Pubblichiamo di seguito le Prefazioni ai seguenti volumi di P. Gianniti in materia di diritti fondamentlai, editi da Aracne nel 2022:
P. Gianniti, Dignità e solidarietà. Per uno statuto dei diritti fondamentali, Aracne, 2022 (di C. Sartea)
P. Gianniti, Diritti fondamentali e giudice comune. Verso un sistema europeo di tutela integrata, Aracne, 2022 (di R. Sabato)
P. Gianniti, Corti supreme e diritti fondamentali. Verso una nomofilachia europea, Aracne, 2022 (di E. Lupo)
***
P. Gianniti, Dignità e solidarietà. Per uno statuto dei diritti fondamentali, Aracne, 2022, pp. 254
Prefazione di Claudio Sartea
Ogni richiamo al fondamento implica un atteggiamento sapienziale: il rimando consapevole alla radice da cui proviene la linfa vitale di un’idea o, come nel nostro caso, di una istituzione sociale, giuridica e politica. Per tale motivo quando l’Autore di questo libro, Pasquale Gianniti, mi ha chiesto se fossi disponibile a preparare per esso una prefazione “sapienziale”, il suo gradito invito mi è sembrato quasi tautologico.
È terminata, e da tempo, la stagione dei tecnicismi e dei giuridicismi in materia di diritti fondamentali e diritti umani: sempre che tale stagione abbia mai avuto credito scientifico e pratico. È terminata perché molto prima era tramontata l’epoca del positivismo giuridico, di cui anzi la dottrina dei diritti umani è una delle cause di crisi e disfacimento più incisiva. Alcuni sostengono che a Norimberga si sia celebrato non solamente il funerale del nazionalsocialismo, ma anche del giuspositivismo e la fine irreversibile della sua breve stagione di gloria. Senza giudicare siffatta interpretazione, resta vero che dalla Dichiarazione Universale del 1948 in poi non è stato più possibile assegnare ai postulati teorici kelseniani (l’approdo estremo del giuspositivismo, il più radicale e raffinato al contempo: il diritto può avere qualsiasi contenuto, la giustizia è un ideale irrazionale) una portata teorica e pratica paragonabile a quella che avevano avuto nei primi decenni del secolo scorso.
La riflessione giuridica ha svoltato in modo netto verso una rinnovata autocomprensione, che si è riavvicinata non solo alle prospettive del diritto naturale classico, ma addirittura ha riesumato — come Gianniti puntualmente annota — la profonda verità tramandataci dalla tradizione romanistica, che è l’origine autentica dei nostri sistemi giuridici: hominum causa jus est constitutum.
È dall’antropologia filosofica dunque che occorre partire, se si vuole capire qualcosa del fondamento del diritto: e del fondamento, di conseguenza, dei diritti umani. L’insistito richiamo alla dottrina giusfilosofica di Sergio Cotta, nella cui scuola mi riconosco appieno come allievo di Francesco D’Agostino, impareggiabile Maestro recentemente scomparso e che tanto a lungo e profondamente ha meditato anche i temi ed i problemi della filosofia dei diritti umani, è nel libro di Gianniti l’inequivocabile conferma di una matura consapevolezza: non è possibile comprendere i diritti umani, nemmeno nella loro veste di diritti fondamentali (e dunque costituzionalizzati, assistititi cioè da una prima forma di positivizzazione), senza coltivare ed attingere una visione dell’essere umano, che ne è il titolare. Non è possibile comprendere senso e scopo del diritto in ogni suo darsi storico e contingente, senza preliminarmente indagare filosoficamente l’essere umano che, unico vivente nell’universo, si dota di regole, riconosce e conferisce doveri e diritti (il cui indissolubile legame è pure approfondito nel volume di Gianniti), vive insomma giuridicamente la propria esistenza nel mondo, che è contesto relazionale.
