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  Recensione  
06 Ottobre 2020


M. Papa, Fantastic voyage. Un pénaliste au pays du mal, Iris, 2020 | La visualità delle fattispecie penali nel racconto di un viaggiatore speciale


 

1. Si respira l’aria finissima della cultura internazionale nel bel libro che Michele Papa ha dedicato alle specialità del diritto penale, un’opera apparsa in questi giorni nell’edizione francese con prefazione di Mireille Delmas Marty (Fantastic voyage. Un pénaliste au pays du mal, Iris ed. 2020) [1]. L’autore è davvero un grande viaggiatore, un comparatista a tutto tondo che ha attraversato vari continenti non solo per conoscere il diritto penale degli altri Paesi, ma anche per portare nelle Università di mezzo mondo il messaggio della penalistica italiana, con i suoi valori costituzionali e la sua visuale della legalità.

Il libro rivela subito un modo espressivo a più lingue. A cominciare dal titolo, in cui il vocabolo “voyage” assume una duplice valenza perché è una parola di conio francese migrata nei Paesi anglosassoni. Viene così ad emergere l’esistenza di un doppio passaporto di cui l’autore si serve per il suo viaggio.

Se poi si scorrono i titoli dei paragrafi, si tocca con mano l’intreccio di locuzioni e denominazioni espresse in lingue diverse. Dal latino della vecchia Europa, all’inglese del nuovo mondo, per approdare infine allo spagnolo del continente sudamericano. Un crogiolo di idiomi che la dice lunga sulla formazione culturale di Michele Papa.

Ma c’è di più. Il peregrinare tra «les formes visibles de l’injuste» – questa la formula usata da Mireille Delmas Marty nella prefazione (p. IV) – dà vita ad un genere letterario non riconducibile ai tradizionali modelli della produzione giuridica. E non tanto per la natura “fantastic” che l’autore attribuisce al suo viaggio. Essa non va intesa come qualità che denota un procedere del tutto sganciata dal reale. L’indagine sulle fattispecie penali della parte speciale non ha niente di inventato o di fantasioso. Il termine inglese fantastic manifesta la gioia per l’importanza della scoperta, non il carattere virtuale dei mezzi che la hanno resa possibile. È l’iconografia dei fatti di reato a sancire, come meta raggiunta, la festosa meraviglia per l’approdo ad uno splendore delle forme di manifestazione dell’illecito, rimasto troppo a lungo trascurato.

La verità è dunque che il voyage nell’arcipelago della parte speciale non è né un saggio, né una monografia di dogmatica giuridica, ma una ricerca sul linguaggio delle norme penali condotta con il periscopio della semantica e della sociologia della comunicazione rivolto sull’enunciabile e sul percepibile. È evidente il parallelismo con i visual studies che si stanno diffondendo nel pensiero giuridico contemporaneo [2]. L’accento viene posto sulla visualità delle forme dell’illecito e quindi sulla iconografia delle condotte criminose. Ed è per questo che il viaggiatore penetrato nel territorio della specialità illustra il suo peregrinare con immagini tratte da opere d’arte o con segnali attinenti alla circolazione stradale ovvero con tavole tratte da libri antichi dedicati alla catalogazione dei reati. Tutto questo variegato materiale conferma che Michele Papa intende operare come un fotografo che raccoglie le forme visibili della iconografia penale.

 

2. Dice bene l’autore che il suo è un lavoro di «trivellazione», uno scavo attento e meticoloso nelle viscere del vocabolo “speciale”. I giacimenti culturali e semantici della parola vengono esaminati con le lenti della analisi del linguaggio, della sociologia della comunicazione con i suoi visual studies e, infine, utilizzando l’arsenale preso a prestito dagli studi di diritto e letteratura. Ne scaturisce così la scoperta di un significato che denota una qualità essenziale della descrizione dei fatti tipici di rilevanza penale.

Non è una operazione che si risolve in un mero nominalismo. Ciò che Papa rintraccia all’esito del suo percorso esplorativo è un attributo necessario del linguaggio normativo con cui sono descritte le forme degli illeciti penali.

La dicotomia generale/speciale nell’uso linguistico corrente esprime, come si sa, una coppia di concetti in cui alla estensione massima del modello corrispondente al genus fanno riscontro più species che definiscono gli elementi tipici delle singole fattispecie. La “parte speciale” designa quindi, secondo un criterio quantitativo, un ambito più ristretto rispetto al genus dei requisiti necessari a configurare la totalità dei reati. La nuova specialità scoperta da Papa si muove invece su un piano che investe la qualità del prodotto linguistico espressivo dei fatti tipici. Insomma, “speciale” non indica soltanto le quantità delle informazioni indispensabili per ricostruire le singole fattispecie. Al di là delle “specialità quantitative” – si potrebbe dire –, c’è una “specialità qualitativa”, rinvenibile nella visualità connaturale alla descrizione delle figure criminose. Ciò che l’autore estrae dall’aggettivo “speciali” è appunto «l’idea di una visione avente ad oggetto le forme, le sembianza attraverso cui la realtà si manifesta» (p. 17).

