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  Recensione  
04 Febbraio 2022


Il diritto, la giustizia e lo spazio. Note a margine di A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, Mimesis, 2021


1. «La storia del mondo è stata scandita da cambiamenti, talvolta brutali, della relazione con lo spazio». In questo modo, con una frase che è un manifesto programmatico dell’intera indagine, si apre l’ultima fatica intellettuale di Antoine Garapon: “La despazializzazione della giustizia”. Un’analisi profonda e una descrizione molto precisa dello sconvolgimento radicale che interessa il rapporto attuale dell’esperienza umana – intesa in una dimensione non esclusivamente giuridica – con lo spazio o, meglio, con la spazializzazione.

L’Autore, difatti, avverte immediatamente della relazione di alterità esistente fra spazio e spazializzazione. Il primo concetto rimanda ad un dato meramente fisico, ad una metrica delle disposizioni[1], ad un elemento a-culturale.

La spazializzazione – autonomo concetto coniato da Garapon –, per converso, identifica quella componente culturale che arricchisce la dimensione meramente ‘fisicistica’ dello spazio, quella cornice di valore all’interno della quale il puro spazio geometrico diventa oggetto di percezione e analisi e, pertanto, teatro di possibili relazioni sociali.

Il nostro tempo – questa l’ipotesi dell’Autore – sta sperimentando una rivoluzione nel rapporto con la spazializzazione dovuta essenzialmente ad un’erosione dello spazio, anche attraverso la progressiva contrazione della sua primigenia dimensione fisica.

L’esperienza giuridica non è estranea a questa progressiva e (apparentemente) inesorabile despazializzazione, in grado di incidere tanto sulla produzione delle norme e sullo spazio civico, quanto sul processo e sulla decisione giudiziaria.

Questi i quattro laboratori scelti per osservare gli effetti di tale dinamica, in grado di stravolgere radicalmente il diritto e la giustizia.

Il primo capitolo è dedicato all’analisi dello spazio delle norme[2]. Originariamente organizzato secondo criteri di territorialità espressione di una determinata sovranità, è stato dapprima ‘perturbato’ dall’avvento della globalizzazione e dalla conseguente libera circolazione dei referenti normativi, fino ad arrivare oggi all’emersione di paradigmi normativi completamente extra-territorio[3].

Lo spazio civico, un tempo elemento costitutivo di ogni societas e della propria dialettica politica, si è progressivamente rarefatto, in ragione dell’emersione di nuovi spazi digitali, su tutti i social network, che pretendono di divenire luoghi totalizzanti di giustizia[4].

Anche il processo, oggetto del terzo capitolo del volume[5], non è estraneo agli effetti della despazializzazione, tanto sotto il profilo della perdita di ‘ritualità’ dell’aula giudiziaria, con sempre maggiore facilità trasposta su schermi digitali[6], quanto per la tendenza a delocalizzare il processo stesso dalle aule giudiziarie allo schermo televisivo o alla carta stampata[7].

Decisivi, infine, sono gli effetti sulla decisione giudiziaria che da elaborazione razionale ed umanistica, sorretta da un’argomentata motivazione, tende a divenire mero output computazionale, risultato di un calcolo difficilmente accessibile perfino per il giurista, in ragione della sublimazione di quell’idea di giustizia priva di ogni soggettività, appannaggio esclusivo della razionalità apparentemente avalutativa della tecnica[8].

L’intera indagine è caratterizzata da una costante dialettica fra saperi (anche) diversi da quello giuridico, foriera della consapevolezza che il quadro dei complessi mutamenti sociali analizzati può essere adeguatamente tratteggiato solo attraverso un continuo dialogo interdisciplinare con le altre scienze (non solo) sociali[9].

 

2. Come ci ricorda l’Autore, nella sua primigenia essenza, il diritto è espressivo di una funzione d’ordine, utile al fine di disporre razionalmente in un medesimo spazio[10]. Nel concetto di spazio, così come nell’idea di diritto, risiede un’aspirazione ordinatrice, finalizzata a contrastare quell’apparente tendenza delle cose all’anomia e al disordine.

In questa prospettiva, tanto la spazializzazione quanto l’attività normativa rappresentano tentativi (forse) incompiuti di dare un ordine al caotico, di determinare confini nell’indeterminato.

Le affinità tra diritto e spazio, pertanto, sono talmente profonde che si potrebbe sostenere che il diritto sia di per sé un ‘concetto spaziale’, al contrario dell’idea di giustizia che è espressiva di una funzione intimamente temporale.

A differenza del diritto positivo - la cui stessa esistenza necessita di un ‘atto’ politico che dispieghi i propri effetti all’interno di un determinato territorio -, difatti, l’ideale di giustizia è animato da una pretesa universalizzante che supera le contingenze dello spazio assurgendo a una dimensione propriamente temporale.

I rapporti tra diritto e giustizia, così come quelli fra spazio e tempo, non sono né possono immaginarsi interessati da una completa alterità.

Al contrario, i due rispettivi ordini sono strutturalmente relati. Così come lo spazio esiste pur sempre in una dimensione temporale, il diritto positivo – sul piano del dover essere (Sollen), non sempre su quello dell’essere (Sein) – deve tendere al valore rappresentato dalla giustizia, potendosi (e dovendosi) sempre discutere del rapporto esistente in un certo momento storico fra attualità del diritto positivo e dimensione di giustizia[11].

