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21 Maggio 2020


Abuso d’ufficio e atti discrezionali della pubblica amministrazione: l’archiviazione del procedimento nei confronti del Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana

GIP Milano, decreto 23 marzo 2020, giud. Mascarino



 

1. Con il decreto che può leggersi in allegato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in seguito alla conforme richiesta dei pubblici ministeri, ha disposto l’archiviazione del procedimento per il delitto di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) nei confronti del Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Il provvedimento offre l’occasione per riflettere sull’interpretazione e l’applicazione della figura delittuosa di cui all’art. 323 c.p.: norma residuale – e di disvalore ridotto – nella sistematica dei delitti contro la pubblica amministrazione, nondimeno di importanza centrale quale paradigma dei rapporti tra l’attività amministrativa e il sindacato del giudice penale.

 

2. Ma partiamo, come di consueto, dalla ricostruzione dei fatti dai quali ha avuto origine il procedimento. La vicenda in esame s’inserisce nel solco di una più ampia indagine penale, nell’ambito della quale una delle contestazioni accusatorie concerneva il tentativo di corruzione operato da G. C., influente politico della provincia di Varese, nei confronti del Presidente Fontana. La premessa fattuale per la comprensione della vicenda è la mancata rielezione alla carica di consigliere regionale di L. M., socio di studio del Presidente di Regione Lombardia. L. M. imputava il fallimento della sua campagna elettorale, e la mancata elezione, proprio a G. C.: questi, molto importante politicamente nella zona di Varese – di cui è tra l’altro originario lo stesso M. – aveva infatti deciso di offrire il suo sostegno ad un altro candidato, determinando di fatto la sconfitta elettorale del socio di Fontana. Secondo la ricostruzione dei p.m., la mancata rielezione di L. M. aveva fatto, sin da subito, registrare la volontà del Presidente di trovare il modo di ricollocarlo professionalmente. È in questo scenario che s’inserisce l’istigazione corruttiva di G. C. Quest’ultimo proponeva infatti a Fontana di nominare un importante dirigente della partecipata del Comune di Milano “AFOL Metropolitana” alla direzione generale dell’assessorato “Istruzione, Formazione e Lavoro”, a fronte della promessa che si sarebbe adoperato in prima persona per garantire a L. M. l’affidamento di incarichi di consulenza da parte della stessa AFOL, nella quale ricoprivano incarichi di rilievo persone di strettissima fiducia di G. C.

Il presidente Fontana, dopo un’iniziale apertura a tale ipotesi, ha invece preferito percorrere un’altra strada, non accogliendo la proposta del politico varesino e nominando il suo socio di studio quale componente esterno del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici. Tale organo, composto da membri interni all’ente regionale e da componenti esterni selezionati con procedure ad evidenza pubblica, svolge «funzioni di supporto nelle fasi di programmazione, valutazione, attuazione e verifica di piani, programmi e politiche di intervento promossi e attuati dalla Regione», e richiede tra i suoi componenti un esperto con competenze giuridiche.

La nomina di L. M. rappresenta la condotta contestata a Fontana nel procedimento avviato nei suoi confronti per il delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) che, come abbiamo già anticipato in avvio, è stato tuttavia ritenuto non configurabile dal G.i.p., conformemente alla richiesta di archiviazione da parte dei pubblici ministeri.

 

3. Prima di concentrarci sui profili relativi all’abuso d’ufficio, è necessario che ci si soffermi brevemente sull’inquadramento della procedura e dell’atto attraverso i quali è avvenuta la nomina di L. M. Un tale atto, posto in capo ad autorità ‘politiche’ come la Giunta ed il Presidente della Regione, è caratterizzato infatti da margini di libertà, dovuti in particolare alla natura fiduciaria della scelta, che rendono necessario chiedersi fino a che punto possa spingersi il sindacato, tanto del giudice amministrativo quanto di quello penale, sulla legittimità dell’atto stesso; ciò alla luce dell’esigenza di non sconfinare nella valutazione del merito delle scelte dell’amministrazione.

La richiesta di archiviazione dei p.m. – integralmente riportata nel decreto ed alle cui conclusioni il G.i.p. ha aderito – è stata argomentata sul rilievo che, alla luce della legge regionale che disciplina il nucleo di valutazione (l. n. 5 del 27 febbraio 2007), la selezione dei membri di tale organo deve assumere caratteri non concorsuali, avvenire valorizzando criteri di competenza tecnica e sulla base della valutazione dei curricula. Al netto di queste poche indicazioni – alle quali si affianca solo la previsione di un limite massimo di componenti – la legge regionale lascia ampia libertà di scelta alla Giunta che, entro questi limiti, può esercitare la sua discrezionalità nella individuazione dei membri del nucleo.