Il “fondamento” a cui rimanda la denominazione di “fondamentali” per questi diritti, è allora semplicemente l’essere umano: che appunto costituisce la radice ultima (o, se si preferisce con Simone Weil, “la prima radice”) del giuridico e dei diritti umani. L’antropologia dei diritti umani, unica chiave per comprenderne senso, fondamento e portata, è dunque né più né meno un’antropologia filosofica: riflettere sull’essenza umana è la via per chiarire il contenuto dei diritti, lumeggiarne i limiti, bilanciarne le tensioni comunitarie (e quanto è prezioso recuperare questa verità, in tempi di guerra ed in tempi di pandemia: tempi nei quali, quasi per definizione potremmo dire, si moltiplicano restrizioni e sacrifici a carico dei diritti soggettivi). L’umanità, nel senso di essenza o natura, non solo né anzitutto nel senso di collettivo, è il fondamento dell’esperienza giuridica, ed in particolare dell’esperienza giuridica dei diritti umani.
Nel titolo del saggio di Gianniti, che sa intrecciare questioni e fonti di scienza giuridica con importanti problemi di teoria e filosofia del diritto, appare anche un binomio che nella seconda parte del volume diventa centrale: quello di dignità e solidarietà. La prospettiva dell’Autore è chiara: l’antropologia filosofica che rende comprensibile diritto e diritti umani è un’antropologia che integra l’idea dell’essere umano nell’idea di persona. Non solo il principio secondo il quale ogni essere umano è persona: ad esso va aggiunta anche una concezione della persona che, lungi dall’esaurire questo prezioso contributo della cultura cristiana nella categoria dell’individuo, la comprende come unica e irripetibile nella sua apparizione terrena (un qualcuno, dunque, non un qualcosa, direbbe Robert Spaemann: e di conseguenza, come ha scritto Michel J. Sandel, una realtà che i soldi non possono comprare), e la inserisce realisticamente nella struttura relazionale della vita. Eccoli qui, i due assi cartesiani della personalità anche in senso giuridico: la dignità del soggetto umano e la solidarietà in cui ogni sua manifestazione giuridicamente rilevante s’inserisce.
Con questi scarni cenni si conclude la prefazione, che non ha altro scopo se non quello di invitare all’attenta lettura del libro: esso affronta con coraggio, sviluppa con puntuale competenza, ed approfondisce in maniera interessante e talora persino avvincente i temi indicati dal titolo, fornendo al lettore numerose indicazioni bibliografiche e spunti di riflessione per spingere lo sguardo più in là di queste stesse pagine, se lo desidera. Rimarco solo ancora la nota di “pacato ottimismo” con cui Gianniti ha voluto terminare il suo lavoro: non è un atteggiamento molto frequente, di questi tempi; in un testo di meditato approfondimento, che non disdegna riferimenti filosofici, risulta persino naif, se consideriamo la moda del pessimismo che caratterizza tanta parte della cosiddetta alta cultura contemporanea. Merito in più, dunque, dell’Autore, che senza troppe difficoltà si smarca dagli atteggiamenti preconfezionati e dai clichés ed affida al lettore senza infingimenti, pose o giri di parole, un compito grande ed urgente: quello di riflettere sull’intima connessione tra essere umano (animale razionale, solidale, e dipendente come lo ha definito MacIntyre), e diritto. Per non relegare il giuridico nell’astrattezza o estraniarlo dalle dinamiche morali e sociali, e per non lasciare la vulnerabilità umana sprovvista di uno dei pochi baluardi che, almeno sulla carta, possono mostrarsi capaci di proteggerla dalla violenza dell’ingiustizia.
