Recensione  
25 Aprile 2023


Giuliano Vassalli dal fascismo alla democrazia: luci e ombre di un percorso esistenziale, accademico e politico


Giovanni Fiandaca

Recensione a Giandomenico Dodaro, Giuliano Vassalli tra fascismo e democrazia. Biografia di un penalista partigiano (1915-1948), Milano, Giuffrè, 2022.


1. Ci sono più ragioni per parlare, e soprattutto per parlare bene del recente libro di Giandomenico Dodaro dedicato a Giuliano Vassalli dal 1915 al 1948. È un’opera originale che fuoriesce dai consueti canoni scolastici: mescola felicemente insieme dimensione biografica personale e familiare, storiografia politica, ricostruzione di ambienti accademici con connessi orientamenti dottrinali e complesse tematiche penalistiche considerate anche nei risvolti tecnici. È soprattutto la prospettiva biografica allargata, connessa a quella storiografica relativa in particolare all’arco temporale che va dal ventennio fascista al crollo della fase autoritaria e al periodo resistenziale, a conferire al libro la sua cifra di originalità e a renderlo assai interessante.

Personalmente, sono sempre più convinto – col sostegno di autorevoli psicologi e psicoanalisti – che le scelte politico-culturali e le stesse costruzioni teoriche degli studiosi, comprese – perché no? – quelle di noi giuristi, abbiano alla radice inclinazioni personali, a carattere anche emotivo, legate alle caratteristiche di personalità di ciascuno. Ma l’approccio biografico può risultare tanto più illuminante, quanto più la ricostruzione degli elementi personali si intrecci – come, appunto, avviene in questo caso – con aspetti impersonali e d’ambiente, sino a includere nell’orizzonte ricostruttivo importanti questioni di fondo oggetto del dibattito scientifico del tempo e riferimenti alle principali scuole penalistiche operanti negli anni della formazione universitaria e della successiva attività accademica del giovane biografato. Com’è intuibile sin da subito, l’intimo nesso tra evoluzione del contesto storico-politico, vissuti personali e percorso scientifico del giurista diventa ancora più stretto e rilevante per il fatto che, in una vicenda umana come quella di Vassalli, è difficile tenere separati l’impegno dello studioso del diritto e la passione politica: per cui la biografia personale e scientifica del giovane Vassalli diventa anche un’occasione di ennesima riflessione sui complessi e tormentati rapporti tra politica e diritto. Oltre al notevole interesse contenutistico, invoglia alla lettura lo stile con cui Dodaro ha scritto il suo bel libro: chiaro, rigoroso e sobriamente elegante.

 

2.Come in quasi ogni vita umana, non tutto è chiaro e trasparente nell’itinerario evolutivo di Vassalli. Ci  sono zone d’ombra ed elementi di ambiguità in particolare nella prima formazione accademica del giovane studioso, ricollegabili in non piccola misura alla sua condizione di appartenente ad una famiglia di elevato rango sociale e beneficiaria di una rete di molteplici relazioni col potere politico dominante e altresì con l’ambiente accademico di Giurisprudenza, essendo il padre Filippo un autorevole professore di diritto civile con un affermatissimo studio professionale a Roma e lo zio per parte materna Vittorio Angeloni, a sua volta, professore di diritto commerciale sempre nel principale ateneo romano. E in effetti, nel compiere i primi passi del percorso post-laurea il giovane Giuliano si trovò nella condizione privilegiata di sfruttare opportunità e ricevere appoggi occasionati da forme di diretto interessamento paterno e/o dalla rete relazionale che poneva in connessione la sua famiglia con potenti personaggi anche del regime fascista. Così, grazie a entrature in ambienti altolocati, lo studioso in erba fu precocemente cooptato in ruoli di responsabilità e prestigio (ad esempio, fu nominato componente della segreteria organizzativa del I Congresso internazionale di Criminologia svoltosi a Roma nel 1938) e successivamente, per effetto di un attivo interessamento del padre prof. Filippo, ottenne la nomina ad assistente volontario alla cattedra di diritto penale presso l’università cattolica di Milano, ricoperta da un già rinomato professore in età ancora giovanile quale era allora Giacomo Delitala; e a questa nomina seguì, dopo poco tempo, il primo incarico di insegnamento nell’università di Urbino.