Le pur esistenti relazioni però – così come quelle tra legge e morale – non implicano neanche una totale sovrapposizione fra i due concetti. La definizione del diritto e la produzione delle norme che appartengono a un ordinamento giuridico sono, specialmente nel contesto delle società laiche, pluraliste e multiculturali, tendenzialmente indipendenti da contenuti esclusivamente morali.

E, come è stato osservato, è proprio tale tendenziale separazione concettuale a fondare la stessa «possibilità logica di instaurare una relazione tra diritto e morale» che permetta di sottoporre il primo ad un vaglio critico circa il rispetto di quei contenuti assiologici che lo trascendono e a cui deve tendere[12].

La dimensione intimamente temporale del valore giustizia, d’altronde, è resa evidente dal ‘problema’ prescrizione – su un piano di giustizia sostanziale prima che di diritto positivo - e dalla dialettica fra ragioni dell’oblio e ragioni della memoria.

Una memoria che, se trascendente la sua dimensione storicistica, finisce per vantare aspirazioni a-temporali e presentarsi quale portato di una concezione di giustizia che non tollera le pretese limitatrici opposte dalle ragioni del tempori cedere[13].

Il diritto, dal canto suo, mantiene pur sempre un legame con lo spazio, rappresentando il precitato tecnico delle decisioni di una comunità politica che tendenzialmente organizza le proprie relazioni all’interno dei confini di una spazialità che rimane legata ad un territorio di riferimento.

L’ordine del mondo fondato sulla massima territorializzazione del diritto, purtuttavia, ha nel tempo conosciuto significativi mutamenti.

In particolare, l’emersione di un diritto umanitario a vocazione internazionale e gli effetti che la globalizzazione ha prodotto anche nella sfera giuridica hanno determinato le prime incrinature nell’ideale di un diritto inteso quale fenomeno esclusivamente territoriale. Da ultimo, la capacità del paradigma neo-liberista – caratterizzato dall’aspirazione all’estensione indefinita dell’economia specialmente nella sua dimensione finanziaria – di astrarre dallo spazio convertendolo in una fonte di profitto e l’avvento della rivoluzione digitale hanno prodotto la definitiva sovrapposizione tra uno spazio fisico e un non-spazio digitale, causando significative conseguenze anche nel modo di intendere la normatività[14].

L’Autore lucidamente annovera tra gli effetti maggiormente rilevanti di tale fenomeno l’indebolimento (se non il totale annullamento) della c.d. ‘funzione istituente’, ovverosia di quella capacità di definire le condizioni di legittimità di una qualsiasi azione attraverso l’intervento dall’esterno di un terzo ‘garante’ deputato istituzionalmente a valutarla.

La liceità di una condotta, pertanto, non dipenderà più da un dictum giudiziario o dalla convalida da parte di un terzo (a titolo esemplificativo, un’autorità amministrativa), ma si confonderà con la mera possibilità tecnica: ciò che è tecnicamente possibile diventa giuridicamente lecito[15]. Da qui, la conseguente perdita di centralità di quell’essenziale momento valutativo che caratterizza ogni attività normativa e/o giudiziaria.

Ulteriormente, la stessa ‘natura’ delle norme tende a mutare, caratterizzandosi per una sempre maggiore indeterminatezza funzionale e per la scarsa riconoscibilità del loro valore vincolante e orientativo: le stesse non sono più individuabili per la loro forma, né per il loro autore, né per la loro dimensione simbolica[16].

All’alto tasso di tecnicismo che spesso caratterizza questa nuova normazione si affianca, pertanto, la perdita di centralità del ‘momento politico’: le nuove regole sono sovente prodotte da agenzie normative non elette e non statali, secondo specifiche procedure funzionali all’elaborazione di standard tecnici dotati di scarsa capacità di orientamento culturale, spesso anche per gli attori del settore interessato. La subalternità della decisione politica, pertanto, è strettamente connessa all’indebolimento della funzione di indirizzo delle scelte d’azione dei consociati.

In una prospettiva parzialmente diversa, ancorché inscritta nella medesima cornice di senso, la realtà della c.d. ‘giustizia predittiva’ – e la consustanziale aspirazione alla previsione dei comportamenti umani a partire da dati statistici – è testimonianza diretta di come il ‘giudizio’ sui comportamenti sociali tenda a deviare dalla (previa) volontà politica e dalla (successiva) decisione giudiziaria all’apparentemente asettica ‘valutazione’ tecnico-statistica di più o meno solide constatazioni d’esperienza, finendo per cancellare la distinzione fra descrizione e prescrizione e, più in alto, la stessa distinzione fra fatto e diritto.

Conclusivamente sul punto, l’Autore ci ricorda che la despazializzazione non ha determinato, a differenza di quanto prima facie si potrebbe pensare, un’eliminazione né del potere, né della necessità di governare gli uomini, ma ne ha mutato profondamente la grammatica. Ad un assetto di potere fondato sulla rappresentanza e sullo spazio politico ne affianca un altro basato sulla decisione tecnica e sullo spazio apparentemente illimitato dell’economia e del digitale[17].