***
P. Gianniti, Diritti fondamentali e giudice comune. Verso un sistema europeo di tutela integrata, Aracne, 2022, pp. 793
Prefazione di Raffaele Sabato
Pasquale Gianniti — cui mi lega la precedente colleganza quale magistrato nella corte di legittimità — ha già da anni voluto condividere con il pubblico, quale autore o curatore, le sue riflessioni in materia di diritti fondamentali. Egli propone ora alla nostra attenzione più volumi collegati tra loro, dei quali quello che si presenta — dal titolo “Diritti fondamentali e giudice comune: verso un sistema europeo di tutela integrata” — è il sequel di altro, interessantissimo, volume, dal titolo “Dignità e solidarietà: per uno statuto dei diritti fondamentali, che costituisce, rispetto a questo secondo, una importante premessa giuridico−filosofica, non priva di agganci antropologici. Non potendo in questa sede esondare rispetto all’oggetto del commento che mi è affidato (esondazione per la quale non avrei peraltro alcuna competenza), mi pare però doveroso, in esordio, raccomandare ai lettori la consultazione del prequel, la quale consentirà di meglio inquadrare le riflessioni contenute nel lavoro ora pubblicato. Da tale lettura ho tratto personalmente grande giovamento, oltre che profonda soddisfazione per il modo con cui l’autore tratteggia la dignità e la solidarietà come i due poli che, con l’imporsi della giustiziabilità dei diritti umani, debbono ispirare l’operatore che non sia disattento ai presupposti di “fondamento” del discorso giuridico.
Il testo che si presenta, comunque, è redatto in maniera ampiamente autosufficiente, per cui la pur raccomandata lettura del volume precedente non è strettamente necessitata. L’autore infatti presenta nei primi due capitoli della “parte generale”, dedicata ai presupposti giuridico−politici dell’integrazione europea, le basi ideali e le attività dei movimenti europeisti, oltre che le opere delle personalità e delle organizzazioni cui è stata legata l’evoluzione della “grande” e della “piccola” Europa. Oltre all’interesse che desta l’approfondimento di tutti i temi affrontati in questi capitoli, il lettore a mio avviso si troverà particolarmente attratto (e diventerà particolarmente preoccupato) in base alla lettura dei capitoli che marcano i recenti “passi indietro” di un percorso che comunque è stato storicamente tutto di stop and go: alludo agli importanti passaggi relativi alla Brexit e — molto più tristemente — alla guerra in Ucraina. L’autore, che grazie alla sua visione del mondo professa sempre “pacato ottimismo” (questa la cifra desumibile dal primo volume, su cui tornerò), ci dona sul tema della guerra qualche riflessione davvero importante. Speriamo davvero che presto si ritirino le armi dinanzi alla toga (o almeno alla feluca).
Il terzo, il quarto e il quinto capitolo della “parte generale” sono stati dedicati dall’autore all’integrazione nell’ambito dell’Unione europea, in una tensione che l’autore evidenzia tra diritti fondamentali e ruolo delle corti sia nazionali sia a livello unionale, nonché tra i diversi ambiti dell’integrazione: non solo quello politico, con le note questioni in tema di democraticità delle istituzioni, ma anche quello economico−finanziario, con interessanti prospettive in materia di integrazione fiscale. Mi è sembrata di particolare rilievo la sottolineatura dell’asimmetria tra cessione all’Unione della sovranità monetaria e mantenimento presso gli Stati della sovranità fiscale, per cui l’autore auspica degli avanzamenti sul punto. Parimenti di rilievo è la sottolineatura della possibilità di trasformare l’attuale crisi (dovuta anche al conflitto in corso) in un’opportunità di ulteriore integrazione, ove si superassero grazie anche all’emergenza le diverse visioni che gli Stati hanno del futuro dell’Unione.
La “parte speciale” dell’opera segna il passaggio al “vivo” delle questioni: essa è, dal punto di vista formale, dedicata all’esame dei singoli “livelli” di tutela dei diritti fondamentali e alle prospettive evolutive a più “livelli” che ne deriva. Dal punto di vista sostanziale, però, l’autore non omette — per ciascun “livello” — di fornire ampie coordinate informative e di analisi. La “parte speciale” è così suddivisa in quattro sezioni, le prime tre centrate sui “livelli” nazionale, convenzionale e unionale mentre la quarta è dedicata agli scenari futuri, con una enfasi sul ruolo del giudice comune nell’emersione delle questioni di scaturigine europea e nel governo dei meccanismi giuridici all’uopo in via di messa a punto nel dialogo tra le corti (tra i quali la c.d. doppia pregiudizialità), oltre che — last but not least — dei conseguenti profili di responsabilità.