È indubbio che questa iniziale progressione nella carriera universitaria fu agevolata da forme di favoritismo, che contrasterebbero con l’etica accademica contemporanea e, oggi, potrebbero persino sollecitare indagini da parte di una magistratura penale divenuta sempre più occhiuta nell’andare alla caccia di fenomeni di malcostume interni anche al mondo universitario. Giudicando col metro di allora, questi sostegni favoritistici possono forse apparire meno censurabili. Ma rimane il fatto che il biografato verosimilmente assecondò gli aiuti carrieristici, come pure accettò addirittura di entrare a far parte - su proposta del ministro fascista della Giustizia Arrigo Solmi – della segreteria del Convegno italo-germanico sul diritto razziale (Vienna 1939), al cui svolgimento partecipò come membro della delegazione italiana per di più insieme col padre Filippo e lo zio Vittorio Angeloni.

Certo, esempi non encomiabili di compromissione o di opportunistica convivenza con la cultura e la politica del fascismo ne rinveniamo anche in altri giovani giuristi in formazione che, successivamente, avrebbero maturato una aperta opposizione al regime autoritario e una convinta adesione ai principi democratici, manifestata anche – come nel caso del Nostro – con atti di coraggiosa e rischiosa militanza nel movimento resistenziale. Scelte di successivo e concreto impegno antifascista, queste, che valsero in ampia misura a riscattare, sotto il profilo etico-politico, gli atteggiamenti non oppositivi o compiacenti della fase precedente di vita. e che furono motivate, di volta in volta, da fattori condizionanti che rimandano anche alle peculiarità delle singole vicende esistenziali.

Nel caso di Giuliano Vassalli – come Dodaro pone bene in luce – un fattore non secondario di condizionamento provenne, con molta probabilità, dall’orientamento decisamente contrario al regime autoritario presente nel lato materno della sua famiglia (si allude in particolare al nonno Publio Angeloni, avvocato massone ed esponente del partito repubblicano, che fu perseguitato durante il fascismo, e allo zio Mario Angeloni anch’egli avvocato e militante antifascista, poi caduto in combattimento in difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola); come pure dai contatti e dagli incontri che in fasi temporali susseguenti Vassalli via via ebbe con intellettuali avversi al fascismo e con personaggi appartenenti a forze politiche di ispirazione democratica, tra cui alcuni importanti esponenti di area socialista.

Nell’interrogarsi sulle possibili ragioni psicologiche e morali della svolta politica del Nostro, considero non priva di plausibilità - oltre che penetrante e suggestiva in termini di scavo psicologico – la spiegazione prospettata da Pietro Nenni (che Dodaro riporta fedelmente a p. 210 s. del libro), e che provo a sintetizzare: secondo l’autorevole capo socialista, la conversione del giovane professore Vassalli al socialismo avrebbe avuto come motivazione profonda “quasi un bisogno fisico e morale di espiazione”, avendo egli negli anni precedenti creduto nel fascismo e, altresì, in qualche misura profittato di opportunità e favori derivati da rapporti familiari di vicinanza con ambienti e personaggi fascisti; da qui, un’esigenza appunto di riscatto morale, che lo induceva  ad accettare di svolgere anche gli incarichi più ardui e rischiosi. A giudizio di Dodaro, questa di Nenni è forse una spiegazione “in un certo senso riduttiva” della scelta resistenziale di Vassalli e, analogamente, di non pochi altri giovani intellettuali che in un primo tempo avevano aderito al regime fascista, in quanto avrebbero esercitato un peso non meno determinante condizionamenti e suggestioni scaturenti da occasioni, relazioni esterne, contatti con esponenti dell’antifascismo e nuovi rapporti amicali. Questa spiegazione multifattoriale è abbastanza verosimile; ma quella di Nenni incentrata sul bisogno espiativo, forse parziale, conferisce alla conversione politica del giovane professore una valenza spirituale degna di una trasfigurazione in chiave di romanzo psicologico.

