altre meno definite all’origine e che si sono rivelate nel corso della applicazione pratica dell’istituto. Tra le prime c’è sicuramente quella che molti individuano come la più significativa: la prescrizione dà concretezza al «venire meno dell’interesse pubblico alla repressione dei reati, e quindi all’irrogazione della pena, quando dalla commissione del fatto sia decorso un tempo proporzionato alla sua gravità»[2]. Visione, questa, diffusissima e certamente fondata, se si adotta l’angolo visuale dell’autorità incaricata dell’accertamento e della punizione. Tuttavia, non mi sembra che questa lettura possa esaurire le ragioni dell’esistenza di un istituto come quello della prescrizione, proprio perché è sbilanciata sull’esigenza (o l’affievolirsi dell’esigenza) dello Stato, quando invece, per sua palese vocazione, un istituto che impedisce la punibilità dovrebbe, in sintonia con l’impianto costituzionale, trovare la sua ragione ultima nelle posizioni dell’individuo. Del resto, il venir meno dell’interesse all’accertamento di un fatto a causa del tempo trascorso è dimostrabile solo se si ricorre ad una generalizzazione di frequenza statistica, poiché le norme nulla dicono: possiamo cioè sostenere che, nella maggior parte dei casi, l’interesse è eroso dal tempo, ma non possiamo escludere che l’interesse permanga imperituro anche in riferimento a reati prescrittibili (per esempio se avessero grande clamore mediatico, se il danno avesse un vasto impatto su molte persone, se sollevasse questioni sociali brucianti ed attuali)[3]. Dal versante opposto a quello dell’autorità, ossia il versante dell’individuo, emergono esigenze della persona, sintetizzate spesso con il suo diritto all’oblio, che viene parimenti annoverato tra le funzioni della prescrizione[4]. Ma occorre andare oltre, ed esplicitare cosa protegge l’oblio, poiché esso non è, in sé, precisamente previsto e assicurato dalla legge o dalla Costituzione. Si assume giustamente che il soggetto non possa restare sotto la spada di Damocle della pretesa punitiva dello Stato: ma quali posizioni soggettive lede questa condizione di rischio continuato? Ritengo che la risposta stia nelle aspettative dello sviluppo di vita che la Costituzione protegge: autodeterminazione, lavoro, famiglia, istruzione, salute, iniziativa economica. Allora questa seconda funzione dell’istituto occupa un posto privilegiato tra tutte quelle ipotizzabili. Anzitutto perché è riscontrabile per tabulas (si lega direttamente a diritti sanciti dalla Carta) al contrario della perdita dell’interesse alla punizione che nessuna fonte giuridica annovera. Inoltre, assume un’importanza capitale, poiché favorisce lo sviluppo della persona secondo il progetto costituzionale. Questa prospettiva influenza il discorso, perché impedisce che le possibili soluzioni siano considerate equivalenti. In due parole, ecco la visione alternativa: la prescrizione non serve per dismettere una attività cui l’autorità, lo Stato, non ha più interesse, ma serve, rovesciata la prospettiva, a proteggere l’individuo da una azione punitiva eccessivamente tardiva (e quindi sproporzionatamente lesiva), sebbene lo Stato, con l’intera società, nutra ancora interesse a conseguirla, o del tutto a prescindere da questa circostanza.
3. I dati e la lettura dei dati. – Tra i passaggi fondamentali del dibattito in corso, occupa un posto privilegiato l’esame dei dati statistici riguardo all’incidenza della prescrizione sugli accertamenti giurisdizionali dei reati. È infatti necessario capire le dimensioni del fenomeno prima di occuparsene. Si sa che la prescrizione colpisce, per la maggior parte, procedimenti in fase preliminare[5]. Ma dopo l’instaurazione del giudizio, essa viene rilevata nell’8% dei procedimenti in primo grado, nel 24,2% di quelli in appello e solo nell’1,7% dei giudizi di cassazione[6]. Si dice che «nel grado d’appello il fenomeno ha dimensioni patologiche»[7]. È questione di intendersi, però, sul tipo di patologia.