 

3. La rivoluzione digitale ha innescato anche una progressiva despazializzazione dello spazio civico, che ha raggiunto la sua acme con la definitiva affermazione di un nuovo strumento di mobilitazione offerto dai social network.

L’arena digitale ha reso possibile la concentrazione di una pluralità di tensioni sociali che si sono evolute verso la censura di massa di comportamenti sovente non espressivi di un disvalore penalmente (o, perfino, giuridicamente) rilevante, ma comunque socialmente deprecabili o moralmente riprovevoli. Le azioni oggetto di biasimo spesso non violano il diritto positivo, ma si pongono in frizione con nuovi precetti etici o, comunque, di orientamento sociale.

La disintermediazione resa possibile dal digitale, la conseguente perdita di centralità delle istituzioni di giustizia e dello stesso diritto e la ‘soggettivazione’ delle giuste cause che legittimano gli attacchi hanno determinato l’emersione di un nuovo modo di concepire la ‘giustizia’: smart, istantanea, immediatamente afflittiva, accessibile a tutti, priva di qualsiasi formalizzazione in canali procedurali e senza possibilità di difesa per l’accusato[18].

Gli stessi principi generali del diritto, i vincoli procedurali e le garanzie sostanziali sono vissute nello spazio digitale come elementi di pesante rallentamento di una pretesa di giustizia che non conosce limiti. I principi di civiltà giuridica si trasformano nel loro opposto: dalla presunzione di innocenza, ad una intuitiva presunzione di colpevolezza.

Sfuma definitivamente qualsiasi considerazione perfino in chiave utilitaristica delle stesse garanzie, quali strumenti funzionali a rendere quanto più prossima possibile la verità processuale – per definizione stipulativa e convenzionale[19] – alla verità storica, riducendo al minimo le possibilità di un errore giudiziario[20].

La stessa accusa tende a semplificarsi fino all’essenziale, finendo per coincidere con un’incolpazione fast and frugal che permetta un’immediata identificazione dell’autore nel suo gesto[21] e renda immediatamente afflittivo il conseguente biasimo sociale.

Si assiste sul web non solo ad una confusione di ruoli, ma, per di più, ad un accentramento di funzioni: nessuna distinzione fra accusatore e giudice; nessuna differenza fra accusa, sentenza e, perfino, pena. Tale confusione è emblematica di una radicale distanza dai meccanismi caratterizzanti il processo: alla commistione delle funzioni si affianca la venuta meno di ogni disciplina degli strumenti utilizzabili nel giudizio e la mancanza di ogni distinzione fra pubblico e professionisti, con il sempre maggiore impatto del primo sugli esiti della dinamica accusatoria de-formalizzata. 

Ed è proprio in questa totalizzazione di funzioni e poteri che si manifestano gli effetti più dirompenti della despazializzazione, perché il limite è una caratteristica essenziale di ogni spazio[22].

In questa cornice di senso, l’Autore evidenzia come alla descritta confusione dei ruoli si aggiunga anche una confusione dei valori, con una totale identificazione fra opinioni e giustizia, semplici insinuazioni e prove e, soprattutto, morale e diritto[23].

L’auspicio, allora, è il recupero della spazializzazione propria del rito e dell’aula giudiziaria che, attraverso la distinzione delle funzioni e dei poteri e il riconoscimento dei rispettivi spazi d’azione, promuovono il contraddittorio quale cifra caratterizzante di quell’itinerario di razionalità che è il processo, teleologicamente orientato all’accertamento di fatti e non alla soddisfazione coûte que coûte di bisogni emozionali di punizione radicati nella coscienza collettiva[24].

 

4. Anche le modalità di celebrazione del rito non sono estranee al fenomeno della progressiva despazializzazione, realizzata attraverso la sperimentazione di forme di tele-giustizia che permettono di prescindere dallo spazio fisico dell’udienza.

È constatazione d’immediata evidenza che seguire un’udienza in presenza o parteciparvi da remoto incide innanzitutto sulla percezione della ‘qualità’ dello spazio vissuto: sullo schermo l’immagine può essere sfocata, poco nitida, in netto contrasto con la stabilità dell’aula giudiziaria.

Il mutamento radicale di paradigma, però, si apprezza su un piano di maggiore profondità: il mistero del processo, che un tempo albergava nei simboli e nella conoscenza quasi iniziatica delle formule, con la telematizzazione finisce per radicarsi nella tecnica, assurgendo la macchina a centro nevralgico del rito, depositaria di un sapere non accessibile perfino agli stessi professionisti del diritto[25].

In questa prospettiva, la funzione pedagogica dello spazio giudiziario[26] rischia di venire meno, con tutte le conseguenti difficoltà per gli utenti non professionali della giustizia, su tutti i testi occasionali.

L’erosione dello spazio fisico rischia, poi, di depauperare la stessa funzione di garanzia del luogo giudiziario, non assicurando né maggiore neutralità, né maggiore sicurezza. Osserva lucidamente l’Autore: il Tribunale «è [...] un luogo di grande pressione simbolica, ma lo scenario offre delle garanzie»[27], se non altro ammonendo implicitamente gli attori dell’importanza di ciò che sta per accadere.