Si tratta di sezioni ricchissime, che ben ripercorrono temi semmai noti agli addetti ai lavori, presentandoli però in maniera piana e, soprattutto, organica. Non è un caso, se ben comprendo, che Pasquale Gianniti abbia inteso — come si evince dall’esergo — dedicare questo volume “ai futuri magistrati”, posto che da un lato — a mio parere — proprio essi necessitano di una visione coerente e “pacatamente” ottimistica e che, d’altro lato, a loro è affidata l’ulteriore evoluzione che l’autore tratteggia.
La mia prima lettura dell’ultima sezione del volume, dedicata come detto al ruolo del giudice comune nazionale nella tutela dei diritti fondamentali, mi conduce a richiamare l’attenzione dei lettori (e in particolare dei giovani, magistrati o avvocati che siano) proprio su di essa. In particolare — posto che una rilevante mole delle considerazioni svolte dall’autore in detta sezione riguardano i rapporti del giudice comune nazionale con il diritto unionale — mi hanno colpito specificamente le importanti riflessioni svolte da Pasquale Gianniti (nel secondo capitolo) circa la posizione dei giudici nazionali come giudici “naturali” dei diritti garantiti dalla cedu. L’autore qui sottolinea, com’è doveroso, le note differenze — rispetto all’impatto del diritto ue — dei poteri (non) disponibili a detti giudici comuni quanto a (im)possibilità di disapplicazione in tema di norme interne confliggenti, quando si tratti invece di diritti garantiti dalla cedu, rimarcando che “all’attualità” “le corti costituzionali nazionali” “non rinuncia[no] ad avere … l’ultima parola”.
Quel che va enfatizzato in proposito — a mio avviso — è come l’autore, a differenza della vulgata comune, esprima profondo rispetto sia del ruolo dei parlamenti nazionali sia delle medesime corti costituzionali, allo stesso tempo ponendo a carico (e a merito) del giudice comune la funzione consentitagli, e di non poco momento, di interpretazione conforme alla cedu o di rilievo della questione di legittimità costituzionale (oltre che di rinvio pregiudiziale e disapplicazione, quanto al diritto ue), con le aperture futuribili che potranno derivare anche dall’adesione della ue alla cedu. Detti strumenti — a prescindere da altri poteri, non necessari benché invocati da alcune correnti di pensiero — già consentono al giudice comune di pienamente “collaborare” al dialogo giudiziario in ambito cedu, essendone in verità motore interattivo. A Strasburgo, ormai, parliamo in tal senso di “community of judges”; e mi pare che Pasquale Gianniti lodevolmente porti lo stesso messaggio di “pacato ottimismo” al pubblico italiano.
***
P. Gianniti, Corti supreme e diritti fondamentali. Verso una nomofilachia europea, Aracne, 2022, pp. 880
Prefazione di Ernesto Lupo
Il problema di fondo che Pasquale Gianniti affronta in questa ampia ricerca è costituito dalla attuale ed evidente situazione di incertezza del diritto: “i processi sono un terno al lotto”, ha scritto recentemente Michele Ainis su la Repubblica (anche se con esagerazione giornalistica). Questa situazione contraddice la funzione fondamentale del diritto, che è quella di conferire sicurezza ai rapporti giuridici tra i consociati e di ordinare la loro vita collettiva. L’incertezza è di ostacolo anche alla tutela dei diritti fondamentali, verso i quali si indirizza l’interesse prioritario dell’Autore, rivelato già dagli altri due volumi da lui dedicati alla complessa tematica, che, politicamente e giuridicamente, caratterizza la nostra epoca successiva alla Seconda guerra mondiale, contraddistinta dalle Carte e dalle Corti di protezione dei diritti fondamentali. Questa protezione può ritenersi sussistente solo se essa si presenta con i caratteri di stabilità e di prevedibilità.