Sul piano semantico, l’intuizione di Papa trova conferma anzitutto nelle radici latine del vocabolo. Basta pensare alla esclamazione contenuta in una favola di Fedro: «Quanta species sed cerebrum non habet». Oppure al ben noto proverbio: «Saepe species ingannat». La species dei romani rinviava alle sembianze, alla apparenza, a ciò che di una persona e di una cosa si percepisce dall’esterno. Ma questo significato è transitato solo in parte nella lingua italiana. Ad esempio l’aggettivo “specioso” designa, con riferimento il più delle volte ad un argomento, il suo carattere appariscente, ma debole o inconsistente, tutta forma e niente sostanza. E anche nella frase: «mi fa specie», il significato è quello della meraviglia che affiora come sensazione conseguente ad una certa percezione.

A ben vedere quando Papa riconosce alla locuzione “parte speciale” un valore semantico che evoca la visualità dei fatti costitutivi di reato nel linguaggio legislativo compie una operazione che si risolve nell’offrire una “definizione esplicativa[3]. Ed invero egli prende il significato del termine “speciale” che affiora dal passato e sopravvive in qualche angolo del nostro presente linguistico per rilanciarne la forza espressiva in chiave di luminosità delle figure criminose. E del resto è lo stesso concetto di “fattispecie” a designare di per sé nel modo più marcato l’esigenza che i fatti tipici siano forniti di una “specie”, cioè descritti mediante una nitida iconografia.

Ma il viaggio di Papa non si ferma alla stazione della linguistica. Continua sul terreno della comunicazione che fa capire come il bisogno di visualità del legal discourse deve essere soddisfatto per sciogliere ogni ambiguità sul piano del messaggio rivolto ai destinatari delle norme incriminatrici e ai giudici chiamati a farne applicazione. La prescrittività figurativa è funzionale alla creazione di precetti che devono poter essere intesi senza fraintendimenti perché la loro violazione comporta l’applicazione della pena, la più grave delle sanzioni sociali previste dall’ordinamento. Proprio per questo – si potrebbe aggiungere – gli imperativi morali e i comandamenti possono risolversi in divieti a struttura aperta, improntata ad un generico finalismo. Non basta invece scrivere “non uccidere” o “non rubare” quando la posta in gioco è un castigo che comporta la perdita della libertà o dell’onore.

La terza leva cui Papa mette mano per dimostrare il fondamento delle specialità iconografica è quella che ho definito più sopra come arsenale appartenente all’area del law and literature. L’autore offre una ricchissima raccolta di icone tratte dalle arti figurative e da altre fonti extragiuridiche che forniscono le «immagini tipizzate del male» (p. 59). La rappresentazione figurativa dell’illecito penale nell’arte – osserva giustamente l’autore – acquista una maggiore efficacia rispetto a quanto può fare la scrittura. Non a caso – si può aggiungere – il pensiero antico identifica nel corpus delicti l’essenza dei maleficia. Il riferimento alla “corposità” dell’episodio delittuoso, rimarca la necessità di rappresentare il male in tutta la sua macroscopica evidenza, probabilmente per mostrarne tutto l’orrore, almeno prima del secolo dei lumi che darà invece risalto alla garanzia della legalità.

Sono molto piacevoli le pagine dedicate al diverso modo di rappresentare il male nella produzione artistica. Dal simbolismo che ispira Giotto ad evocare con figure femminili l’incostanza e l’infedeltà, al realismo delle immagini contenute nello Specchio dei Sassoni che descrivono minutamente le azioni esecutive della rapina o del furto incendiario. È un campionario suggestivo che mostra come le icone abbiano da sempre soddisfatto il bisogno conoscitivo degli illeciti penali (p. 46).

