Recensione  
17 Marzo 2023


Recensione a F. Bellagamba, Il reato abituale. Prospettive per una possibile lettura rifondativa, Torino, Giappichelli, 2022, IX-304.


Roberto Bartoli

1. Il recente libro di Filippo Bellagamba “Il reato abituale. Prospettive per una possibile lettura rifondativa” ha tre grandi meriti. Il primo è di cogliere e tracciare la traiettoria lungo la quale si sviluppa l’evoluzione dogmatico-concettuale del reato abituale: per dirla con il grande Paolo Grossi, l’Autore non si limita a sostare sul punto – a dire il vero molto articolato e complesso – dell’oggi, ma tenta, a nostro avviso riuscendoci, di individuare la linea che nel trascorrere del tempo unisce i diversi punti nei quali si sono concretizzate le più salienti e significative trasformazioni.

Secondo merito è di compiere una delimitazione esterna della figura del reato abituale, andando ben oltre la categoria dei reati di durata. Tradizionalmente, infatti, il reato abituale, caratterizzato strutturalmente da una protrazione temporale, viene contrapposto ai reati diversi dagli istantanei, a cominciare dal reato permanente. Bellagamba non si limita a questo, ma allarga la visione, mettendo in relazione soprattutto il reato necessariamente abituale improprio e quello eventualmente abituale con il reato complesso e quello continuato, e quindi muovendosi su un percorso di indagine rimasto spesso in ombra, ma destinato a dare risultati di ricerca decisamente innovativi, con particolare riguardo alle enormi e diffusissime problematiche interpretative e applicative che ruotano attorno al trattamento del concorso materiale di reati in deroga al cumulo materiale.

L’ultimo merito è di confrontarsi con estremo equilibrio con la dimensione normativa e quella giurisprudenziale, mettendo in evidenza pregi e difetti di entrambe le prospettive. Da un lato, il legislatore è sempre più orientato a valorizzare la reiterazione in termini di disvalore e quindi in malam partem, ma trova difficoltà a configurare attraverso la mera reiterazione tipi criminosi che poi siano in grado di unificare siffatto disvalore, come dimostra, ad es., l’aver previsto negli atti persecutori eventi da produrre che mal si conciliano con la reiterazione. Dall’altro lato, dietro a una certa caoticità degli orientamenti giurisprudenziali, sembra nascondersi la difficoltà della giurisprudenza ad orientarsi davanti alla ambiguità della abitualità, a volte esprimente maggior disvalore, altre volte invece valorizzata, come nel caso del reato eventualmente abituale, per attenuare il trattamento sanzionatorio, sempre più esposto a pene edittali draconiane. E Bellagamba offre chiavi risolutive di problematiche applicative vòlte a dare una coerenza sistematica all’intera disciplina, senza restare però imprigionato in radicalismi dogmatici che non si confanno a questo tema, ma lasciandosi ispirare dai principi con realismo ed equilibrio.

 

2. Primo punto: la linea. Si potrebbe dire che l’abitualità del reato nasce in una prospettiva soggettivistica, se non addirittura basata sul tipo d’autore: in origine l’abitualità viene concepita come abitualità criminosa ovvero come sintomo della tendenza/ostinazione delittuosa dell’agente in una prospettiva di pericolosità. Un’attenzione alla persona che tuttavia scivola in valutazioni che prescindono – per così dire – troppo da una fattualità sufficientemente circoscritta. Nel tempo l’abitualità si oggettivizza come elemento capace di incidere sul disvalore del fatto, e se in una prima fase assume i connotati di elemento accessorio qualificato come circostanza aggravante, progressivamente essa viene attratta all’interno del fatto tipico, e più in generale del tipo criminoso, come elemento capace di incidere sul disvalore dei fatti e più precisamente di trasformare la stessa dimensione assiologica che ispira i fatti in termini qualitativi. Ed è questa, a mio avviso, la cifra profonda della ricostruzione e rifondazione di Bellagamba: “l’abitualità” – scrive l’Autore – “nella perpetrazione dell’azione tipica, innesta una degenerazione assiologica che, da sola, appare sufficiente a spiegarne il senso ed il tenore unitario, contribuendo a definirne i requisiti intrinseci e, al tempo stesso, a renderla altro rispetto ai modelli delittuosi a sé più vicini”.