Se il difetto sta nell’eccessivo numero di notizie di reato che sfociano in declaratorie di prescrizione, allora il problema vero sta nella fase preliminare e non possiamo intervenire sul pertugio nell’appello ignorando l’abisso dell’indagine.
Se invece il problema sta nelle prescrizioni che vengono dichiarate quando l’azione penale è già iniziata, i rilievi sono due.
Anzitutto occorre individuare la ragione per cui, dal punto di vista giuridico, il maturare della prescrizione ad azione penale instaurata è meno tollerabile di quello che precede l’azione penale. È vero che, nel primo caso, il processo ha assunto un’eco pubblica, sono state impiegate risorse e denari, si è creata una aspettativa sociale sulla decisione: ma tutto questo vale di più rispetto alle posizioni soggettive che l’oblio protegge? Per quale ragione giuridica (o di politica criminale) le risorse impiegate e il generico auspicio di una definizione sul fatto (in concreto potrebbero tutti essere disinteressati all’accertamento su quell’imputazione specifica) impongono di andare a sentenza sul fatto, senza considerare più le esigenze della persona coinvolta che erano tutelate prima dell’esercizio dell’azione penale (o della sentenza di primo grado, come nel nostro caso)?
La seconda osservazione è puramente valutativa e, si capisce, soggettiva: ma davvero il 24% di prescrizioni dichiarate in appello sono troppe, tanto da rappresentare i sintomi di una patologia? In un sistema in cui il numero di fattispecie penali giace con disinvoltura nell’universo dell’incommensurabile e produce, giocoforza, notizie di reato a mai finire direi che le percentuali sono più che fisiologiche e, da questo punto di vista, la nostra magistratura non potrebbe essere più solerte e operativa di così. Si può convenire sul fatto che sia patologico che in appello circa un quarto dei procedimenti termini con una declaratoria di estinzione del reato; ma credo si tratti di una patologia legata più al numero di notizie di reato in entrata che alla disciplina della prescrizione.
4. L’impatto della prescrizione sulla scelta di opporre appello e di non accedere ai riti alternativi. – I dati raccolti, in definitiva, porterebbero ad una conclusione allarmante: da un lato, molti appelli sarebbero depositati esclusivamente con la finalità di portare il processo verso il termine di scadenza della prescrizione; dall’altro, nessuno si gioverebbe dei riti premiali (e deflattivi) perché è più allettante attendere che il rito ordinario porti pian piano verso il proscioglimento per estinzione del reato. La prescrizione sembra essere responsabile di molti mali che affliggono il sistema processuale; anzi, a ben vedere, la prospettiva di lucrare un proscioglimento per prescrizione sarebbe responsabile, in una certa misura, del fallimento dell’intero impianto accusatorio, tanto in difficoltà anche per l’assenza di sufficienti alternative ai dibattimenti, troppi, lunghi e dispendiosi.
Per queste ragioni, sembra ragionevole aspettarsi dall’interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, tra le altre cose, «un disincentivo a presentare appello per finalità dilatorie» e «un incentivo ad accedere ai riti alternativi (in particolare al patteggiamento)»[8]. Ed infatti, il Primo Presidente della Corte di cassazione e il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione sono concordi nel ritenere che l’insuccesso dei riti premiali, ed in particolare del patteggiamento, sta nella «aspettativa pressoché certa della prescrizione», tanto che quest’ultimo afferma che «finché la prescrizione sarà, non un evento eccezionale causato dall’inerzia della giurisdizione, ma un obbiettivo da perseguire, nessun rito alternativo sarà appetibile»[9].
Si tratta di conclusioni che non condivido e, pur riconoscendo che moltissimi imputati scelgono il giudizio ordinario e poi ricorrono all’appello, vedo in questi fenomeni cause differenti dalla aspettativa della prescrizione.