Nonostante queste minime condizioni, secondo i pubblici ministeri tale procedura non presenta comunque i tratti che consentono di inquadrarla alla stregua di un atto di alta amministrazione, ovvero all’interno di quella categoria di atti che corrisponde ad una forma di azione amministrativa caratterizzata da un livello altissimo di discrezionalità, ma pur sempre distinta dall’indirizzo politico che è chiamata ad attuare. Ciononostante, per i p.m., la qualificazione dell’atto come di alta amministrazione, o al contrario di semplice amministrazione, non assume rilievo dirimente rispetto alla sua sindacabilità e alla soggezione dello stesso ai principi che guidano l’azione amministrativa. Anche in presenza di procedure caratterizzate da un ampio margine di discrezionalità, la giurisprudenza amministrativa è stata infatti sempre chiara nel richiedere il rispetto di principi, ‘minimi’, di correttezza, trasparenza ed imparzialità. In altre parole, anche ad assumere la presenza di tratti di ‘fiduciarietà’ nella scelta dei membri, ciò non esime dal rispetto delle esigenze di imparzialità e, nel caso sia ravvisabile, del dovere di astensione[1]. Nell’adozione dell’atto in esame non si può dunque prescindere dalla considerazione dei principi cardine che disciplinano l’azione amministrativa, primo fra tutti quello di imparzialità. Affermazioni queste proposte dai p.m. (Dott. A. Scudieri, L. Furno, S. Bonardi) ed integralmente condivise dal G.i.p. (R. Mascarino) nel successivo provvedimento di archiviazione.

 

4. Ciò detto, il quesito da porsi ora è quali tipi di violazione da parte del pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni determinino l’integrazione del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). In altre parole, ci si deve domandare a quali illegittimità fa riferimento l’art. 323 c.p. nel punire la condotta di chi, intenzionalmente, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto attraverso la violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, o negli altri casi prescritti. Per rispondere a tale interrogativo ci sembra indispensabile una breve digressione sull’evoluzione normativa che il delitto di abuso d’ufficio ha subito nel tempo.

Tale fattispecie è stata come è noto da ultimo riformulata nel 1997[2] con l’intento, da un lato, di ovviare all’imprecisione della figura previgente[3] e, dall’altro lato – lo si legge chiaramente nei lavori parlamentari – al fine di limitare il più possibile la facoltà del giudice penale di introdursi con il suo sindacato nei settori riservati istituzionalmente all’attività discrezionale della pubblica amministrazione[4].

Espunta dalla descrizione della fattispecie la formula imprecisa ‘abusa dell’ufficio’, su cui era incardinata la formulazione precedente, la condotta delineata oggi dall’art. 323 c.p. consiste notoriamente nel compimento di un’azione, inerente alla funzione o al servizio svolto, posta in essere in violazione di precisi doveri stabiliti da leggi o regolamenti; oltre che nell’inosservanza di obblighi di astensione tipizzati dalla stessa fattispecie penale o da altre fonti normative. Per la realizzazione del delitto la norma richiede inoltre la configurazione di due eventi alternativi: un ingiusto vantaggio patrimoniale, che il pubblico agente procura a sé o ad altri, oppure un danno ingiusto arrecato a qualcuno. È inoltre necessario che l’autore si rappresenti e voglia la condotta e gli eventi sopracitati nella forma più intensa del dolo, quella intenzionale.

 

5. Le prime decisioni della Cassazione, successive alla riforma dell’art. 323 c.p., ritennero che il delitto in questione non può configurarsi se non in presenza di una violazione di norma di legge o di regolamento (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse proprio dell'agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti). E ciò perché è «stata espunta dall'area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso di poteri o di funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione»; tanto che, si concludeva, «non è più consentito al giudice penale entrare nell'ambito della discrezionalità amministrativa, che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato»[5]. Altre pronunce immediatamente successive alla riforma si erano invece occupate di definire più precisamente la nozione di violazione di norme di legge o di regolamento. A questo riguardo si affermava che, da un lato, è necessario che «la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità dell’attività amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio». Dall’altro lato, si richiedeva che «l’agente violi leggi e regolamenti che di questi atti abbiano i caratteri formali ed il regime giuridico, non essendo sufficiente un qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita»[6]. Da ultimo si sostenne altresì che la sola inosservanza di norme di principio o genericamente strumentali alla regolarità dell'azione amministrativa – come quella contenuta nell’art. 97 Cost. (principio di imparzialità e di buon andamento) – non è idonea a configurare la violazione di legge rilevante ai fini dell'integrazione del novellato delitto di abuso d'ufficio[7]. Queste posizioni trovarono quindi conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 447 del 1998, che – chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità della nuova formulazione della disposizione[8] – affermò inequivocabilmente che la critica al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, ovvero di avere troppo restrittivamente definito la fattispecie legale, non poteva in linea di principio tradursi in una censura di legittimità costituzionale[9].

