N.d.r.: con la recensione, che di seguito pubblichiamo, inauguriamo su Sistema penale un filone, auspichiamo florido, di segnalazioni bibliografiche e di inviti alla lettura relativi a opere letterarie che affrontano temi di rilevanza penalistica.
Romy Hall fa la spogliarellista al Mars Room, un night scalcagnato in cui “se non sei incinta di cinque o sei mesi, sei la reginetta della serata”; ha un figlio, Jackson, di cinque anni, e, alle spalle, un’infanzia mancata, una giovinezza prematura di indigenza, droga e abbandono, accanto a una madre burbera e depressa, in una San Francisco nebbiosa, sordida e punteggiata di lunghe file di case tutte uguali, “senza bandiere arcobaleno, poesia Beat o strade ripide e tortuose”. Kurt Kennedy è un veterano di guerra disabile, cliente del Mars Room e ossessionato persecutore di Romy; lei fugge a Los Angeles per allontanarsi da lui ma, proprio quando crede di esserci riuscita, se lo ritrova seduto nel portico della sua nuova casa. Arrabbiata ed esausta, Romy aggredisce l’uomo che, paralizzato dalla propria disabilità, non è nemmeno in grado di reggersi in piedi, e lo massacra a sprangate.
Romy non può permettersi un avvocato di fiducia, perciò gliene viene assegnato uno d’ufficio, disperatamente incompetente e oberato di lavoro, che la incontra per la prima volta in udienza; l’accusa insiste sull’irrilevanza degli atti persecutori e sulla totale inoffensività di Kennedy dovuta al suo handicap, e la giudice non ammette le prove dello stalking: l’imputata viene condannata a due ergastoli, che sconterà nella prigione di Stanville.
Finisce così la vita libera di Romy, e ne inizia una nuova, che della prima non conserva che la nostalgia, di Jackson, in primo luogo, rimasto completamente solo in un mondo ostile; una vita da trascorrere tra le mura del carcere: un edificio circondato da una recinzione elettrica, dotato di un quadratino di cemento circondato da filo spinato in cui le detenute trascorrono la loro ora d’aria, un luogo disciplinato da assurdi divieti, popolato da persone spesso analfabete e segnate da un passato da incubo, che si fingono dislessiche per poter godere delle poche tutele assicurate agli americani disabili, in cui pochissimo spazio è concesso alla solidarietà e all’amicizia. Unico bagliore di speranza nella vita di Romy è Gordon Hauser, un benintenzionato insegnante di lettere che le passa libri e le regala l’illusione di poter essere per lei un ponte verso il mondo esterno. Incapace di accettare l’esistenza che le è stata inflitta, Romy decide di tentare un’impresa mai riuscita a nessuna delle detenute di Stanville: l’evasione.
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Mars Room è un atto d’accusa a tutti gli attori della tragedia del processo penale: gli avvocati della difesa che, animati esclusivamente dalla logica del profitto, rifiutano ai poveri il diritto a difendersi; i sostenitori dell’accusa a tutti i costi, che trascurano la giustizia in favore di un’interpretazione formalistica delle norme; i giudici inermi di fronte alla manifesta disparità delle armi nei casi di processi a carico di appartenenti alle fasce più svantaggiate della popolazione. È un potente, tristissimo ritratto del carcere, come luogo di isolamento, annientamento dell’identità e privazione della speranza, albergo di persone quasi sempre poverissime, per nulla istruite, tossicodipendenti, vittime, a loro volta, di un’esistenza di abusi e privazioni, adatto, forse, a rimuovere dalla vista delle “persone per bene” i prodotti delle diseguaglianze economiche e sociali, ma, evidentemente, non a svolgere quel compito che le Costituzioni gli assegnano: restituire alla società persone migliori.