ISSN 2704-8098
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  Recensione  
06 Settembre 2021


S. Canestrari, Ferite dell'anima e corpi prigionieri. Suicidio e aiuto al suicidio nella prospettiva di un diritto liberale e solidale, Bononia University Press, 2021


1. La vertiginosa accelerazione conosciuta negli ultimi anni dalla riflessione giuridica sui temi del fine vita può indurre a volte l’osservatore a spostare già tutta la propria attenzione sul “prossimo passo” che sarà compiuto nella disciplina della materia – vuoi sotto forma di nuova sentenza della Corte costituzionale, di legge parlamentare o di referendum popolare.

Se sviluppi ulteriori sembrano in effetti inevitabili nel prossimo futuro, ogni mutamento dovrebbe però andare in parallelo con uno sforzo ponderato e disteso volto a mettere ordine nel tratto di strada fin qui percorso, anche in vista dei numerosi bivi che sono destinati a presentarsi ancora in un territorio notoriamente divisivo.

A questa esigenza risponde, con le movenze della riflessione dottrinale condotta da una visuale privilegiata, il recente libro di Stefano Canestrari, che nella sua veste di Ordinario di Diritto penale è membro dal 2006 del Comitato Nazionale per la Bioetica.

 

2. Oggetto specifico della trattazione sono i profili di rilevanza penale e di liceità del suicidio e delle condotte di cooperazione di terzi: le questioni, vale a dire, rispetto alle quali si è registrata l’evoluzione più impetuosa, imposta dalle decisioni della Corte costituzionale del 2018-2019, e per le quali risulta più urgente il bisogno di una “messa a punto”.

In questo ambito ben definito, il volume non indugia nel riepilogare le tappe che hanno portato all’assetto attuale in materia, ma si confronta direttamente con lo stato dell’arte e con alcuni dei principali problemi che esso solleva, sia a livello teorico che applicativo, sia sul piano metodologico che su quello delle opzioni di merito. Lo sforzo ricostruttivo è tutto orientato a rintracciare nel quadro vigente quella coerenza sistematica che non sempre emerge negli arresti giurisprudenziali rilevanti e nel dibattito scientifico che essi hanno generato.

L’argomentazione, che si snoda attraverso undici agili paragrafi, sviluppa essenzialmente tre tesi, tra loro correlate: (i) l’opportunità di tenere distinti, quanto a natura e disciplina delle relative condotte agevolatrici, il suicidio “tradizionale” e il suicidio “medicalmente assistito”; (ii) la centralità dell’accertamento di una decisione libera e consapevole da parte dell’aspirante suicida, e la difficoltà – se non l’impossibilità – di tale accertamento nei casi di suicidi del primo tipo; (iii) la necessità di una concreta possibilità di accesso alle cure palliative come condizione di fatto per una scelta autenticamente libera.

 

3. La distinzione tra le due tipologie di suicidio è un passaggio cruciale del libro. Nella prospettiva dell’Autore, a essere assunto come riferimento dal legislatore storico sarebbe il suicidio “tradizionale”, determinato dai fattori più vari ma in definitiva legato a una condizione di sofferenza esistenziale (le «ferite dell’anima» richiamate nel titolo del volume); andrebbe invece considerato a parte – non un gemello, neppure un fratello, ma «un parente che si ribella ad una “convivenza forzata”» – il suicidio “medicalmente assistito”, connotato dalla condizione di salute irrimediabilmente compromessa di coloro che lo invocano e che, non padroni dei propri «corpi prigionieri», per ottenerlo necessitano della collaborazione del personale sanitario.