La desimbolizzazione della liturgia processuale priva il dibattito giudiziario della propria ricchezza, pregiudicando la parte retorica dell’udienza e incidendo significativamente sulla possibilità che la difesa ha di influire sul convincimento del giudice[28]. La perdita di fisicità del processo, difatti, determina non soltanto un ridimensionamento del suo valore simbolico – quale luogo di giustizia –, ma depotenzia la capacità persuasiva che la parola può svolgere.

La connessa funzionalizzazione della tele-giustizia - attenta soprattutto ad istanze di mero efficientamento del rito non sempre adeguatamente sensibili alle esigenze di salvaguardia dalla caratterizzazione (anche) assiologica dell’amministrazione della giustizia – rischia di cancellare definitivamente l’ideale di un ‘rituale giudiziario[29] concepito come luogo di incontro fra tesi, esperienze e pretese diverse, tutte egualmente utili ai fini dell’elaborazione della migliore decisione giudiziale.

Questa deritualizzazione del processo comporta che gli attori giudiziari debbano compiere sforzi ulteriori affinché l’umanità e la sensibilità dell’osservazione non risultino completamente immolate sull’altare della tecnologia: ciò che prima era naturale - e perfino oggetto di uno sforzo di moderazione[30] – diventa il risultato di una fatica.

L’"o-scenità" del processo telematico – in senso etimologico, il suo porsi al di ‘fuori della scena’[31] – rischia, pertanto, di produrre effetti deteriori sulla posizione dell’imputato. Non solo quest’ultimo avrà una ridotta possibilità di influire sul convincimento del giudice attraverso la funzione comunicativa del proprio corpo, ma, ulteriormente, chi è chiamato al compito di giudicare avrà maggiore facilità nel pronunciare una pena nei confronti di qualcuno che vede dietro uno schermo, in ragione degli effetti deresponsabilizzanti del medium digitale[32].

 

5. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’emersione di un nuovo paradigma che propone di sostituire la ‘vecchia’ sentenza con un mero calcolo algoritmico, deprivato di quel coefficiente di razionalità umana che caratterizza la decisione giudiziaria. Gli effetti di questa diversa ‘despazializzazione’ riguardano propriamente le modalità di produzione di un’affermazione che possa essere ritenuta ‘vera’[33] (o, comunque, socialmente accettabile), attraverso la valorizzazione del calcolo numerico in luogo dell’argomentazione linguistica. 

In questa prospettiva, l’utilizzo della pura logica formale permette di superare le contraddizioni insite nell’argomentazione, concentrandosi esclusivamente sulla coerenza intrinseca di una proposizione anziché sulla sua capacità dimostrativa.

Questa transizione culturale passa attraverso diversi passaggi di metodo. In primo luogo, sarà necessario sostituire gli argomenti con dei numeri, in modo tale da rendere il sistema perfettamente misurabile e adattabile ad operazioni di calcolo. L’indicatore numerico, difatti, funzionalizzando un evento o un dato di realtà lo priva della propria irripetibile singolarità e di ogni sua peculiare caratterizzazione, rendendolo perfettamente trattabile[34]. L’operazione di valutazione assomiglierà molto ad un giudizio oggettivo, privato di qualsiasi valutazione personale: una trasformazione di un giudizio di valore in un mero giudizio di fatto[35].

Il secondo passaggio consisterà, poi, nella sistematizzazione dei vari indicatori all’interno di griglie e tabelle, per procedere matematicamente al calcolo. Queste scansioni, sinteticamente rappresentate, sono di regola invisibili al pubblico e, perfino quando lo sono, possono essere discusse solamente su un piano tecnico-scientifico dai detentori dei relativi saperi, configurando comunque una zona di relativa inaccessibilità per gli operatori del diritto.

Il giudizio non solo si spersonalizza, ma diviene oggetto di un sapere quasi ‘esoterico’ e, pertanto, scarsamente discutibile: le stesse premesse valoriali che orientano la valutazione algoritmica sono aprioristiche e difficilmente contestabili. La logica formale finisce per coprire con i suoi principi la realtà che ha codificato.

Non bisogna, però, commettere l’errore di pensare che tali modalità di valutazione siano completamente svincolate da qualsivoglia giudizio sociale: il giudizio non è conoscibile, ma pre-esiste e determina la stessa venuta ad esistenza dell’algoritmo[36].

Tra gli strumenti che hanno avuto maggiore diffusione, una particolare attenzione merita il software COMPAS[37] che, divenuto obbligatorio in alcuni stati americani, calcola la probabilità di recidiva di ogni individuo portato davanti al giudice, richiedendo a quest’ultimo di tenerne conto nel suo giudizio. Le conclusioni dei dossier contenenti i vari parametri vengono presentate in due colonne: ‘vantaggi/svantaggi’, ‘punti di forza/debolezze’.

Il giudizio si trasforma, in questo modo, da scelta razionale a puro calcolo aritmetico per determinare quale colonna presenta il maggior numero di punti, con la conseguenza che, come ci ricorda l’Autore, la validità degli argomenti non dipenderà più dalla rispettiva capacità persuasiva, ma semplicemente dal loro numero[38].