Uno dei principali strumenti di superamento della incertezza del diritto è ravvisato da Gianniti, con visione condivisa, nella nomofilachia delle Corti supreme nazionali ed europee.
Questo termine è di origine dottrinale e si rifà ad una magistratura dell’antica Grecia (nomofilace) che aveva il compito di custodire in un archivio il testo ufficiale delle leggi. Il termine, nel secolo corrente, è entrato nel nostro ordinamento positivo, con riguardo alla nomofilachia della Corte di cassazione. Il legislatore del processo civile, nel 2005-2006, ha rafforzato la funzione di questa istituzione, già prevista dall’ordinamento giudiziario del 1941, di realizzare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo, qualificandola, per la prima volta, come “funzione nomofilattica” (quella che Gianniti chiama nomofilachia positiva, ossia rivolta al contenuto delle future decisioni giudiziali, e non alla valutazione della decisione già emessa ed impugnata).
Questa finalità è stata perseguita, con contenuti eterogenei e, per qualche aspetto, contraddittori, anche dalle novelle legislative del 2009, 2012 e 2016 e, ancor più, dalla recente riforma del processo civile (legge delega n.206/2021 e d. lgs. n.149/2022). Al medesimo indirizzo di politica del diritto si è ispirato, nel 2017, il legislatore del processo penale. Da ultimo, la legge di riforma del processo tributario ha imposto alla Cassazione di “stabilizzare gli orientamenti di legittimità” nella detta materia (legge n. 130/2022, art.3).
Potrebbe dirsi, allora, che il pensiero di Piero Calamandrei, espressosi nei due volumi sulla Cassazione civile del 1920, abbia trovato in questo secolo una piena realizzazione con gli interventi del legislatore sul giudizio civile di cassazione e con il suo recepimento anche al di là del processo civile.
Ma la nomofilachia della Cassazione nell’ordinamento vigente è cosa differente da quella esposta da Calamandrei, come ritiene Gianniti, che parla di sua “metamorfosi”. Tutta la presente ricerca si muove secondo la direttrice di analizzare le tante diversità tra passato e presente, mirando a costruire una nozione di nomofilachia che non si fermi alle funzioni esercitate dalla Cassazione prima della Costituzione e nel contesto di una cultura positivistica, ma consideri il ruolo del giudice di legittimità nell’odierno sistema giuridico costituzionale e si estenda ai rapporti di questo giudice con le altre Corti supreme nazionali (Consiglio di Stato e Corte dei conti), che esercitano anche esse una funzione nomofilattica nelle materie rientranti nelle loro rispettive giurisdizioni, e, soprattutto, ai rapporti con le Corti sovranazionali (Corte di giustizia di Lussemburgo e Corte dei diritti umani di Strasburgo).
Già Virgilio Andrioli, nella Presentazione della ripubblicazione della Cassazione civile avvenuta nel 1976, avvertiva che Calamandrei, “se Iddio gli avesse consentito di curare la seconda edizione” della sua opera, avrebbe “affrontato i problemi veri dei rapporti, in concreto, tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, e, più di recente, tra Corte di cassazione e Corte di giustizia delle Comunità europee e, soprattutto, non avrebbe mancato di constatare che il compito della nomofilachia non può essere perseguito dalla Cassazione in astratto, ma deve essere inquadrato nel modo di essere dell’intero processo di cognizione”.
A distanza di quasi mezzo secolo da queste affermazioni si impone con ancora maggiore evidenza la necessità di attualizzare la funzione di nomofilachia della Cassazione nel processo civile (e, più in generale, sul piano ordinamentale della istituzione).
