1. L’uomo ha sempre avuto paura del male: del male criminale, così come del male naturale, della malattia o, peggio, delle epidemie. Per placare l’ansia derivante dalla paura del male, ha fatto sempre ricorso al meccanismo dell’imputazione del male a un soggetto “responsabile”: il che consente di coltivare la convinzione che sia in qualche modo possibile signoreggiare il male, senza essere ineluttabilmente alla sua mercé. L’elaborazione della categoria della responsabilità cela un inconsapevole ed irresistibile rito sacrificale del capro espiatorio. La civiltà giuridica s’incarica di tenere sotto controllo questa inconscia necessità del capro espiatorio cercando di conformare la responsabilità penale sul metro del reale potere dell’uomo di vincere ed evitare il male. La responsabilità che noi chiamiamo colposa è quella in cui questo compito è sempre stato più difficile: connaturata, infatti, al rischio insito nelle attività sociali, la responsabilità colposa si presta ad alimentare l’illusione che l’uomo sappia – abbia il potere – di controllare, ridurre o azzerare qualunque rischio, così allontanando da sé il male.
La “colpa penale” dei giuristi ha subìto negli ultimi decenni un processo di normativizzazione e oggettivizzazione, nel senso che il suo fulcro è stato ormai individuato nella violazione di regole cautelari disciplinanti le attività sempre più pericolose. In questa direzione ha operato largamente il legislatore, inseguendo con le sue molteplici discipline il contenimento di un rischio sempre più diffuso e mutevole ed assolvendo in tal modo il suo dovere primario di bilanciare gli interessi e i valori in gioco e consentendo alla società tecnologica di non soccombere al rischio. In questa direzione sono andati anche gli studiosi nel meritorio tentativo di assicurare la predeterminazione della regola cautelare, quale irrinunciabile garanzia di libertà di chi è costretto a muoversi nel rischio proprio della sua attività. La giurisprudenza ha, da parte sua, sempre coltivato l’idea che, oltre le regole cautelari prestabilite dallo Stato e dalle autorità, vi sia un dovere ulteriore e residuale di agire con la massima diligenza propria di un ideale agente modello: è questa una tendenza comprensibile ed entro certi limiti sicuramente legittima, diretta a massimizzare la riduzione del rischio e pertanto la tutela di beni supremi, quali essenzialmente la vita e la salute. Ma è anche una tendenza capace, se non ben governata, di aprire fatalmente la strada alla regola del “senno del poi”, alimentando inconsapevolmente lo schema – sempre latente – del capro espiatorio e la consolatoria convinzione che ogni rischio sia umanamente dominabile.
2. Nella situazione in cui siamo, di fronte ad un male tanto umanamente devastante nei suoi effetti quanto scientificamente oscuro nelle sue cause e nelle sue caratteristiche biologiche, ci troviamo ovviamente nel regno della colpa “generica”, cioè della sostanziale assenza di regole cautelari predeterminate, collaudate e in qualche modo consolidate. E poiché la paura indotta dalle epidemie è storicamente e antropologicamente una di quelle che più sconfina nel panico, è del tutto comprensibile che riaffiorino tendenze dirette a placare l’ansia con la ricerca di responsabili. La storia e la letteratura ne offrono esempi indimenticabili.
Qualche settimana fa ha suscitato l’indignazione dei più l’iniziativa di alcuni legali che fomentavano azioni giudiziarie nei confronti dei medici ritenuti responsabili di trascuratezze e negligenze foriere di morti e lutti. Conseguentemente, in sede parlamentare, si è cominciato a parlare di “scudi” legali per mettere al riparo i più esposti da queste spregiudicate – ed invero inqualificabili – iniziative e dal rischio di qualche sconsiderata condanna. Le due cose, la ricerca di responsabili ad ogni costo e la predisposizione di anomali “scudi” legali, si tengono e si alimentano reciprocamente: ed è facile prevedere che, una volta imboccata la via degli scudi, questi sarebbero destinati ad allargarsi verso l’alto, verso le posizioni apicali fino a includere i pubblici amministratori. L’una e l’altra prospettiva trovano il loro presupposto e il loro alimento proprio nella colpa generica: nel pericolo che questa delicata figura della colpa, per così dire “senza regole”, venga maneggiata senza la prudentia indispensabile affinché sotto il suo manto indistinto non riaffiori lo spettro del capro espiatorio.
3. Nonostante tutto, questa colpa “senza regole” e che si affida spesso ad un agente tanto modello da essere lontano – se non negato – dalla realtà, può tuttavia contare su qualche criterio orientativo che non dovrà assolutamente essere smarrito. Prima di tutto, e riguardo in specie ai sanitari, la considerazione attenta, minuziosa, scrupolosa di tutte le concrete circostanze in cui si sono trovati ad operare, appunto senza regole e nella straordinarietà della situazione, i vari soggetti chiamati a fronteggiare un rischio largamente sconosciuto. E poi, riguardo agli amministratori, il fatto che la istituzionale discrezionalità delle loro scelte non può per principio convertirsi in fonte di responsabilità penale sol perché sarebbe stato possibile scegliere meglio per la tutela più efficace della vita e della salute: l’errore non è per ciò solo sempre e necessariamente colpevole. L’esercizio della discrezionalità genera responsabilità penale solo quando nella decisione sia grossolanamente alterato l’ordine dei valori-scopo per la cui ponderazione è conferito quel potere discrezionale.
La nostra magistratura è, dunque, chiamata a fare esercizio di quella prudentia che sola riesce a tenere in bilico la colpa “senza regole” nel solco della responsabilità senza farla tracimare nello schema del capro espiatorio. E non dubitiamo che darà sicuramente prova di essere all’altezza del suo compito di custode della civiltà giuridica anche nel momento in cui l’ostilità della natura sembra scuotere finanche le nostre istituzioni giuridiche.