 

3. Raggiunta la meta della specialità figurativa, disseppolta dall’oblio in cui era precipitata nella cultura penalistica moderna, il viaggio di Michele Papa arriva ad affacciarsi sul paesaggio che si scorge nella parte speciale del diritto penale contemporaneo di casa nostra. E registra uno scarto tra il dover essere della visualità e l’effettiva opacità del linguaggio legislativo che descrive le fattispecie penali (p. 159). Interrogandosi su questa anomalia che dà origine ad una vera e propria crisi della legalità penale, l’autore manifesta uno sconforto che gli fa scrivere: «la specialità iconografica delle norme incriminatrici sembrerebbe non avere futuro» (p. 137). E si impegna quindi nella ricerca di tecniche comunicative di tipo diverso. Escluso il modello della digitalizzazione, l’attenzione si concentra sulla via analogica nel proposito di trovare più efficaci modi espressivi. Anche questo fronte si rivela però insoddisfacente. La cosiddetta leva della «realtà aumentata», offerta dalla prospettiva di utilizzo delle tecnologie moderne come gli audiovisivi non sembra offrire orizzonti rassicuranti (p. 253).

Si riapre quindi la strada del ritorno alla visualità prescrittiva assistita e rafforzata da un novum definito in termini di «rapporto metaforico». Viene qualificata in questo senso la relazione sussistente «tra il fatto vietato e l’ingiusto ad esso retrostante» (p. 260).

È però difficile convincersi che l’abbinamento della metafora alla precettività figurativa possa assicurare un più saldo costrutto comunicativo dei contenuti della norma incriminatrice. Il parlar per metafore di un legislatore intenzionato a far capire l’ingiustizia del fatto già descritto con incisiva luminosità dà luogo a un netto conflitto di modi espressivi. La metafora è di per se stessa un traslato rispetto alla realtà cui ci si riferisce in modo indiretto e sfumato, con similitudini. Certo, anche la metafora opera mediante una figura, proprio come la fattispecie iconografica della norma incriminatrice, ma si tratta di una immagine diversa e assai più tenue di quella che scaturisce, secondo il convincimento dello stesso autore, dalla specialità figurativa che è netta e scultorea. Del resto, l’espressione tangibile dell’ingiusto scaturisce direttamente dal raccordo del fatto tipico con la parte generale, nell’ambito di un rapporto species/genus che non ha nulla di metaforico.

Il ricorso alla metafora dimostra comunque che Papa, pur avendo espresso una sorta di requiem per la «fattispecie ben temperata», di fronte ai modi espressivi opachi dell’attuale linguaggio legislativo penale continua a credere fortemente nella garanzia della specialità iconografica. È vero che anche per l’autore essa è un paradise lost, per riproporre il titolo del famoso poema di John Milton, ma, con il suo appassionato impegno nella ricerca di nuovi modi descrittivi delle norme incriminatrici, ci fa capire che la sua meta è proprio il paradise regained.

Forse si potrebbe ribaltare la prospettiva. E affermare che il vero obiettivo dovrebbe essere oggi non già quello di cercare nuove forme del linguaggio legislativo penale, puntando invece a far sì che il legislatore si astenga dal coltivare la sua bulimia repressiva e rinunci ad estendere ulteriormente l’area del penalmente rilevante, giungendo parallelamente a depenalizzare quelle materie, come ad esempio molti settori del diritto penale amministrativo, che non rendono possibile la descrizione di fatti tipici assistiti dalla luminosità figurativa. Inutile perseguire la mission impossibile di escogitare forme comunicative del fatto che riescano a superare, ad esempio, la farragine normativa delle fonti da applicare per dare una credibile fisionomia ad un reato ambientale. Più semplicemente questa materia opaca e non visualizzabile andrebbe lasciata interamente nel dominio del diritto amministrativo. Non bisogna dimenticare l’insegnamento di Ludwig Wittgenstein che ammoniva: «di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Il silenzio del legislatore o il suo sonno, come invoca argutamente il sociologo J. Carbonnier[4], rafforza la legalità penale impedendo gli sproloqui normativi straripanti e incomprensibili.

 

 

[1] La seconda edizione italiana del volume, interamente rinnovata e ampliata rispetto alle prima edizione , è stata pubblicata nel dicembre 2019 (Fantastic voyage. Attraverso la specialità del diritto penale). Torino, Giappichelli). Le citazioni fatte nel corso della presente nota rinviano alle pagine di quest’ultima edizione.

[2] V. ad . es., A. Wagner e R.K. Sherwin, eds. Law, Culture and Visual Studies, 2014

[3] R. Robinson, Definition, Oxford University Press, 1972, che chiama “lessicale” la definizione rivolta verso il passato, per registrare gli usi linguistici istituiti, e “stipulativa” quella proiettata verso il futuro, così da creare significati del tutto nuovi.

[4] J. Carbonnier, Droit flexible, trad. it, Il flessibile diritto, Per una sociologia del diritto senza rigore, Milano, 1997.