Le domande che mi pongo sono le seguenti: perché un imputato sceglie il rito ordinario e non i riti premiali? Perché un imputato interpone appello avverso la sentenza di condanna di primo grado (ovvio che le impugnazioni dei proscioglimenti non ci riguardino, poiché il proscioglimento per estinzione del reato è il meno favorevole di tutti)? E, di conseguenza, quando un appello può dirsi davvero opposto con finalità esclusivamente dilatorie?
Giova avvertire che, in realtà, la risposta più ovvia a queste domande è che esse non hanno risposta se non esaminando ogni situazione concreta[10]. E tuttavia è ben possibile ragionare sui fattori che incanalano le scelte nella maggioranza dei casi, o almeno in via tendenziale. Allora un tentativo di vedere gli aspetti generali di alcuni fenomeni può essere fatto non solo con la prescrizione, ma anche con altre situazioni.
5. La scelta del rito. – Prima di assumere che l’aspettativa della prescrizione abbia una incidenza severa sulla scelta del rito dobbiamo, ritengo, capire bene che tipo di indagine e che tipo di imputazione l’imputato ed il suo difensore si trovano davanti. Non possiamo davvero credere che i contenuti del fascicolo non siano i primi dati su cui il difensore si basi per determinarsi sulla strategia da seguire. Tutti noi, avvocati, magistrati, studiosi, sappiamo benissimo quanto, nella quotidianità, le indagini siano talvolta poco curate, approssimative, insufficienti, e da ciò nascono, spesso, imputazioni ugualmente imprecise, mal calibrate in fatto e zoppicanti in diritto[11]. Allora, potremmo forse considerare la possibilità che di fronte ad una accusa che non convince né nella ricostruzione del fatto, né nella qualificazione giuridica di esso, un imputato non si sottoponga di buon grado e volontariamente alla pena o ad un procedimento, quello abbreviato, che lo porterà con tutta probabilità alla pena. È verosimile, piuttosto, che egli si convinca che la strada giusta sia sfidare quella imputazione davanti ad un giudice e nella pienezza delle possibilità difensive offerte dall’ordinamento: il da farsi, per il rispetto che si deve alla funzione e alla dignità della difesa, è proprio chiedere una verifica approfondita di quella ricostruzione fattuale e giuridica, se appare difettosa. Come ci si potrebbe sottrarre? Come si potrebbe resistere alla tentazione di far cadere in dibattimento quell’impianto così malmesso, e accontentarsi di una pena patteggiata irrogata sulla base di una contestazione che non torna? Sono intimamente convinto, da molto tempo, che nulla incentivi i riti premiali come indagini blindate e imputazioni assai precise: è di fronte a fascicoli e ricostruzioni convincenti che l’imputato vede nitidamente la prospettiva della condanna, ed è lì che valuta un rito alternativo. Sappiamo tutti, invece, come accada spesso che il pubblico ministero sia il primo a non profondere grandi sforzi nell’indagine se si intravede la possibilità di un patteggiamento[12], di un decreto penale di condanna e, capita, del tutto paradossalmente, persino di un rito abbreviato.