Ciò è evidentissimo nei reati necessariamente abituali propri, dove la reiterazione di fatti che di per sé non costituiscono reato è capace di trasmutare la dannosità extrapenale in offensività penale e quindi di fondare lo stesso disvalore offensivo: si pensi al delitto di atti persecutori. Ma ciò è evidente anche nei reati necessariamente abituali impropri: certo, come vedremo, qui il discorso si problematizza, anche perché, costituendo i singoli episodi di per sé reato, la reiterazione è componente comune anche ad altre tipologie di reato, come quello complesso e quello continuato, oltretutto orientate a trattamenti sanzionatori di favore. Tuttavia, si può osservare come, innestandosi all’interno di particolari contesti, soprattutto relazionali, la reiterazione può divenire tale da determinare un quid pluris di disvalore, come avviene, ad es., per il delitto di maltrattamenti in famiglia che, a ben vedere, può essere qualificato come reato necessariamente abituale, sia proprio che improprio: insomma, le molteplici percosse reiterate nel tempo ai danni della convivente fanno slittare l’intera vicenda da singole offese all’incolumità, ad una offesa che tende a coinvolgere la stessa personalità della vittima, e non è un caso che la giurisprudenza, come riporta puntualmente Bellagamba, ai fini della integrazione della fattispecie richieda la creazione di un “regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile”, che va ben oltre la mera incolumità.

Connesso a questo tema, v’è quello della consistenza dell’abitualità. Mentre per i reati necessariamente abituali propri può essere sufficiente la mera reiterazione dei fatti da stringere in una arco temporale sufficientemente delimitato, per quelli abituali impropri si impone un qualcosa di più consistente che non è sempre agevole da individuare, anche perché, come accennato, la differenza tra necessariamente abituale improprio e trattamenti del concorso materiale di reati in deroga al cumulo materiale sta nel fatto che questi ultimi giocano a favore, mentre il primo esprime un disvalore assai più consistente. Ecco riaffacciarsi la necessità di valorizzare la dimensione relazionale che intercorre tra i soggetti e che sembra essere idonea a delimitare “il campo” entro il quale la reiterazione è destinata a colorare i singoli reati di un nuovo e diverso disvalore. Non solo, ma a ben vedere, al fine di rafforzare l’unificazione dei singoli episodi non si può fare a meno di registrare quella tendenza, alla quale abbiamo fatto cenno, sia del legislatore (come nel caso degli atti persecutori) che della giurisprudenza (come nel caso dei maltrattamenti), a valorizzare eventi/conseguenze/effetti, venendosi a creare un’inevitabile difficoltà, ben messa in evidenza da Bellagamba, nella “gestione” della reiterazione assieme alla produzione di eventi.

 

3. Passiamo al secondo merito, quello della definizione dei confini esterni. La grande questione riguarda il rapporto tra il reato eventualmente abituale e le discipline del concorso materiale di reati in deroga al cumulo materiale e quindi di favore (reato continuato e reato complesso). Ebbene, in piena coerenza con il proprio ragionamento di fondo, Bellagamba finisce per criticare l’autonomia della categoria del reato eventualmente abituale, risultando un vero e proprio controsenso l’idea che un solo episodio integri il reato e che quelli successivi possano essere attratti in un unico reato senza che il fato tipico compia un minimo cenno alla reiterazione: “delle due l’una: se è vero che anche una sola condotta è penalmente apprezzabile, è allora giocoforza concludere che la reiterazione si riversi integralmente nella fase post-consumativa; al contrario, ove si reputi che la norma richieda più condotte ai fini della consumazione del reato, quest’ultimo non potrebbe che essere ricondotto nel novero dei reati necessariamente abituali”. Non solo, ma attraverso la figura del reato eventualmente abituale, il concorso materiale omogeneo viene sottratto al regime di favore del reato continuato per essere per l’appunto attratto in quello ancora più favorevole del reato eventualmente abituale, giocando nella sostanza l’abitualità non in termini fondativi di disvalore, ma a favore.

Il re è nudo. D’altra parte, Bellagamba osserva – e in questo non può non apprezzarsi un sapiente equilibrio – come questa operazione dogmaticamente non troppo rigorosa abbia un senso sul piano del trattamento sanzionatorio, visto che nei reati eventualmente abituali la reiterazione si pone come una sorta di ordinaria progressione disvaloriale che pur muovendo dalla integrazione di una singola fattispecie incriminatrice si realizza concretamente attraverso plurime fisiologiche manifestazioni, strettamente correlate al modo in cui si svolgono di regola gli accadimenti. Insomma, alla fin fine siamo in presenza di una sorta di assorbimento riferito a una singola fattispecie incriminatrice.