3. Nel ripercorrere le tappe della carriera universitaria e nel richiamare le prime pubblicazioni scientifiche del biografato, Dodaro fa interessanti riferimenti alle scuole accademiche e alle corrispondenti linee di tendenza caratterizzanti il panorama dottrinale dell’epoca: per cui la narrazione del percorso accademico-scientifico del giovane studioso Vassalli si traduce, nel contempo, in una ricostruzione dei principali connotati della dottrina penalistica degli anni ’30 e ’40 dello scorso secolo. Ricostruzione peraltro non incentrata su di una dimensione tecnico-giuridica presuntamente neutrale, bensì incline a mettere allo scoperto i condizionamenti che entrambi i regimi nazista e fascista producevano – in maniera anche implicita – sul piano della elaborazione teorica, peraltro con riflessi anche sui destini personali di singoli studiosi.

A influenzare l’orientamento di fondo delle varie scuole contribuiva, inevitabilmente, la personalità unita alle tendenze politico-culturali degli studiosi che ne erano protagonisti. Così nel contesto italiano, mentre ad esempio la scuola napoletana di quegli anni – con Arturo Rocco (poi trasferitosi alla Sapienza di Roma), Biagio Petrocelli e Luigi Scarano – risultò ideologicamente allineata col regime autoritario, lo stesso non si può dire della scuola milanese della Cattolica capeggiata da Giacomo Delitala, e costituita dai giovani allievi Giuseppe Bettiol e Pietro Nuvolone, che continuò a seguire una ispirazione di matrice liberale. Ciò, beninteso, prevalentemente sul piano teorico-dottrinale. Come Dodaro rileva su base storico-documentale, lo stesso Delitala, che pur aveva avuto un passato giovanile socialista (in conseguenza del quale era stato schedato dalla polizia fascista e aveva subìto non poche difficoltà nella carriera accademica)  per poi idealmente approdare a un cattolicesimo liberale, si limitava in realtà a ripudiare l’ideologia e la politica fasciste in forma privata, senza esporsi pubblicamente; e, al momento di prendere servizio come vincitore del concorso a cattedra, egli – non diversamente, del resto, dalla stragrande maggioranza dei cattedratici di allora – prestò giuramento al regime, iscrivendosi successivamente anche al Puf.

È  difficile, a questo punto, stabilire se la decisione del giovane Vassalli – che si era laureato a Roma con l’anziano giurista di regime Arturo Roccodi prescegliere Giacomo Delitala come guida scientifica in vista dell’avvio della carriera universitaria fosse dipesa da una maggiore affinità culturale con la (almeno teoricamente) ‘liberale’ scuola cattolica milanese, piuttosto che dalla meno disinteressata previsione di poter essere più proficuamente guidato da un maestro meno carico di anni e maggiormente all’avanguardia sul terreno delle dottrine generali del reato.

4. In questo contingente quadro di riferimento, la contrarietà al regime e all’ideologia fascista da parte degli studiosi che vi rimasero estranei si manifestò per lo più in forma timida, implicita, indiretta e comunque sempre prudente. Come significativo banco di prova per verificare il modo d’atteggiarsi del rapporto, nell’orizzonte dottrinale del decennio considerato, tra persistente (e sia pur prudente) approccio liberale e cedimento all’ideologia autoritaria, Dodaro identifica due aree tematiche di valenza emblematica, che costituirono non a caso oggetto di prese di posizione scientifiche dello stesso biografato: si tratta da un lato della dibattuta questione dell’analogia in materia penale, e dall’altro del problema relativo alla legittimazione del potere punitivo.