6. La frequenza e il numero delle impugnazioni. – Discorso analogo va fatto quando si valuta il numero delle impugnazioni e la frequenza con cui le sentenze di primo grado vengono, anzitutto, appellate. Come pretendere che un atto di appello non venga redatto e depositato se la ricostruzione della sentenza di primo grado non convince? Da un lato essa nasce da una imputazione che, come abbiamo detto, spesso è imprecisa e approssimativa. Dall’altro – e qui il problema dal monte si sposta alla valle – le decisioni di merito fanno propri orientamenti della Cassazione spesso assai discutibili. Noi studiosi siamo abituati a sottoporre continuamente a valutazioni critiche indirizzi di legittimità spesso incompatibili con la lettera dei codici, sostanziale e processuale o, nei casi più gravi, con quella della Carta costituzionale. E ciò accade sia nel diritto penale che in quello processuale. È impossibile esemplificare efficacemente in questa sede, ma confido che la descrizione del fenomeno risulti ugualmente comprensibile. Si tratta di ipotesi in cui la Cassazione vede sacche di responsabilità oggettiva, avalla imputazioni colpose che non rintracciano la regola cautelare violata, non riconosce inutilizzabilità pur sancite, considera sussistenti certi fatti solo sulla base di conversazioni intercettate (in materia di droga per esempio, senza che mai siano stati rintracciati denari o sostanze[13]): non sono difetti di singole sentenze; sono orientamenti consolidati, che intaccano tutte o molte sentenze di merito. Poiché le sentenze di merito recepiscono in blocco simili indirizzi, esse appaiono non conformi al diritto scritto (codici o Costituzione) e un difensore vorrà esaurire sempre l’intero percorso che gli è dato per mutare quella decisione. Spesso si è convinti che la nomofilachia svolga la sua funzione semplicemente perché lavora in modo circolare: la Cassazione esprime un orientamento, le sentenze di merito lo recepiscono in massa, l’impugnazione riporta alla Cassazione che confermerà quell’indirizzo. Poiché l’imputato ha contezza di tale meccanismo non impugnerà la sentenza perché sa bene che il solo risultato prospettabile è necessariamente la conferma dell’orientamento di legittimità adottato fin dalla prima decisione. È una descrizione, credo, molto parziale del fenomeno. Nelle democrazie è inevitabile che l’autorità si legittimi, infine, per l’accettabilità del suo operato. È una regola a cui la giurisdizione non sfugge. Quando un orientamento in materia sostanziale o processuale non è accettato dalla comunità degli operatori, di tutti gli operatori, perché confligge con ogni interpretazione possibile della legge o con i principi supremi della Costituzione, ci dobbiamo sempre aspettare che le sentenze che lo recepiscono vengano attaccate in tutti i modi possibili. Non credo che svanita la prospettiva della prescrizione, o frapposti ostacoli all’accesso alle impugnazioni, esse caleranno di numero. Un difensore impugnerà sempre una decisione che sente stridere con la legge, e sarebbe gravissimo se non fosse così, del tutto a prescindere dalla aspettativa dell’estinzione del reato. Nessuno, in un ordinamento democratico, rinuncerà mai a far ricorso a tutti i giudici disponibili al fine di vedere ripristinata la legalità che assume infranta. Perché mai egli non dovrebbe appellare una sentenza di cui si possa rintracciare un difetto, solo perché non è più attuale la possibilità che il reato si estingua?
Il ricorso ingente alle impugnazioni è da valutare, anzitutto, rispetto alla qualità media delle decisioni impugnate; poi, in seconda battuta, è innegabile che esso risenta anche della speranza di ottenere i vantaggi che le impugnazioni comportano in termini di decorso del tempo a fini estintivi. Ma penso sia plausibile ritenere che nella quasi totalità dei casi l’obiettivo reale dell’impugnazione sia la censura e la conseguente verifica della decisione opposta.
È intuibile la risposta all’ultima domanda: quando un appello può definirsi dilatorio? Per rintracciare gli appelli davvero interposti per esclusive finalità dilatorie dovremmo – e ciò è impossibile – prima escludere dal novero quegli appelli che, sebbene aumentino le possibilità che la prescrizione venga rilevata, insistono su sentenze in cui si possa isolare un vizio plausibile, riconducibile alla ricostruzione in fatto, oppure alla prospettazione della qualificazione giuridica di esso, oppure ancora a questioni processuali, tipicamente di diritto probatorio o inerenti alle invalidità o ancora alla competenza (sto ricorrendo a generalizzazioni statistiche delle questioni affrontate in modo maggiormente controverso dalla Cassazione; ovviamente il vizio può riguardare ogni possibile aspetto rilevante). Quegli atti non potranno mai essere definiti come dilatori, se individuano un vizio e sono ammissibili. Salvo che non si voglia chiedere ai difensori di non depositare appelli quando il vizio riscontrato non si rifletta in una massima della Cassazione, in nome del più alto bene collettivo. Il che, ovviamente, danneggerebbe proprio il bene collettivo.