In questa prospettiva, il giudice vede trasformata la propria funzione: dalla punizione di un fatto del passato alla prevenzione di una (potenziale) pericolosità declinata nel futuro. Lo stesso bagaglio di competenze di chi giudica rischia di mutare, consegnandoci una figura professionale meno esperta di diritto e più abile nell’attività di risk assessment[39], con il conseguente pericolo di lasciare sullo sfondo la valutazione del fatto e proiettare in primo piano il singolo autore, sulla base di processi di standardizzazione che paiono riecheggiare il paradigma del ‘tipo normativo d’autore’ (Tätertyp)[40].

In controluce, emerge un nuovo modello securitario fondato su un paradigma che potremmo definire di stampo ‘neo-positivista’, ove la realizzazione di un fatto penalmente riprovato rischia di svolgere la funzione di un mero indice estrinseco di una pericolosità ‘latente’ che il giudice è chiamato a valutare attraverso l’ausilio cognitivo del calcolo algoritmico.

 

6. L’avvento del digitale e, in generale, il ruolo sempre più significativo che le tecnologie rivestono nella società contemporanea hanno contribuito a determinare un’autentica rivoluzione ‘culturale’ che ha, tra i molteplici effetti, prodotto un progressivo abbandono dell’ideale di uno spazio fisico concepito quale metro della vita civile.

Tra gli effetti di tale sconvolgimento si possono annoverare la perdita di centralità del momento politico nella produzione normativa e la progressiva spersonalizzazione dell’amministrazione della giustizia, oltre al consolidamento di un ruolo decisivo della tecnica, concepita sempre più come idolo al contempo risolutore e consolatorio delle nuove angosce sociali.

Quanto al primo fenomeno, è di immediata evidenza il diffuso deficit di legittimazione democratica delle nuove agenzie normative, con il conseguente rischio di rilevanti disallineamenti fra detentori del potere normativo e destinatari delle regole, tendenzialmente estromessi da qualsiasi partecipazione, ancorché indiretta, al procedimento di formazione delle stesse[41]. Una dissociazione che incide significativamente perfino sulla stessa conoscibilità dei nuovi precetti, rendendo sempre più diafana quella prospettiva garantistica di ‘libere scelte di azione’ che permettano ai consociati di orientare le proprie condotte in conformità alle pretese ordinamentali.

Ulteriormente, la delocalizzazione dei processi dapprima nelle aule televisive ed oggi nei social network, unitamente alla prospettiva di telematizzazione del rito, ha determinato non solo un significativo svuotamento delle ordinarie prerogative giurisdizionali, ma, per di più, una progressiva spersonalizzazione della giustizia.

D’altronde, l’emersione di una ‘giustizia senza volto’ – nella pretesa di una decisione depurata da ogni componente soggettiva – è espressione di «una diffidenza verso i giudici, come persone legate ad una esperienza valoriale umana e meno controllabile e comunque fallibile»[42].

La despazializzazione, pertanto, sembra produrre, in tutti i contesti giuridici analizzati, una rarefazione di quella componente umana e, dunque, più squisitamente ‘politica’ del diritto, con il rischio conseguente di un congedo definitivo da quella dimensione dialettica che caratterizza, già etimologicamente, ogni tecnologia e di inclinazione verso un dominio totale della tecnica: in una parola, la sua trasformazione in una tecnocrazia[43].

L’opera di Garapon, nonostante la profondità dell’analisi e la solerzia con la quale sono indagati i vari laboratori del diritto sui quali maggiormente incide il fenomeno, non è volutamente conclusiva.

Nelle pagini finali del lavoro[44], l’Autore, dopo aver ricostruito sinteticamente le linee fondamentali dell’indagine attraverso alcune dicotomie riconducibili alla generale dialettica ‘diritto spazializzato/diritto despazializzato’, lascia consapevolmente vuota l’ultima riga come forma di invito al lettore a proseguire ad interrogarsi per comprendere al meglio gli effetti della spazializzazione nella realtà giuridica.

Una sollecitazione che rappresenta l’emblema della dimensione in fieri del fenomeno analizzato, che richiede al giurista una coscienza necessariamente critica per continuare a vagliarne in profondità le cause e le conseguenze e tentare di dare una risposta alle numerose domande ancora aperte.

Dinanzi ad un simile orizzonte, ogni critica ragionata dovrà avere cura di preservare «la natura profondamente umana del giudizio»[45], nella consapevolezza che qualsivoglia concezione culturale dello spazio – anche nella sua dimensione prettamente giuridica – non può completamente prescindere dalla sua originaria componente ‘fisicistica’.

 

 

[1] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, Milano-Udine, 2021, 22.

[2] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 27-61.

[3] In questa prospettiva, emblematico è il consolidamento del diritto e della giustizia penale internazionale aventi ad oggetto crimini internazionali – caratterizzati dalla profonda gravità e dalla pluralità di vittime ed agenti – in grado di ledere beni giuridici universali e richiedenti, pertanto, una disciplina sovranazionale. In argomento cfr. E. Amati- M. Costi- E. Fronza- P. Lobba- E. Maculan- A. Vallini, Introduzione al diritto penale internazionale, Torino, 2020, passim.

[4] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 63-100.

[5] Cfr. A. Garapon, ivi, 101-133.