La giurisprudenza più recente – animata dalla finalità di una più incisiva repressione degli abusi all’interno della p.a. – ha invece finito col riproporre un’interpretazione della norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio in tutto e per tutto analoga a quella corrente nel vigore della precedente formulazione. Così la S.C. ha ammesso che il vaglio del giudice penale possa riguardare anche il profilo finalistico e che, pertanto, sia da ricondurre alla locuzione ‘violazione di legge’ anche lo sviamento dal fine. In altre parole, l’abuso d'ufficio sarebbe configurabile, non solo quando la condotta si pone in contrasto con una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi così in uno svolgimento della funzione o del servizio che oltrepassa ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale per realizzare tale fine[10]. L’espressione ‘violazione di norme di legge o di regolamento’ abbraccia allora – ne dà tra l’altro conferma un arresto delle Sezioni Unite[11] – anche quelle condotte, che sono sì formalmente legittime, ma tuttavia dirette alla realizzazione di un interesse confliggente con quello per il quale il potere è conferito. D’altro canto – e qui viene l’aspetto che maggiormente ci interessa – non sono mancate decisioni che hanno attribuito al principio di imparzialità ex art. 97 Cost. una valenza prescrittiva, dalla quale ricavare vere e proprie regole di comportamento, deducendo quindi l’idoneità di tale principio ad integrare il concetto di violazione di norme di legge di cui all’art. 323 c.p.[12]. La sola inosservanza del principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost. integrerebbe pertanto il requisito della violazione di norme di legge, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione[13].

 

6. I p.m. ed il G.i.p. del Tribunale di Milano si sono allineati a quest’ultimo filone giurisprudenziale, ribadendo che l’inosservanza del principio di imparzialità costituisce una violazione di legge idonea ad integrare il delitto di abuso d’ufficio. Con riguardo al caso concreto essi hanno quindi ritenuto che la nomina di L. M. abbia rappresentato un atto reso in spregio del principio di imparzialità, imputabile – come è emerso dall’esame dei testi e dall’ammissione dello stesso Fontana – integralmente al Presidente di Regione Lombardia, nonostante la successiva formale ratifica della Giunta. Il Presidente Fontana aveva infatti fatto avvisare L. M. dell’emanazione dell’avviso pubblico di apertura della procedura e non aveva svolto alcuna comparazione tra i candidati, avendo comunque già deciso in anticipo la nomina del socio di studio. L’adozione di una scelta, di fatto precostituita ex ante, e tesa a favorire un aspirante alla nomina rispetto ad altri, contravviene secondo il G.i.p. al principio di imparzialità e determina l’illegittimità dell’atto di nomina stesso.

Sotto altro profilo il giudice milanese ha ritenuto inoltre che l’attribuzione dell’incarico a L. M. abbia integrato l’art. 323 c.p. anche in quanto realizzata in violazione del dovere di astensione. Secondo la giurisprudenza amministrativa infatti «l’esistenza di un rapporto di collaborazione costante (..) determina necessariamente un particolare vincolo di amicizia che è idonea a determinare una situazione di incompatibilità dalla quale sorge l’obbligo di astensione»[14] imposto, tra le altre disposizioni, dall’art. 6 bis della legge sul procedimento amministrativo (l. 241 del 1990)[15]. In virtù del legame, professionale e di amicizia, che intercorreva tra L. M. e il Presidente Fontana, quest’ultimo si sarebbe quindi dovuto astenere dalla nomina del suo socio. Non facendolo il Presidente ha invece realizzato una violazione rilevante ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio.

 

7. L’estremo della violazione di norme di legge o di regolamento, riscontrato nel caso di specie, non è tuttavia ancora sufficiente per la configurabilità del delitto contestato. A tal fine l’art. 323 c.p. richiede infatti la verificazione di due eventi, tra loro alternativi: un ingiusto vantaggio patrimoniale che il pubblico agente procura a sé o ad altri, oppure un danno ingiusto arrecato a qualcuno. Come sottolineano i p.m. nella richiesta di archiviazione, tali elementi ulteriori svolgono un ruolo centrale all’interno della fattispecie, rappresentando la nota di disvalore che differenzia ciò che è penalmente rilevante dal mero illecito amministrativo. La presenza dell’aggettivo ‘ingiusto’, accanto agli elementi del danno e del vantaggio, sta infatti a significare la necessità che all’accertamento della violazione di legge o del dovere di astensione si affianchi un ulteriore accertamento, volto a verificare se il vantaggio perseguito dall’agente, ovvero il danno che si voleva arrecare, siano di per sé contra legem.