Quando parliamo di appelli dilatori, quindi, credo che stiamo evocando un fenomeno che non si può davvero circoscrivere e, forse, in un certo senso marginale.
7. La comparazione con i sistemi stranieri. – Si tratta di un argomento suggestivo e non può essere trascurato. Tuttavia richiederebbe, da parte mia, uno studio approfondito rispetto al quale sono oggi inadempiente.
Mi limiterò, però, a qualche generale osservazione di metodo, da confinare accuratamente nelle mie percezioni personali. Assetti simili al nostro attuale, che qui si critica, sono propri di ordinamenti che certamente hanno a cuore i diritti fondamentali. Oltre a premettere, come è scontato, che non si possono comparare singole norme, ma vanno comparati quantomeno interi sistemi, mi sentirei di osservare che diverse culture giuridiche, a parità di diritto soggettivo protetto, spontaneamente possono maturare percezioni diverse della tutela necessaria e sufficiente che deve essere assicurata a quel medesimo diritto. Ossia, data una identica posizione soggettiva riconosciuta in due ordinamenti, essi possono ben considerare sufficienti due gradi diversi di protezione. Non deve scandalizzare che Spagna o Germania abbiano concepito soluzioni differenti dalla nostra tradizione, perché quelle posizioni possono ben essere adeguate, dato quel sistema. Ma non funzionerebbero più se esportate in un altro sistema, in una società differente; per ragioni legate al diverso assetto giuridico complessivo, ma anche per motivi attinenti alle molte sfumature della percezione sociale della amministrazione della giustizia.
Oppure, forse, certe possibilità che il potere si manifesti in modo del tutto sproporzionato sono escluse in contesti sociali diversi dal nostro: probabilmente un giudice tedesco non fisserebbe mai, costi quel che costi, una udienza di appello a distanza di cinque anni dall’atto introduttivo.
Forse ancora, semplicemente, in ogni società si tollera che certi diritti, pur sanciti, possano essere lesi in una certa misura. Accade anche da noi: per esempio, il contraddittorio nella formazione della prova, quotidianamente svilito da anni; la presunzione di innocenza in relazione alla confisca preventiva, problema che il legislatore non sembra prendere neppure in considerazione. Ciò può accadere in ragione del fatto che simili lesioni, pur sistematiche, sono poco frequenti oppure perché, pur in un contesto generale di irrinunciabile tutela, è sempre forte l’impulso di lasciare spazi di manovra all’autorità, alla quale, in certa misura, viene affidata la responsabilità di prendersi cura dei diritti del singolo nella situazione concreta. Sono tensioni che la legalità vive anche da noi – anzi da noi in misura forse eccessiva – quindi come possiamo escludere che la disciplina della prescrizione, nei paesi presi a riferimento, non sia anche lì espressione di una qualche patologia del sistema? Insomma se accadesse che un cittadino spagnolo o tedesco venisse condannato a distanza di quaranta anni dal fatto e questo fatto non fosse una strage che ha scosso la vita sociale, ma il furto di una bicicletta, e quindi un sessantenne venisse incarcerato per un reato commesso quando aveva venti anni, saremmo davvero convinti che questa situazione non manifesti alcun problema dal versante dei principi del diritto penale liberale, che è maturato in Italia come in tutta Europa? Anticipo l’obiezione: ciò in Spagna o in Germania non accade. Ma se domani accadesse?