Questa consapevolezza consente di precisare in quale senso possa essere accettata la tesi, recentemente affermata, di “obsolescenza della funzione di nomofilachia” (così Luca Passanante nell’incontro di studio tenuto l’11 novembre 2020 presso la Corte di cassazione in occasione del centenario della menzionata opera di Calamandrei). Se obsoleto può ritenersi il concetto di nomofilachia fondato sulla esistenza di un’unica interpretazione esatta della legge, obsoleta non è, di certo, la funzione nomofilattica attribuita dal legislatore del 1941 alla Corte di cassazione e rafforzata con più e svariati interventi legislativi di questo secolo.
La Corte di Strasburgo, con orientamento seguito anche dalla Corte di Lussemburgo (sia pure in pronunzie meno numerose), pone, tra i requisiti minimi inderogabili di ogni norma giuridica, la prevedibilità della sua applicazione giudiziaria, la quale è assente se sulla stessa sussiste una giurisprudenza ondivaga e comunque non uniforme. Il contrasto di decisioni nella interpretazione di una disposizione normativa – osserva la Corte europea – è ammissibile a livello di giurisprudenza di merito, ma non nell’ambito della Corte suprema, che è tenuta ad esercitare un ruolo unificante dell’ordine giuridico. Pertanto, si è mosso con piena aderenza agli orientamenti delle Corti europee il legislatore nazionale, il quale in questo secolo ha attribuito una particolare efficacia giuridica ai principi di diritto espressi dalle Sezioni unite della Cassazione sia civili (artt. 374 c.p.c., come modificato nel 2006), che penali (618 c.p.p., modificato in modo uguale nel 2017). La nuova efficacia consiste in un obbligo meramente procedimentale per le pronunzie delle sezioni semplici della Corte, ma produce l’effetto essenziale di creare un affidamento della collettività su determinati orientamenti interpretativi del giudice di legittimità, evitando che essi possano essere modificati in modo sporadico ed occasionale o comunque non sufficientemente meditato (e sempre che le Sezioni unite siano all’altezza del compito loro affidato).
La funzione nomofilattica non viene meno per l’intima connessione che, nella decisione dei singoli casi, normalmente si pone tra l’accertamento dei fatti e le norme giuridiche ad essi applicate. L’attribuzione di significato alle parole della legge non può prescindere dal contesto applicativo, e cioè dai fatti ai quali essa va applicata, nonché dalle esigenze valoriali che il contesto esprime (c.d. circolo ermeneutico). Il superamento, nella teoria della interpretazione giuridica, della tradizionale e rigida dicotomia tra fatto e diritto non esclude la possibilità di porre, sulla base di un fatto della vita già accertato nei suoi elementi, una quaestio iuris, costruita in termini generali e così idonei ad agevolare la decisione di casi futuri in cui insorga l’identica questione giuridica. L’attività delle Sezioni unite (civili e penali) sta a dimostrare la corretta possibilità di enucleare dalle decisioni di merito questioni di solo diritto e di separare il giudizio di legittimità dal merito della decisione impugnata. Il fatto che, in una concreta fattispecie, si isolino e si decidano separatamente questioni giuridiche (pure se in un definito contesto fattuale) è, d’altronde, il presupposto della proposizione alla Corte di giustizia di questioni di interpretazione del diritto dell’Unione europea. Nella soluzione di dette questioni le caratteristiche della concreta fattispecie sono tenute presenti dalla Corte europea, ma la risposta che essa dà ha un ambito generale e va applicata nei successivi processi in cui insorga l’identica questione giuridica. Le moderne teorie sulla interpretazione, se non fanno venire meno il concetto e la funzione nomofilattica, devono però indurre a non dimenticare il collegamento tra la soluzione della quaestio iuris e la concreta fattispecie nella quale essa è stata adottata, proprio perché va riconosciuta la correlazione del principio di diritto con il fatto che ne ha determinato l’affermazione.