[6] Per un commento delle prime indagini empiriche sugli effetti del c.d. ‘processo penale telematico’ si veda V. Manes, Prime rilevazioni empiriche sugli effetti del processo penale telematico, in Diritto di Difesa, 11 maggio 2020. Nonostante l’indefettibile tasso di arbitrarietà che sconta ogni possibile inferenza da tali rilevazioni empiriche, il risultato degli studi condotti pare evidenziare la minore capacità persuasiva che il difensore è in grado di esercitare sul convincimento del giudice, l’alterazione del rapporto di fiducia tra difensore ed assistito e, in generale, la spersonalizzazione delle parti del processo derivante dalla desacralizzazione dello stesso rito, con i conseguenti effetti deteriori sulla decisione giudiziaria.

[7] In una vastissima letteratura sul tema, si vedano gli studi di A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Milano, 2007, 219-241; G. Giostra, La giustizia penale nello specchio deformante della cronaca giudiziaria, in Rivista di diritto dei media, 3, 2018, passim, Id., Processo mediatico (voce), in Enc. dir., Annali, X, Milano, 2017, passim. Favorevole all’introduzione di misure di carattere rimediale per la ‘vittima’ del processo mediatico V. Manes, La “vittima” del “processo mediatico”: misure di carattere rimediale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3, 2017, passim, che ipotizza, in caso di condanna, una diminuzione di pena al fine di ‘scomputare’ dal quantum quella sofferenza legale patita nel processo ‘parallelo’ e, in caso di assoluzione, l’introduzione di un obbligo di integrazione/rettifica che il giudice dovrebbe imporre ai media, oltre a strumenti di carattere risarcitorio o indennitario in grado di compensare la sofferenza ingiustamente patita dall’imputato.

[8] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 135-168; E. Fronza, Code is Law”. Note a margine del volume di Antoine Garapon e Jean Lassègue, Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropologique, Puf, Paris, 2018, in Dir. pen. cont., 11 dicembre 2018, in particolare par. 8.

[9] E, d’altronde, tale metodo è coerente con l’intera opera di Antoine Garapon che ci avverte di come il diritto sia ‘testo’ e, al contempo, ‘contesto’ e di quanto sia necessario l’ausilio di altre discipline al fine, tra l’altro, di comprendere le scelte di valore che si celano dietro il dato positivo. Cfr. A. Garapon, Crimini che non si possono né punire né perdonare, Bologna, 2004, passim.

[10] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 32.

[11] Cfr., in questo senso, D. Pulitanò, La giustizia penale e il tempo, in questa Rivista, 2 dicembre 2019, 6.

[12] Così, perspicuamente, D. Pulitanò, La giustizia penale e il tempo, cit., ibidem nt. 2.

[13] Il nostro tempo, si è osservato, è caratterizzato da umori che si oppongono radicalmente alle ragioni dell’oblio, esprimendo forti richieste di riconoscimento rispetto a fatti remoti nel tempo. Cfr., sempre, D. Pulitanò, La giustizia penale e il tempo, cit., 18. Le ragioni della memoria, in questo contesto, appaiono funzionali ad obiettivi (anche) culturali e politici, diversi e ulteriori rispetto a quelli strettamente ‘di giustizia’. È lecito domandarsi se sia davvero il diritto penale lo strumento maggiormente adatto al perseguimento di tali scopi.

[14] Lo scenario sinteticamente descritto rimanda ad una situazione nella quale i ‘poteri reali’ si trovano collocati nello spazio globale e nell’universo digitale, risultando talmente inafferrabili e distanti da far venire meno la coincidenza fra luoghi del diritto e luoghi della politica. In questi termini, G. Scaccia, Il territorio fra sovranità statale e globalizzazione dello spazio economico, in Rivista AIC, 3, 2017, 14-15. Cfr., ulteriormente, O. Caramaschi, Tra deterritorializzazione del potere e mondializzazione giuridica: quali spazi per un costituzionalismo “tecnologico” (o “digitale”)?, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, Consulta online, 29 giugno 2020, 1-2. Sulla capacità delle reti digitali di rivoluzionare concetti strettamente legati alla nozione giuridica di territorio si veda S. Rodotà, Una costituzione per internet, in Politeia, XXII, 82, 2006, 177 ss.

[15] In questa prospettiva, ricorda l’Autore, «formazione e normazione ormai si confondono». Cfr. A. Garapon, ivi, 54. Nella realtà despazializzata è sufficiente avere un dominio sulla tecnica e, pertanto, saper fare di calcolo e saper programmare, per legiferare. Il nuovo legislatore è quello che crea i software e i programmi informatici che vengono messi a disposizione della massa. In questi termini, B. Cappiello, "La despazializzazione della giustizia”. Un viaggio critico nella fenomenologia del presente, in MediaLaws, 2 agosto 2021.

[16] A. Garapon, ivi, 56.

[17] Un’egemonia senza istituzione e, pertanto, senza alcuna mediazione. Su tale profilo e su tale nuova forma di potere, si veda A. Garapon- J. Lassègue, Le numérique contre le politique. Crise de l’espace et reconfiguration des médiations sociales, Parigi, 2021, 83-113.