Ancor meno convince poi l’esempio degli ordinamenti anglofoni: qui la prescrizione non è contemplata dopo l’azione penale, ma l’istituto dell’abuse of process svolge spesso, pur attenendo generalmente ai tempi del processo e non della punibilità, la funzione di determinare il proscioglimento per motivi legati al decorso del tempo anche dopo che l’accusa sia stata elevata[14]. Esso ben potrebbe, poiché la legge non lo impedisce, essere impiegato per evitare che un soggetto debba subire una condanna intempestiva, se l’autorità giurisdizionale dovesse valutare sproporzionatamente lesiva la scelta del pubblico ministero di esercitare l’azione penale nonostante sia decorso molto tempo dalla commissione del fatto, a prescindere da quanto sia durato il processo. E, più semplicemente, la stessa opportunità dell’azione penale potrebbe essere esercitata dalla pubblica accusa per non punire fatti commessi in tempi troppo risalenti, sebbene la legge astrattamente lo consenta. Scelte diverse sarebbero adottate sotto la responsabilità del pubblico ministero il quale potrebbe essere censurato dal giudice nel caso singolo; ma potrebbe persino risentirne il suo incarico, sia che questi venga eletto dal popolo sia che venga nominato dal Governo. Insomma, è vero che in questi ordinamenti non esiste la prescrizione così come noi la conosciamo, ma esiste una serie di meccanismi che può assolvere alla medesima funzione di garanzia dell’individuo.
In conclusione, questo scritto breve e tratteggiato a grandi linee vuole soltanto concretizzare la proposta di una lettura alternativa di certi fenomeni.
L’auspicio, e ciò è davvero importante, è che la comunità scientifica continui, come ora sta facendo, a rinforzare il suo ruolo nutrendosi di un dibattito sempre più autentico e franco che, a me pare, è appena iniziato.
[1] Se ne può avere riscontro, eventualmente, in F. Morelli, La prescrizione del reato, i tempi del processo, l’autorità senza tempo, in Riv. it. dir. e proc. pen., f. 3, 2019, p. 1599.
[2] G. L. Gatta – G. Giostra, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, in questa Rivista, 21 gennaio 2020. Meno di recente, esplorano questo aspetto della prescrizione F. Giunta – D. Micheletti, Tempori cedere. Prescrizione del reato e funzioni della pena nello scenario della ragionevole durata del processo, Torino, 2003, p. 35 ss. e S. Silvani, Il giudizio del tempo, Uno studio sulla prescrizione del reato, Bologna, 2009, p. 293, 294.
[3] Di recente, O. Mazza, La riforma dei due orologi: la prescrizione tra miti populisti e realtà costituzionale, in questa Rivista, 21 gennaio 2020 sostiene che l’interesse della collettività all’accertamento dei reati non si estingua più in seguito al trascorrere del tempo, anche per ragioni legate al sentire sociale.
[4] G. L. Gatta – G. Giostra, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, cit.
[5] G. Mammone, Corte Suprema di cassazione. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, 31 gennaio 2020, p. 29.
[6] Tralascio le percentuali relative ai distretti più problematici perché, ovviamente, risentono dei problemi del singolo distretto.
[7] G. L. Gatta – G. Giostra, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, cit.
[8] G. L. Gatta – G. Giostra, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, cit.
[9] G. Salvi, Intervento del Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, 31 gennaio 2020, p. 10.
[10] Avvertenza formulata da O. Mazza, La riforma dei due orologi: la prescrizione tra miti populisti e realtà costituzionale, cit.
[11] Studio rilevante, per il suo contenuto e per la scelta stessa del tema, quello di M.A. Bazzani, La qualità dell’imputazione, Bologna, 2006, spec. p. 23-65, in cui si indagano i difetti dell’accusa più ricorrenti nella prassi.
[12] Tanto che la giurisprudenza si è dovuta confrontare per anni con il tema del grado di accertamento della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti.
[13] Tema, questo, approfondito da O. Mazza, Introduzione, in O. Mazza (a cura di), Le nuove intercettazioni, Torino, 2018, p. XIV-XV.
[14] Degli utili riferimenti in S. Silvani, Il giudizio del tempo, Uno studio sulla prescrizione del reato, cit., p. 332 e 336-337.