Circoscrivendo l’attenzione (anche per limiti di spazio) alla prima questione, induceva contingentemente ad accendere il dibattito dottrinale la riforma legislativa tedesca del 1935, che aveva abolito il divieto di analogia in malam partem. Recatosi a Berlino per un soggiorno di studio, Vassalli studiò la riforma e ne fece oggetto di un ampio saggio critico meritevole di essere richiamato. Prima di accennarvi, vale però forse la pena di ricordare le voci di quegli importanti studiosi che animarono il dibattito nostrano, ben ricostruito da Dodaro nel quarto capitolo della biografia. In sintesi, mentre fu soltanto Giuseppe Maggiore – autore notoriamente legato all’idealismo gentiliano e di chiarata fede fascista – a pronunciarsi con entusiasmo a favore della scelta abolitrice, il pensiero manifestato dagli altri autori sfociò in orientamenti più articolati e nel complesso più moderati anche sotto il profilo politico. Invero, Francesco Carnelutti si distinse per un’apertura teorica verso la possibilità di un’analogia anche in funzione punitiva sotto la suggestione di un approccio antiformalistico, con connesso ancoraggio al diritto naturale rivalorizzato come possibile fonte extralegale. Dal canto suo, Norberto Bobbio ammetteva la legittimità della stessa analogia sfavorevole prendendo viceversa le mosse da premesse rigorosamente giuspositivistiche, e concependo il procedimento analogico in maniera assai restrittiva, cioè nella sola forma dell’analogia legis intesa come interpretazione estensiva basata sulla forza espansiva della ratio legis comune a due fattispecie simili, una espressamente disciplinata e l’altra no. Al confronto, risultava in realtà più ambigua e contorta la tesi di Francesco Antolisei, il quale – nel contesto di un ripensamento metodologico volto a recuperare la dimensione storico-sociale e realistica del diritto – cercava di conciliare la concezione bobbiana dell’analogia con una visione autoritaria del ruolo del giudice; sicché, il problema della ammissibilità di un’analogia anche incriminatrice finiva con l’essere degradata a questione di ordine prevalentemente pratico, da affrontare in base alle esigenze contingenti e alle caratteristiche peculiari di ogni paese.

A dispetto della tendenza all’avvicinamento politico-culturale manifestatasi in quel periodo, che avrebbe potuto agevolare l’estensione all’ordinamento italiano di innovazioni introdotte nell’ordinamento germanico, la cultura penalistica maggioritaria di casa nostra notoriamente si oppose alla messa in discussione del tradizionale divieto di applicazione analogica della legge penale sfavorevole. Nel difenderne il fondamento garantista di matrice liberale si impegnò in particolare la scuola milanese di Giacomo Delitala, del cui pensiero – come Dodaro pone in evidenza – si rinviene appunto una ampia eco nella posizione assunta sul tema da Vassalli: il quale ribadiva, nella voce sul principio di riserva di legge pubblicata nel 1939 nel Nuovo digesto italiano, che il divieto di applicazione analogica risulta funzionale alla salvaguardia della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini contro l’arbitrio del potere statuale.