La giurisprudenza della Cassazione è costante nel ritenere che la fattispecie in esame presenti il requisito della doppia ingiustizia: ingiusta deve essere la condotta posta in essere dal pubblico ufficiale, e ingiusto, perché non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia, deve essere anche l’evento di vantaggio patrimoniale, ovvero di danno. In altri termini, il vantaggio o il danno, per poter essere qualificati come ingiusti, dovranno di per sé essere contra ius, nel senso che il risultato economico dell’azione deve essere tale da violare una norma dell’ordinamento giuridico diversa da quella incriminatrice[16].

 

8. Bisogna allora chiedersi, alla luce di tali principi, se il vantaggio ottenuto da L. M. – ovvero la nomina a componente esterno del Nucleo di valutazione e il relativo compenso in denaro – contrasti o meno con il diritto oggettivo e sia quindi ingiusto. A tale quesito sia i pubblici ministeri che il giudice hanno risposto negativamente.

Decisivo è il rilievo che i requisiti richiesti dalla legge regionale per partecipare alla selezione in esame sono limitati e di estrema vaghezza. L’avviso pubblico si limita infatti a richiedere che i soggetti interessati posseggano un diploma di laurea e abbiano una qualificata esperienza e professionalità in uno degli ambiti indicati, tra cui figura quello giuridico (con particolare riferimento alla legislazione territoriale, urbanistica, ambientale, edilizia ed ai contratti pubblici). La procedura con la quale addivenire alla scelta è poi dichiaratamente una selezione ‘non concorsuale’: non si tratta di una scelta fra candidati sulla base di titoli posseduti e prove uniformate che ne indaghino preparazione e capacità, ma piuttosto di una valutazione dei vari profili professionali, al fine di selezionare fra varie figure quella che meglio si adatta all’incarico. Alla Giunta è lasciato questo ampio margine di scelta perché, in accordo con la normativa regionale che disciplina la materia, i componenti esterni del nucleo sono chiamati a svolgere le loro funzioni nel solco delle scelte politiche dell’amministrazione. E – secondo una logica di spoils systemogni comitato decade con l’entrata in carica della nuova Giunta, a seguito delle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale[17].

Alla luce di queste premesse, sia i pubblici ministeri che il giudice hanno convenuto nel ritenere che dall’avviso pubblico e dalla natura della procedura sopradescritta non si possano ricavare preesistenti indici di valutazione a cui ancorare la scelta da parte della Giunta regionale, ed ex post sindacarne l’operato. Per giungere alla conclusione che il vantaggio ottenuto da L. M. sia ingiusto – ovvero per affermare che, in assenza dell’indebito favoritismo ottenuto, questi non sarebbe stato nominato tra i componenti del nucleo di valutazione – bisognerebbe sostituirsi ‘virtualmente’ alle opinabili valutazioni della Giunta e sostenere che altri candidati fossero più meritevoli del socio del Presidente Fontana. Questa affermazione, si legge nel provvedimento, dovrebbe tuttavia avvenire in assenza di sicuri parametri, se non quelli molto generici (requisiti di ammissione e curriculum vitae) scaturenti dalla norma attributiva del potere amministrativo di scelta. Il che varrebbe ad ammettere che il giudice penale possa sostituire il proprio opinabile apprezzamento a quello dell’amministrazione, invadendo la c.d. riserva di merito, ovvero quella parte della scelta discrezionale che risponde unicamente a criteri di opportunità insindacabili e rimessi unicamente alla valutazione dell’amministrazione procedente (il c.d. merito amministrativo).

In questo caso l’autorità giudicante è dunque impossibilitata a pronunciarsi in ordine all’ingiustizia del vantaggio ottenuto da L. M., e a causa di tale impossibilità deve concludere nel senso dell’insussistenza del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), per mancanza di uno dei requisiti oggettivi – l’evento del vantaggio ingiusto – richiesti dalla norma incriminatrice.