Ebbene, questo disvelamento è quanto mai prezioso perché consente di gettare ancora più luce proprio su quella realtà sempre più ampia e divenuta ormai caotica degli strumenti impiegati soprattutto dalla giurisprudenza per trattare il concorso materiale di reati in deroga al cumulo materiale. Si pensi agli stessi criteri dell’assorbimento e della sussidiarietà elaborati per stabilire se si sia in presenza di un concorso apparente norme o di un concorso formale di reati, ma che in realtà trattano prevalentemente ipotesi di concorso materiale. Ma si pensi anche allo stesso reato continuato, dove ormai si è totalmente smarrita l’unificazione soggettiva, risultando spesso neutralizzato non soltanto lo scopo unificatore, ma addirittura anche la stessa programmazione. Insomma, dietro a tutta la tematica del trattamento sanzionatorio del concorso di reati, sia esso formale o materiale, sta soprattutto un problema di proporzione di pena.

 

4. Ultimo merito del libro di Bellagamba è la trattazione sistematica di molteplici problematiche applicative, dove il reato abituale viene messo in rapporto con i principali istituti di parte generale. Anche in questo caso non mancano spunti fecondi, in linea con lo spirito “rifondativo” che ispira l’intera ricerca.

A titolo esemplificativo merita segnalare la soluzione estensiva che il testo propone in ordine sia alla configurabilità del tentativo nel reato abituale sia alla potenziale rilevanza del contributo atipico ai fini della disciplina concorsuale. Con riguardo ad entrambi gli istituti si assume una posizione alternativa rispetto all’orientamento della dottrina tradizionale: nel caso del tentativo, sul presupposto che il “nuovo” modello dell’art. 56 c.p. consente di ravvisare gli attributi dell’idoneità e dell’univocità anche in una fase antecedente a quella esecutiva dell’iter crimins; nel caso del concorso di persone, muovendo dalla convinzione che, ove il terzo fornisca un contributo causale all’ultimo episodio della reiterazione nella consapevolezza di intervenire su di una serie di fatti che ha già subìto un mutamento nella sua portata disvaloriale, non vi siano ostacoli a ritenerlo correo.

Inoltre, di particolare interesse risulta l’evidenziazione della differente qualificazione alla quale vanno incontro i reati di sfruttamento della prostituzione e di sfruttamento del lavoro: il primo qualificato come reato eventualmente abituale, il secondo invece no. Ebbene, qui emerge con tutta la sua forza la dimensione disvaloriale della abitualità, che, in quanto condizionata dai presupposti assiologici, finisce per risultare necessariamente ambigua. Tuttavia, a ben vedere, i fenomeni dello sfruttamento della prostituzione e dello sfruttamento del lavoro non possono non avere letture differenti, visto che mentre nel primo lo sfruttamento si innesta su una attività che è di per sé lecita e viene esercitata senza coercizione e che la società avverte cariche di un disvalore soprattutto morale (non è un caso che poi siano nati i nuovi reati contro la personalità che si basano invece su condotte costrittive), nel secondo invece si assiste a una vera e propria degradazione della persona in considerazione dell’approfittamento della condizione di vulnerabilità consistente nello stato di bisogno.

 

5. L’ultimo lavoro di Bellagamba va salutato con favore e non sembra inappropriato ritenere che possa rappresentare un contributo di rilievo al fine di riattualizzare un confronto dogmatico su un istituto che, a onor del vero, è stato sin qui relegato nel ruolo di ancella nella famiglia delle fattispecie di durata, ma che dal punto di vista pratico applicativo è destinato ad assumere sempre più rilevanza giuridica, non soltanto a causa dei nuovi reati introdotti (“caporalato” e “traffico di rifiuti”) e di quelli che sono sempre più applicati (maltrattamenti e atti persecutori), ma anche in virtù di una tendenza – per così dire – politico-culturale a riconfigurare tipi criminosi il cui disvalore si incentra su più condotte: insomma, la sempre maggiore attenzione per la persona non può che indurre a distinguere tra offese istantanee e offese reiterate.