È comunque ulteriore merito di Dodaro avere allargato l’angolazione visuale includendo il dibattito sull’analogia in una prospettiva ben più ampia, volta altresì a dar conto della tendenza di una parte della dottrina di allora a fornire più in generale una giustificazione in chiave autoritaria dello stesso principio di legalità penale. Si allude ad un orientamento teorico e politico riconducibile al capo-scuola napoletano Biagio Petrocelli, uno studioso prevalentemente richiamato e celebrato come esempio di (presunta!) costante fedeltà, anche in tempi difficili, a principi di liberalismo penale. Senonché, come già messo in rilievo dallo storico del diritto Marco Nicola Miletti e ora più ampiamente documentato da Dodaro, le cose non stanno così. In una fase del suo percorso accademico, precisamente con la prolusione tenuta nel 1941 all’ università di Napoli in seguito all’ottenuto trasferimento dall’università di Bari, Petrocelli giunse infatti a teorizzare che il vero fondamento del principio di legalità non risiederebbe nelle ragioni garantiste individuate dal liberalismo di matrice illuminista, bensì in una certezza del diritto concepita autoritariamente come principio di ordine, come certezza del comando dello Stato punitore quale presupposto del dovere di obbedienza dei cittadini. Ed è sempre in nome della autorità statale, e della certezza dei precetti legali, che lo studioso napoletano esprimeva una opinione contraria all’abolizione del divieto di analogia, in quanto ne sarebbe derivato “un infinito potere” in capo ai giudici, contrastante appunto con l’esigenza autoritaria di certezza dei comandi penali.

Rispetto a una posizione come questa di Petrocelli, alquanto condizionata dall’ideologia autoritaria dominante in quegli anni, l’orientamento del giovane Giuliano Vassalli andava invece progressivamente caratterizzandosi e specificandosi grazie a una sempre più matura acquisizione di consapevolezza delle irrinunciabili valenze individualgarantiste della legalità penale. Facendo riferimento anche alla successiva monografia vassalliana del 1942 sui limiti del divieto di analogia in materia penale, bene rileva in proposito Dodaro (p. 161): “Vassalli coglie nella determinatezza semantica delle figure di reato il cuore del garantismo penale, cioè la garanzia della certezza del diritto contro l’arbitrio giudiziario; e, per converso, con sguardo ormai maturo e disincantato, segnala quanto nella legislazione fascista la proclamazione del divieto di analogia si riveli nella sostanza una debole e comoda copertura per una legislazione penale in un gran numero di casi vaga e indeterminata, che rende il problema del ricorso all’analogia superfluo”.

Questa consapevolezza vassalliana circa l’obbligo di determinatezza semantica che il garantismo in teoria impone ai legislatori di turno, purtroppo, può continuare a fungere da monito a tutt’oggi. Come sappiamo, le leggi penali emanate nel corso degli ultimi decenni sono divenute sempre più simili a semi-lavorati normativi, destinati a essere specificati e concretizzati mediante la successiva attività degli interpreti giurisprudenziali e dottrinali. Con buona pace della certezza del diritto (evocata in maniera sempre più retorica!) e della esigenza di preventiva conoscibilità del discrimine tra lecito e illecito da parte dei cittadini.

5. Un’altra parte di notevole interesse è costituita dalla ricostruzione delle fasi successive al crollo del fascismo, nella quale Dodaro richiama gli strumenti normativi e giudiziari escogitati per promuovere il processo di defascistizzazione e reprimere il cosiddetto collaborazionismo, includendo nel panorama ricostruttivo puntuali riferimenti alle opinioni critiche manifestate da Vassalli in un insieme di interventi apparsi per lo più in sedi politico-giornalistiche (alcuni degli articoli considerati da Dodaro più significativi sono riportati nella Appendice Documentaria, collocata nella parte finale della biografia). Com’è forse intuibile, l’interesse deriva dal fatto che nelle situazioni di transizione storico-politica i nessi tra l’individuazione degli strumenti giuridici di intervento e le opzioni politiche di carattere più generale diventano più intimi e stretti che non nelle contingenze di normale ordinarietà, per cui ‘politica’ e ‘diritto’ finiscono con l’essere distinguibili con ancora maggiore difficoltà. Ed emergono con maggiore evidenza, ad un tempo, i limiti della giustizia penale quale strumento di possibile elaborazione e soluzione di conflitti di amplissima portata.