Ma l’aspetto più nuovo della nomofilachia della Cassazione è stato originato dal sopravvenire delle Corti europee. Queste, da un lato, hanno posto limiti ai suoi poteri che, in epoca anteriore, sarebbero stati inimmaginabili: la Corte di Lussemburgo ha individuato in sentenze della Cassazione, postesi in violazione del diritto dell’Unione europea, il fatto costitutivo di responsabilità dello Stato; la Corte di Strasburgo ha più volte stabilito che determinate pronunzie della Cassazione hanno violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Da qui potrebbe trarsi il superamento della qualificazione, contenuta in diverse disposizioni, della Corte di legittimità come Corte suprema. Ma, d’altro lato, quasi a compensazione di questa deminutio, la Cassazione è stata chiamata a risolvere problemi giuridici del tutto nuovi, relativi agli effetti nell’ordinamento interno di decisioni delle due Corti europee, esercitando così una funzione nomofilattica di massima utilità per i giudici di merito e per la certezza del diritto, stante la normale complessità dei detti problemi e la frequente opinabilità delle loro soluzioni.
La nomofilachia della Cassazione ha così ampliato il suo ambito, estendendosi alla uniformità anche del diritto dell’Unione e del diritto convenzionale (Cedu), tenuto conto del principio indiscusso che i giudici nazionali (di legittimità e di merito) sono giudici incaricati della loro applicazione non meno che del diritto nazionale. Essi sono, cioè, organi non solo della giurisdizione interna, ma anche dei due sistemi giurisdizionali europei.
In ambedue i detti sistemi è essenziale la protezione dei diritti fondamentali, ma diversi sono, come è noto, i meccanismi con cui i giudici nazionali si raccordano alle due Corti europee. Per l’ordinamento dell’Unione europea, la previsione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art.267 TFUE) consente il “dialogo da giudice a giudice”, onde l’uniforme interpretazione delle disposizioni di quell’ordinamento può fondarsi sulle pronunzie della Corte europea. La possibilità di dialogo costituisce un obbligo per la Cassazione, la cui responsabilità nel realizzare detta uniformità è pertanto più accentuata. In questo dialogo tra giudici nazionali comuni e Corte di giustizia si è, di recente, inserita anche la Corte costituzionale, secondo l’orientamento preannunziato nel famoso obiter dictum della sentenza n.269/2017 e poi attuato, con importanti precisazioni, negli anni successivi. Questo inserimento, come ha osservato un giudice della Corte di giustizia (Lucia Serena Rossi), “ben lungi dal costituire ‘un terzo incomodo’ nel triangolo giurisdizionale che si viene a formare tra Corte di giustizia giudici nazionali e Corti costituzionali”, contribuisce, con l’autorevolezza della Corte costituzionale, “ad orientare anche i valori fondamentali dell’Unione europea”.
Rispetto alla Cedu, invece, non è previsto alcuno strumento giuridico di dialogo tra i giudici nazionali e la Corte di Strasburgo, non essendosi ancora pervenuti, da parte dell’Italia, alla ratifica del Protocollo n.16. Le decisioni della detta Corte possono intervenire soltanto “dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interno”, e quindi solo dopo la formazione del giudicato interno, con il quale esse, quando dichiarano la violazione della Convenzione, vengono inevitabilmente a scontrarsi. La realizzazione di un regime uniforme del nostro ordinamento in ordine agli effetti in esso delle sentenze della Corte di Strasburgo ha finora posto, come si è detto, problemi complessi. Opportuni sono, pertanto, gli interventi innovativi previsti dalle recentissime riforme processuali: l’introduzione del rimedio della revocazione della sentenza civile il cui contenuto sia successivamente dichiarato contrario alla Cedu (legge delega n.206/2021, art.1, comma 10, attuato con l’art.3, comma 28, lett. o del d. lgs. n.149/2022, che ha inserito, nel c.p.c., l’art.391-quater); la previsione, nel processo penale, di “un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”, con l’attribuzione alla Cassazione del “potere di adottare i provvedimenti necessari” (legge delega n.134/2021, art.1, comma 13, lett. o, attuato con l’art.36 del d. lgs. n.150/2022, che ha inserito, nel c.p.p., l’art.628-bis). L’introduzione e la futura applicazione di questi due nuovi rimedi processuali, da esperire davanti alla Corte di cassazione, segnano un’ulteriore ed importante tappa nel cammino verso la realizzazione di una nomofilachia europea, idonea a consolidare un sistema europeo di tutela integrata dei diritti fondamentali.