[18] Cfr. G. Insolera, Intorno al volume di Antoine Garapon, La despazializzazione della giustizia, Mimesis, Milano 2021, in disCrimen, 4 ottobre 2021. L’Autore sottolinea come l’idea che la giustizia amministrata sui social network possa costituire una valida soddisfazione per le vittime escluse dal processo finisca, in realtà, per produrre lo spettacolo di un diritto penale totale, utilizzabile e strumentalizzabile in maniera difficilmente controllabile.

[19] È nota, d’altronde, la valenza soltanto probabilistica del giudizio di conferma dell’enunciato accusatorio di partenza, in funzione dell’accertamento di verosimiglianza e plausibilità dell’ipotesi accusatoria rispetto al fatto materialmente accaduto nel passato. La soluzione decisoria, pertanto, si connota non per la sua certezza o verità assoluta, ma per l’alta credibilità razionale della conferma dell’enunciato di accusa, in termini di alta e qualificata probabilità. In questi termini, G. Canzio, Intelligenza artificiale, algoritmi e giustizia penale, in questa Rivista, 8 gennaio 2021, par. 1; Id., Il dubbio e la legge, in Dir. pen. cont., 20 luglio 2018, 1.

[20] Sulle euristiche e sui pregiudizi del giudice si vedano, ex multis, G. Canzio, Alle radici dell’errore giudiziario: “heuristics and biases”, in L. Lupária Donati (a cura di), L’errore giudiziario, Milano, 2021; D. Kahneman – P. Slovic – A. Tversky (a cura di), Judgment under uncertainty: heuristics and biases, New York, 1982.

[21] Come ci ricorda l’Autore, «nessuna scissione è quindi possibile, o addirittura tollerabile, tra l’autore delle parole (che possono essere state pronunciate in modo grossolano, ambiguo o in uno stato d’ira) e la persona», p. 69. L’assenza di ‘fisicità’ e la completa identificazione dell’autore nel suo gesto permettono, poi, una facile astrazione dalla persona fisica che rende estremamente più semplice l’esecuzione della sanzione sociale, attraverso il ‘motore’ rappresentato dalla vergogna (‘shame culture’) di chi è ‘ipervisto’ in opposizione al diffuso anonimato di chi accusa.

[22] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 71.

[23] Cfr. A. Garapon, ivi, 84. Quest’ultima identificazione, tra l’altro, mette in crisi il fondamento autenticamente laico e liberale dei sistemi di giustizia penale, dal quale discende l’idea per cui la potestà punitiva non debba essere esercitata per il perseguimento di ideali trascendenti di giustizia assoluta o di riparazione del male, né tantomeno per finalità di pedagogia sociale e di orientamento (sotto minaccia ed inflizione di pena) di opzioni culturali individuali o collettive, limitando la sua funzione alla prevenzione dei reati nell’ottica della tutela di beni giuridici. In argomento, ex plurimis, cfr. S. Canestrari – L. Cornacchia – G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, 260; S. Canestrari, Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in E. Dolcini – C.E. Paliero (a cura di), Scritti in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 139 ss.

[24] Come sottolineato da G. Insolera, Intorno al volume di Antoine Garapon, cit., 7, nell’impegno dell’Autore è centrale l’idea che sia essenziale preservare il dovere culturale di sorvegliare quei principi irrinunciabili della modernità che presidiano i confini del potere punitivo.

[25] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 103-104.

[26] Ovverosia quella capacità di trasmettere immediatamente agli utenti occasionali della giustizia le regole comportamentali di base, mediante l’osservazione delle condotte degli altri attori processuali.

[27] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 109-110.

[28] Come è stato osservato, difatti, «non si ascolta con la stessa attenzione la voce di chi parla guardando negli occhi o la voce di un ologramma che tremola sul desktop». In questi termini, V. Manes – M. Terzi, Processo penale online: opinioni a confronto, in Diritto di Difesa, 3 maggio 2020.

[29] Cfr. A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, cit., passim.

[30] Al fine di evitare che le valutazioni emotive finissero per oscurare completamente i connotati razionali della decisione.

[31] In questi termini, icasticamente, V. Manes – M. Terzi, Processo penale online, cit. L’intera riflessione dell’Autore, d’altronde, ha l’obiettivo di svelare il valore insostituibile della scena – intesa nella sua dimensione al contempo materiale e simbolica – nelle democrazie e, in particolare, nella funzione del giudizio. Cfr. A. Garapon, La spazializzazione della giustizia, cit., 133. L’importanza della ‘mise en scène’ è diffusamente ribadita in A. Garapon – J. Lassègue, Le numérique contre le politique, cit., passim.

[32] Numerosi studi hanno evidenziato questo fenomeno di ‘alleggerimento’ della dimensione quasi sacrale del giudizio e i conseguenti effetti sulla decisione del giudice. Cfr., ad esempio, D. Tait- M. Rossner, Courts are moving to video during coronavirus, but research shows it’s hard to get a fair trial remotely, in The Conversation, 8 aprile 2020; N. Fielding – S. Braun – G. Hieke, Video Enabled Justice Programme: University of Surrey Independent Evaluation, 4 maggio 2020. In particolare, quest’ultima analisi ha dimostrato che nei procedimenti svolti in via telematica nei quali è stata emessa una sentenza (258 su 631), la probabilità di ottenere una condanna più lieve ai lavori socialmente utili (in media 13%) è risultata drasticamente più bassa della probabilità di vedersi infliggere una condanna alla pena detentiva (in media 47%). Il giudice, pertanto, pare essersi orientato nella maggior parte dei casi per la pena più grave. Ne dà conto, V. Manes, Prime rilevazioni empiriche sugli effetti del processo penale telematico, cit. Si tratta di un fenomeno diffusamente evidenziato nella relazione di E. Fronza, Nuovi orizzonti per il processo penale? Confronto a margine del libro: “La despazializzazione della giustizia” di Antoine Garapon, disponibile a questo link.