Grazie a questo impegno politico-giornalistico, finalizzato ad una informazione a carattere divulgativo, Vassalli svolse un ruolo di intellettuale pubblico, ponendo le proprie competenze professorali a servizio del complesso e divisivo dibattito collettivo sulle vie di uscita dall’esperienza fascista. In tale veste, egli espresse il suo punto di vista critico sui difetti di formulazione, le incongruenze e i limiti di efficacia insiti nelle disposizioni normative speciali – sostanziali e processuali - via via emanate per sanzionare penalmente (o in sede amministrativa) gli illeciti a vario titolo connessi al fascismo: ma mostrando una tendenziale propensione a giustificare le deviazioni dai principi della giustizia ordinaria (come, ad esempio, nel caso della applicazione retroattiva di nuove incriminazioni) in forza di un ritenuto stato di pubblica necessità contingente e sulla base di valutazioni politiche, di giustizia sostanziale e di efficacia pragmatica che anche a suo giudizio imponevano di rompere “le barriere tradizionali del diritto”.

Nell’ambito dei suddetti commenti a carattere divulgativo, meritevole di richiamo appare – tra l’altro – la diagnosi vassalliana delle ragioni del fallimento del processo di defascistizzazione (cosiddetta epurazione),  cui sono opportunamente dedicate alcune pagine del settimo e ultimo capitolo del libro di cui discutiamo. Facendosi anche interprete di alcune istanze portate avanti dal Psiup di allora, che era la forza politica in cui militava, Vassalli espresse l’opinione che sarebbe stata preferibile – in conformità, appunto, alla proposta socialista – una epurazione attuata per via esclusivamente amministrativa e mediante la predeterminazione di categorie di persone da epurare; mentre l’insuccesso dello sforzo epurativo sarebbe invece dipeso dall’avere politicamente adottato la soluzione contraria (ritenuta più compatibile con la legalità democratica) di esigere giudizi assistiti da ogni garanzia e volti  a vagliare in concreto la responsabilità individuale e a graduare le relative sanzioni. Così ritenendo, Vassalli mostrava chiaramente di privilegiare la logica efficientistica di risultato, facendo prevalere il suo ruolo contingente di intellettuale militante nel partito socialista rispetto a quello di giurista sensibile alle garanzie di matrice liberale. Da questo punto di vista, la sua vicenda personale offre spunti d riflessione a proposito del ricorrente e tormentoso problema del rapporto tra cultura e politica, tra vocazione intellettuale nel ruolo di professore o studioso e impegno politico diretto e concreto: fino a che punto i due ruoli sono conciliabili senza contraddizioni, frizioni o ambiguità? (Per riflessioni stimolanti e aggiornate al riguardo cfr. G. Caravale, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari-Roma, 2023).

Ma, d’altra parte, era oltremodo difficile, in quella straordinaria fase storica di transizione, bilanciare in modo equilibrato le impellenti esigenze del rinnovamento politico con i principi (che avrebbero dovuto stare a cuore a Vassalli homo academicus) di una giustizia il più possibile immune da cedimenti e compromessi. Certo, riconsiderando le cose con lenti odierne, i limiti della giustizia penale quale mezzo di reazione ad una criminalità politica ad amplissimo raggio appaiono, forse, ancora più evidenti che in passato. Non a caso, nel corso degli ultimi decenni si è – come sappiamo – assistito, allo scopo di elaborare nelle fasi di transizione storico-politica i perduranti conflitti prodotti dalle azioni criminose di un precedente regime autoritario, a significative sperimentazioni di forme alternative di intervento ispirate ai principi della c.d. Restorative Justice. Anche se neppure il ricorso alla giustizia riparativa può, di per sé, fungere da bacchetta magica automaticamente risolutrice di ogni problema; per cui si rendono necessarie, pur sempre, complesse combinazioni tra giustizia punitiva e giustizia riparativo-riconciliativa.

6. Ci sono ulteriori parti del libro in discussione che meriterebbero senz’altro di essere richiamate; ma, se lo facessi, questa mia recensione risulterebbe intollerabilmente lunga. Mi limito, di conseguenza, ad alcune notazioni finali.