Questa reciproca perimetrazione è lo strumento concettuale che l’Autore propone per mantenere anzitutto il ragionamento al sicuro da possibili «capovolgimenti non consapevoli» o dalla tentazione di generalizzare le recenti aperture di spazi di liceità penale in materia di fine vita. Riconoscere a ciascuna categoria di suicidio un proprio ambito di autonomia impedisce che l’elaborazione di un particolare statuto per le richieste di suicidio medicalmente assistito porti in automatico l’interprete a estendere le medesime regole al suicidio tout court, stravolgendo i caratteri del trattamento che l’ordinamento tradizionalmente riserva al fenomeno e a cui l’Autore manifesta la propria motivata adesione. Tra questi spicca la natura del suicidio “classico” quale atto ormai affrancato da coloriture di illiceità, inquadrato nella dimensione delle mere facoltà o libertà di fatto, irriducibile alla categoria del diritto soggettivo e legittimamente oggetto di azioni di prevenzione da parte delle istituzioni: sarebbe indesiderabile rinunciare a questo delicato equilibrio, sensibile anche a ragionevoli istanze solidaristiche, per una (infondata) esigenza di uniformità rispetto alla figura del “diritto al suicidio”, che dovrebbe semmai trovare il proprio terreno elettivo nei casi di morte medicalmente assistita ma di cui l’Autore non manca di sottolineare la problematicità, anche rispetto a tali ipotesi (dove, portato alle estreme conseguenze, dovrebbe condurre a depenalizzare alcune condotte di istigazione).

Per dimostrare il valore euristico della dicotomia illustrata, l’Autore procede a rileggere attraverso queste nuove lenti le motivazioni delle decisioni con cui i giudici costituzionali in Italia e in Germania si sono di recente pronunciati sul tema dell’aiuto al suicidio. Particolare approfondimento è dedicato al caso tedesco, grazie allo spunto offerto dal richiamo, nella sentenza della Corte federale, all’assenza di studi scientifici in grado di dimostrare un’associazione statisticamente significativa tra il libero accesso alle procedure di aiuto al suicidio e un maggior pericolo per la libertà di autodeterminazione dei richiedenti. Anche qui l’Autore si premura di mettere in guardia contro possibili inversioni logiche e sovra-estensioni dei principi affermati, peraltro nel contesto di un altro ordinamento, in relazione a una particolare categoria di suicidio. Infatti, può essere accettabile che il criterio empirico addotto dalla Corte costituzionale tedesca sia stato impiegato per dichiarare illegittima una norma, introdotta pochi anni or sono, che – mediante un reato di pericolo astratto – puniva l’aiuto al suicidio al fine dichiarato di evitare strumentalizzazioni commerciali delle richieste di morte medicalmente assistita, in contrasto con un tradizionale approccio di non criminalizzazione. Diversamente, l’interprete italiano deve fare i conti con una fattispecie penale la cui giustificazione politico-criminale poggia su una generalizzazione che il codice del 1930 riferiva (inevitabilmente) al solo “suicidio tradizionale”. Questa dimensione, osserva l’Autore, rimane in ombra nelle argomentazioni dei giudici tedeschi, mentre è proprio guardando al suicidio nella sua versione “classica” che può avere senso interrogarsi sulla ragionevolezza di un generale divieto al suicidio, in quanto funzionale a prevenire la possibilità non remota che il richiedente – al di fuori dal sistema sanitario – sia vittima di abusi da parte di terzi «interessati» per ragioni emotive o economiche.

 

4. Nel prosieguo del libro, il trattamento differenziato delle due tipologie di suicidio, già percepibile dalle considerazioni che precedono, trova il riscontro più evidente in quella che viene definita come questione «cruciale» in materia: l’accertamento di una decisione libera e consapevole dell’aspirante suicida.

Riprendendo una tesi già formulata in altri suoi recenti scritti, l’Autore, forte dell’incontro con i saperi umanistici e sperimentali che compongono la suicidologia, sostiene l’acquisizione per cui il suicidio “tradizionale” sarebbe un evento psichico misterioso, di fatto insondabile nelle sue ragioni ultime e spesso instabile: non sono dati regole né criteri fissi, sicché qui sarebbe fuorviante ipotizzare l’esistenza «di un “valutatore”, di un “perito”, di un “esperto”». Di fronte alle «ferite dell’anima», si afferma, è difficile «persino concettualizzare un procedimento finalizzato a valutare l’“abnormità” di un gesto definitivo di autoannientamento». Questa convinzione vale a corroborare nell’esito anche la scelta della Corte costituzionale italiana di non caducare del tutto l’incriminazione dell’aiuto al suicidio: ciò non tanto per la necessità di difendere categorie di persone “vulnerabili” in quanto tali, quanto piuttosto per il motivo che esisterebbe sempre un’area – corrispondente appunto al suicidio esistenziale – in cui abusi e manipolazioni, tutt’altro che improbabili, non potrebbero mai essere verificati.