La presente ricerca di Gianniti, per completezza e profondità di analisi, costituisce un utilissimo aiuto per ripercorrere questo cammino e per percepirne appieno le difficoltà e le prospettive. Il lettore viene così messo nelle condizioni di padroneggiare una materia poliedrica e sfuggente per le sue tante connessioni ed implicazioni.
***
Ma ci si può chiedere: è in grado l’attuale Corte di cassazione di svolgere questa nuova e più ampia funzione nomofilattica, perseguita con costanza dal legislatore in questo secolo, sino alla “riforma Cartabia”? L’Autore si pone questo problema e mette in risalto tutte le difficoltà che derivano dall’enorme numero di ricorsi (sia civili che penali), che rendono necessario un numero elevato di magistrati. Questi decidono in collegi composti da membri anche totalmente variabili, i quali pertanto possono ignorare ciò che la stessa sezione (in composizione diversa) ha deciso il giorno prima. Si è parlato, figurativamente ma efficacemente, di Cassazione “assediata” dai ricorsi.
La situazione è tale da incidere negativamente e pesantemente sulla realizzazione della funzione nomofilattica, come intesa dal legislatore e come necessaria per il rispetto del principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge, come applicata (in action, e non solo in the books). Ho scritto, altre volete, che l’attuale struttura della Cassazione (necessitata, innanzitutto, dal numero di ricorsi) è inidonea a realizzare appieno la funzione per la quale essa è stata istituita dall’ordinamento.
Il problema deriva, come è noto, dalla formulazione dell’art.111 della Costituzione, che, come rileva Gianniti, è stato scritto quando il numero dei ricorsi era notevolmente inferiore a quelli di questo secolo. Per limitarsi ai ricorsi civili, il loro numero annuale, sino al 1948, è stato quasi sempre inferiore a 4.000; dal 2002 sino ad oggi, superiore, per lo più, ai 30.000.
Dalla situazione di fatto così modificatasi rispetto a quella esistente all’epoca delle scelte costituzionali deriva l’esigenza di una limitazione della ricorribilità per cassazione, secondo uno dei diversi modelli esistenti in altri Stati dell’Unione europea, che l’Autore non si esime dall’esaminare.
Non è questa, ovviamente, la sede per prospettare modifiche della Costituzione. Ritengo che effetti decisamente positivi possano derivare anche da interventi legislativi che si muovano nell’ambito dell’attuale assetto costituzionale. Penso, in particolare, ad una legge ordinaria che, nell’ambito degli avvocati, disponga la separazione categoriale tra quelli legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare nel solo giudizio di legittimità, il quale richiede una preparazione ed una esperienza particolari. La riserva al secondo gruppo della abilitazione a proporre ricorso per cassazione (secondo il modello francese), oltre a limitarne il numero, creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei perciò a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità, con l’effetto ulteriore di migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti. L’esperienza della introduzione di filtri meramente interni alla Corte, attraverso la previsione di strumenti giuridici di volta in volta diversi, si è dimostrata sostanzialmente inutile, quando non è stata fonte di ulteriori complicazioni e difficoltà per la Corte.
Quello qui accennato è uno dei tanti interventi di riforma prospettabili per rendere la Cassazione idonea ad esercitare in concreto la funzione nomofilattica, che si è vista essere oggi essenziale per la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
L’ampia disamina che Gianniti compie anche sulle proposte de iure condendo consente al lettore di formarsi un’opinione pienamente informata pure su questa problematica.