Ritengo che da tutto quanto precede risulti, innanzitutto, confermato quello che anticipavo all’inizio. Cioè che il libro di Dodaro, al di là del notevole contributo che fornisce ad una più completa e approfondita conoscenza della multiforme, complessa e affascinante personalità di Giuliano Vassalli, delinea nel contempo un quadro – per dir così – della situazione spirituale della dottrina penalistica italiana dell’epoca presa in considerazione, venendo così a colmare una lacuna della nostra letteratura giuridico-penale (che, com’è noto, è carente di ricostruzioni storiografiche). Si tratta di una sintesi ricostruttiva a mio avviso tanto più preziosa, in quanto l’angolazione visuale che ne fa da filo conduttore risulta incentrata su di una questione di fondo cruciale per le implicazioni ad ampio spettro che ne derivano e per la sua elevata complessità: quella, appunto, dei rapporti tra diritto penale e politica; questione che – come non mi stanco di suggerire da qualche tempo – dovrebbe essere fatto oggetto, da parte di noi penalisti, di un’attenzione scientifica più specifica, approfondita e costante rispetto a quella che le viene solitamene rivolta. Ciò allo scopo di comprendere ancora meglio i condizionamenti politici che il diritto penale ha subìto non solo nel passato, ma continua a subire nel presente (sarebbe ad esempio necessario andare più a fondo nello scavo, avvalendocisi di un approccio il più possibile multidisciplinare, delle cause e delle ragioni delle derive punitiviste conseguenti alle riemergenti ventate di populismo politico).

Orbene, ritengo che da un libro come questo di Dodaro provenga una forte e ulteriore sollecitazione a rileggere le categorie e le teorie penalistiche come costruzioni concettuali quasi mai a-storiche e assiologicamente neutre, bensì influenzate dai mutevoli contesti politico-ideologici e da opzioni valoriali in vari sensi e in varie direzioni. E andare alla caccia di questi presupposti politici e di queste scelte di valore – riguardo sia ai diritti penali del passato, sia a quelli odierni – è sempre un modo di fare scienza penalistica, e può essere un modo di farla con un respiro culturale più ampio rispetto ai più canonici lavori a carattere tecnico-dogmatico che continuano senza parsimonia a essere prodotti  per progredire nella carriera universitaria (considero significativo che una certa “deriva tecnicistica” ancorata a nozioni presuntamente asettiche venga,oggi, ad esempio segnalata anche da Vincenzo Mongillo, valoroso studioso delle ultime generazioni: cfr. il suo recente saggio Crisi immanente e centralità contingente del “penale” tra potere e diritto, in Studi in onore di Carlo Enrico Paliero, a cura di C. Piergallini e altri, I, Giuffrè, Milano, 2022, p. 214). In verità, sarebbe illusorio – oggi più di ieri – presumere che questa dogmatica concorsuale possa essere immune da pregiudiziali politiche e prese di posizione assiologiche anche implicite, non di rado  occultate dietro ragionamenti in apparenza soltanto logico-giuridici: è inevitabile che non solo l’attività interpretativa, ma la stessa elaborazione dogmatica sia in qualche misura non di rado condizionata da premesse lato sensu politiche e da apprezzamenti di natura valoriale (rinvio in proposito, più diffusamente, al mio recente scritto Il giurista (penalista) tra interpretazione, scienza e politica. Un confronto con Domenico Pulitanò, in Riflessioni sulla giustizia penale. Studi in onore di Domenico Pulitanò, Giappichelli, Torino, 2022, p. 77 ss.).

In conclusione, esprimo l’auspicio che questa biografia vassalliana scritta da Dodaro, oltre a essere letta e apprezzata come penso meriti, possa fungere da modello possibile di riferimento nell’incoraggiare futuri giovani studiosi a intraprendere analoghe indagini di tipo biografico-storiografico. Potrebbe avvantaggiarsene, sotto diversi aspetti, anche lo studio del diritto penale cosiddetto positivo.