Lo scenario muta quando dal disagio puramente esistenziale il libro sposta lo sguardo alla dimensione del «corpo». L’accertamento della volontà del richiedente diventerebbe praticabile – questa l’idea di fondo – solo in un contesto medico, che a sua volta presuppone una base organica del “male” che affligge la persona; una soluzione che avrebbe il pregio di accordarsi (pur senza coincidere) con la classe di situazioni descritta dalla Corte costituzionale, con i noti requisiti di cui alle lettere a), b) e c), nel tracciare i confini di liceità dell’aiuto al suicidio. Di particolare interesse, nel quadro attuale del biodiritto penale, la spiegazione che il libro propone per evitare una chiusura totale alle istanze di morte assistita, quale altrimenti discenderebbe a fortiori dalla considerazione per cui i malati più gravi sono quelli in cui più è difficile indagare l’esistenza di una autentica volontà di morte: secondo l’Autore, invece, la condizione patologica non rappresenta un ostacolo, ma porta con sé i presupposti necessari – «un percorso di cura e […] una profonda relazione tra il medico e la persona malata» – per addivenire, proprio grazie all’intermediazione del sanitario, a una verifica attendibile del carattere genuino della richiesta.

Tali condizioni risulterebbero senz’altro verificate, si legge nel libro, nelle ipotesi di trattamenti di sostegno vitale, mentre maggior prudenza, pur senza preclusioni assolute, andrebbe usata nel caso «della persona malata che può uccidersi da sola ma progetta un “suicidio per mano altrui”». L’Autore mostra subito di aver ben presenti le «complesse e variegate costellazioni di pazienti» rientranti in quest’ultima categoria, che sarebbero escluse accogliendo un’impostazione più rigorosa e diffidente verso le possibilità di effettivo accertamento della loro volontà; nondimeno ipotizza che sia stato proprio l’intento di eludere queste difficoltà ad aver suggerito alla Corte costituzionale di inserire il requisito di cui alla lett. c) – la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale –, che con una sorta di clausola «non scritta» avrebbe confinato l’accesso all’aiuto al suicidio a chi non è pienamente autosufficiente nel darsi la morte. Una soluzione «ambigua» o comunque parziale, che insieme ad altri elementi induce l’Autore a ricordare ancora una volta l’opportunità che il futuro dibattito sul fine vita non sia eccessivamente condizionato da una pronuncia i cui contenuti –opinione invero diffusa – risentono molto delle peculiarità del caso di specie.

Così, anche ad ammettere di modulare diversamente le condizioni sostanziali di liceità dell’aiuto al suicidio, nel vasto spazio che separa gli estremi del suicidio esistenziale e la richiesta di morte dei pazienti nelle condizioni di Antoniani resta tuttora aperto il problema dei margini di realizzabilità dell’accertamento del volere del paziente, ossia quando ritenere (e verificare) che la sua decisione sia «libera, “stabile” e consapevole»: è questo, l’Autore ci esorta a mettere a fuoco, l’aspetto da non «banalizzare» e su cui concentrare «osservazioni approfondite e competenze specialistiche», come del resto testimonia l’acceso dibattito sul punto anche in Paesi che hanno legalizzato forme più o meno ampie di eutanasia.

 

5. Si ricollega a questo snodo del ragionamento la riflessione conclusiva del volume. Secondo la tesi dell’Autore, ciò che rassicura della possibilità di rintracciare una volontà autentica nel paziente che versa in condizioni patologiche gravi è il suo preesistente contatto con un contesto medicalizzato e quindi la circostanza che, per definizione, già vi sia stato l’accesso al sistema assistenziale. È scongiurato in tal modo uno dei fattori prognostici più sfavorevoli per la libertà del paziente nella scelta di terminare la propria esistenza: l’abbandono terapeutico. Questo svela, in ultima analisi, che elemento decisivo sul piano pratico è allora il grado di effettività dell’assistenza sanitaria messa a disposizione del malato, specie in termini di offerta di sostegno psicologico, terapia del dolore e cure palliative.