***

9. Come dicevamo in avvio, l’abuso d’ufficio è fattispecie di importanza centrale nella sistematica dei delitti contro la pubblica amministrazione, perché considerata il punto di snodo nei rapporti tra l’attività amministrativa e il sindacato del giudice penale. Stabilire fino a che punto il giudice può sindacare le scelte dell’amministrazione non è tuttavia compito agevole, soprattutto in relazione ad atti altamente discrezionali, connotati da tratti di fiduciarietà e che sono posti in capo ad organi ‘politici’, legittimati – direttamente o indirettamente – dall’investitura popolare. Il caso in esame va inquadrato in questo orizzonte di problemi, che ha significative implicazioni costituzionali, non da ultimo in relazione al principio della separazione dei poteri.

In questo scenario, ci sembra che il provvedimento del giudice milanese – e, prima ancora, quello dei pubblici ministeri inquirenti – si caratterizzi per un apprezzabile self restraint. Da un lato, questi ha sì ritenuto la condotta del Presidente Fontana illegittima, perché posta in essere in violazione del principio di imparzialità e del dovere di astensione; dall’altro lato, ha preferito esimersi dal valutare l’ingiustizia del vantaggio ottenuto da L. M. Concordiamo anche noi con il G.i.p. – e con i p.m. – nel ritenere che tale valutazione lo avrebbe condotto a sostituirsi ‘virtualmente’ alle valutazioni della Giunta. Affermare che il vantaggio ottenuto dal socio del Presidente fosse ingiusto – e quindi che altri candidati fossero più meritevoli di lui – avrebbe costituito, ci pare, una illegittima sovrapposizione nell’apprezzamento, rectius nella riserva di merito, dell’amministrazione. In questo particolare ambito – la nomina dei componenti del Nucleo di valutazione – all’organo politico è infatti riservato, dalla normativa regionale, uno spazio di libertà ampio, limitato esclusivamente da parametri generici, che non permettono un sindacato ex post su tali scelte da parte del giudice penale.

 

[1] Cfr. a questo riguardo le sentenze riportate nel decreto in commento a pagina 14.

[2] In particolare, dall’art. 1, legge 16 luglio 1997, n. 234.

[3] La formulazione previgente, introdotta dall’art. 13, legge 26 aprile 1990, n. 86, era la seguente: «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. – Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni». Il testo originario così disponeva: «Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge. Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione».

[4] Cfr. C. Benussi, sub art. 323, in E. Dolcini, G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., Milano, 2015, p. 465.

[5] Cass. pen., Sez. VI, sent. 10 novembre 1997, n. 1163, Marconi, in CED, rv. 209774.

[6] Cass. pen., Sez. II, sent. 4 dicembre 1997, n. 877, Tosches, in CED, rv. 210224.

[7] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 8 maggio 2003, n. 35108, Zardini, in CED, rv. 226706. Nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. VI, sent. 11 ottobre 2005, n. 12769, Ippolito, in CED, rv. 233730.

[8] Che, a detta del giudice a quo, permetteva che situazioni di eguale gravità ricevessero diverso trattamento sulla base dell'irrazionale criterio della sussistenza o meno di una violazione di legge.

[9] Cfr. Corte cost., sent. 15 dicembre 1998, n. 447, in www.cortecostituzionale.it.

[10] Cfr. Cass. pen., Sez. V, sent. 16 giugno 2010, n. 35501, in DeJure.

[11] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., sent. 29 settembre 2011, n. 155, in DeJure, secondo cui: «ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».

[12] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 12 febbraio 2011, n. 27453, in CED, rv. 250422 dove si legge che «in tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche solo dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della p.a., per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione». Nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. II, sent. 10 giugno 2008, n. 35048, in CED, rv. 243183.

[13] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 12 giugno 2014, n. 38357, in DeJure.

[14] Cfr., per esempio, Tar Salerno, Sez. I, sent. 7 maggio 2018, n. 706, in DeJure, sentenza citata nella richiesta di archiviazione.

[15] Articolo, inserito dall’art. 1, comma 41 della l. 190/2012, che recita testualmente: «Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».

[16] Cfr. in questo senso Cass. pen., Sez. VI, sent. 11 novembre 2015, n. 48914, in Dejure, secondo cui: «In tema di abuso di ufficio, l'ingiustizia del vantaggio richiesta dall'art. 323 c.p. deve riguardare non solo “il momento dinamico”, vale a dire il fatto causativo, ma anche il risultato dell'azione, ossia il fine perseguito dall'agente: il vantaggio cioè per qualificarsi ingiusto non solo deve essere prodotto non jure ma essere esso stesso contra ius». Analogamente si veda anche Cass. pen., Sez. V, sent. 2 dicembre 2008, n. 16895, in DeJure.

[17] Cfr. art. 8, legge regionale n. 20 del 2008 (‘Testo Unico delle leggi regionali in materia di organizzazione e personale’).