[33] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 135.

[34] L’Autore esemplifica questa ‘codificazione’ attraverso l’ipotesi del calcolo della possibilità di recidiva. L’operazione di ‘indicizzazione’, difatti, permette di elaborare un output in termini di percentuale di rischio che prescinda dalla valutazione di ogni singolo elemento rilevante della storia individuale del soggetto, mediante un giudizio che, pur presentando apparentemente caratteri di analiticità, risulta essere sostanzialmente sintetico.

[35] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 140.

[36] D’altronde, la stessa obiettività e trasparenza del calcolo algoritmico rischiano di rivelarsi, ad un’analisi più profonda, poco più di un’illusoria rassicurazione. Invero, la componente di ‘invisibilità’ e di scarsa controllabilità dei procedimenti di elaborazione algoritmica risiede proprio nella difficoltà di accedere al codice sorgente che lo governa e, conseguentemente, di falsificarne l’output decisionale. Come è stato sostenuto, difatti, «il rischio è che la pronuncia guidata dal software predittivo sottenda una sorta di “black box decision”, che potrebbe essere paragonata – sotto certi aspetti – ad una decisione priva di motivazione o con motivazione meramente apparente [...] o – peggio – ad una decisione presa nel segreto, in un contesto di asimmetria informativa». Così, V. Manes, L’oracolo algoritmico e la giustizia penale: al bivio tra tecnologia e tecnocrazia, in Discrimen, 15.05.2020, 14-15. Significativi rilievi critici, in relazione all’utilizzo di strumenti di IA con funzioni di policing e di sentencing, hanno riguardato, poi, il rischio di distorsioni cognitive dello stesso algoritmo (bias automation), l’opacità del relativo database, l’indeterminatezza del codice sorgente, l’automatica implementazione del software e l’accreditamento di pratiche discriminatorie. Ne dà conto G. Canzio, Intelligenza artificiale, algoritmi e giustizia penale, cit., par. 3. Per un’ampia panoramica sui possibili utilizzi dell’Intelligenza artificiale in relazione al diritto penale si veda F. Basile, Intelligenza artificiale e diritto penale: quattro possibili percorsi di indagine, in DPU, 29 settembre 2019.

[37] Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions. In argomento si veda G. Contissa – G. Lasagni – G. Sartor, Quando a decidere in materia penale sono (anche) algoritmi e IA: alla ricerca di un rimedio effettivo, in Diritto di internet, 4, 2019, 619 ss. e, particolarmente 621-624.

[38] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 150. La delega alle macchine dell’amministrazione della giustizia rischia di modificare significativamente la liturgia processuale e la stessa natura del giudizio. La tecnica, difatti, è in grado di sterilizzare la ricchezza ermeneutica tipica dell’attività decisoria, consegnandoci l’immagine di una giustizia matematicamente esatta, ma non necessariamente ‘giusta’. Cfr., in argomento, E. Fronza – C. Caruso, Ti faresti giudicare da un algoritmo? Intervista ad Antoine Garapon, in Questione giustizia, 4, 2018, 197.

[39] Cfr. A. Garapon, ivi, 152. Dinanzi ad uno scenario di questo tipo occorre domandarsi se si sia all’inizio di «uno sconvolgente (e però non auspicabile) mutamento di paradigma della struttura e della funzione della giurisdizione» e se, a fronte della innegabile complessità tecnica, dei lunghi tempi e dei significativi costi della faticose operazioni giudiziali ricostruttive del fatto, la postmodernità «metterà in crisi l’equità, l’efficacia e le garanzie del modello proprio del razionalismo critico» o se, al contrario, «resterà ben salda e vitale l’arte del giudicare “reasoning under uncertainty, seppure “by probabilities”». In questi termini, G. Canzio, Il dubbio e la legge, cit., 4.

[40] Cfr. V. Manes, L’oracolo algoritmico e la giustizia penale, cit., 13.

[41] La distanza si accentua ulteriormente, fino a diventare siderale, laddove la regola sia definita attraverso l’elaborazione algoritmica. In questi casi, invero, oltre alla mancanza di rappresentatività e legittimazione democratica del produttore delle norme, si pone un ulteriore problema di conoscibilità delle rationes poste alla base della scelta normativa, configurandosi quest’ultima come una decisione dal sapore quasi ‘oracolare’. Sul ruolo svolto dal ‘formante algoritmico’ nella fase di costruzione e definizione dei precetti penale si veda F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019, 40-44.

[42] E. Fronza, “Code is law”, cit., par. 8.

[43] Tale rischio è evidenziato diffusamente da V. Manes, L’oracolo algoritmico e la giustizia penale, cit., passim e particolarmente 22.

[44] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 169-173.

[45] Cfr. A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 163.