Alta è la considerazione in cui la questione è stata tenuta dalla Corte costituzionale, sin dall’ordinanza 207 del 2018, dove si parla di «pre-requisito della scelta», e anche nella sentenza 242 del 2019, la cui motivazione richiama la concorde visione espressa in un coevo parere (del 18 luglio 2019) dal Comitato Nazionale per la Bioetica, nell’ambito del quale l’Autore ha avuto modo di rimarcare l’importanza di questo aspetto con una specifica presa di posizione. Riportandosi ai contenuti di quel documento, il libro sollecita ancora a riflettere sui problemi incontrati nel nostro Paese nel garantire l’effettività del diritto alle cure palliative, ostacolata da forti disomogeneità territoriali e generale scarsità di risorse. Il discorso investe quindi anche l’insufficiente applicazione della legge 219 del 2017, il cui art. 2 contiene un riconoscimento normativo del diritto alla terapia del dolore e alle cure palliative nei casi di rifiuto o interruzione delle terapie, ed è stato incorporato – conviene qui ricordare – nel dispositivo della sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale come termine di riferimento per dettare la disciplina di procedure e garanzie anche delle ipotesi di aiuto al suicidio.

 

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6. È una convinta ma prudente difesa della libertà individuale, anche di fronte alla scelta estrema, il tratto comune che alimenta le tesi sostenute nel libro.

Convinta, perché l’Autore è chiaro nell’affermare – con un proficuo cambio di prospettiva rispetto al tenore del dibattito odierno prevalente – che il problema ineludibile in materia di fine vita «è la validità della richiesta e non solo l’intensità della sofferenza». Di conseguenza, anche la questione delle condizioni sostanziali di liceità dell’aiuto al suicidio cede il passo o meglio si trasforma nel problema di individuare condizioni compatibili con la possibilità di accertare la validità della richiesta.

Prudente, perché una volta riconosciuta la centralità di tale elemento l’Autore non esita a mettere sul tappeto tutti gli inconvenienti che un atteggiamento veramente fedele alla premessa – e alla connessa esigenza di accertamento – incontrerebbe al momento di estendere l’area di liceità oltre i confini ad oggi segnati dalla Corte costituzionale. Parimenti segno di prudenza è la scelta di tracciare l’inizio della zona d’ombra nei pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale e capaci di darsi la morte da sé: se ogni discrimine in materia è destinato a far discutere, può notarsi che qui tale posizione è spiegabile in nome della più stretta aderenza a criteri oggettivi, la stessa che porta l’Autore a negare recisamente aperture verso i casi di suicidio esistenziale. Anzi, un’ulteriore accortezza sta proprio nell’impegno mostrato verso l’opportunità di distinguere già sul piano lessicale quest’ultima categoria di casi dalle ipotesi di “aiuto medico a morire” (per mano propria o, in futuro, per mano del medico): una resistenza verso l’uso del termine “suicidio” che già incontra un certo successo in letteratura e che ci sembra funzionale – anche da una prospettiva dichiaratamente «laica e liberale» – a favorire una maggiore accettabilità delle nuove pratiche di morte assistita presso tutti gli ambienti sociali e culturali.

Il ripetuto invito a esercitare cautela, mostrata nel libro attraverso gli accurati distinguo di cui si è detto, risuonerà senz’altro nel lettore che, ampliando la visione, si trovi a interrogarsi sul tema – attualissimo – della portata e delle conseguenze del quesito referendario avente ad oggetto l’incriminazione dell’omicidio del consenziente: sarà allora inevitabile pensare che con questo volume e con le sue avvertenze di metodo l’Autore abbia voluto mettere in guardia l’interprete e chi intenda partecipare a un dibattito pubblico responsabile, non solo contro nefasti «capovolgimenti» in cui può invischiarsi la logica del discorso giuridico, ma anche contro gli “scivolamenti” a cui può portare un incedere tumultuoso e non misurato nel campo delle questioni di fine vita.