1. Con la conversione in legge del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”)[1] l’infezione da “Covid-19” accertata sul luogo di lavoro è stata equiparata ai casi di “infortunio sul lavoro”, ai sensi della disposizione di cui all’art. 42, comma 2[2]. In specifico, siffatta previsione, benché nelle meritevoli intenzioni del nostro legislatore volta a prevenire dubbi interpretativi sul fronte assicurativo-previdenziale, ha nondimeno generato nel mondo imprenditoriale un clima di allarme e preoccupazione in ragione della possibile responsabilità del datore di lavoro (sia esso persona fisica o giuridica ex D.lgs. 6 giugno 2001, n. 231) connessa all’evento-infortunio.
La ‘grancassa mediatica’, unita per vero ad una tecnica legislativa non priva di carattere di elevata “approssimatività”, ha così fomentato una condizione di pericolosa sfiducia e incertezza negli operatori economici, già sottoposti a continue prove di resistenza se non di vera e propria ‘eroica sopravvivenza’. Il rischio percepito è che le pur comprensibili e certo doverose esigenze di tutela della classe lavoratrice possano indurre a semplificazioni tali da poter procreare “mostri” giudiziari, nella prospettiva penalistica provocata appunto dalla suggestiva equazione “infortunio sul lavoro - responsabilità del datore di lavoro”. Un’associazione ‘logica’ che pur trova il proprio radicamento nella consolidata giurisprudenza in tema di infortuni sul lavoro, da sempre caratterizzata da un approccio fortemente rigoristico in cui i casi di esenzione di responsabilità del datore di lavoro rappresentano l’eccezione a conferma della regola: una sorta di presunzione di responsabilità che il datore di lavoro deve poter vincere nell’ambito dell’accertamento giudiziale, facendo appello ai principi che ispirano il nostro ordinamento, quali (a titolo di mero esempio) la personalità della responsabilità penale, la verifica oltre ogni ragionevole dubbio della sussistenza di una posizione di garanzia propriamente intesa; nonché il necessario accertamento del nesso causale tra condotta propria del soggetto agente ed evento lesivo. Parametri cui si aggiunge poi, ad esaminare una fattispecie incriminatrice omissiva colposa e di evento (qual è di prassi l’ipotesi di reato connessa ad infortunio sul lavoro), la reale capacità impeditiva dell’azione doverosa non tenuta e l’esigibilità della stessa nel caso concreto e nelle circostanze specifiche in cui l’agente ha operato. Una “presunzione” certo suscettibile di essere ribaltata dal datore di lavoro laddove non ricorrano i presupposti per un’affermazione di responsabilità, ma che, in ogni caso, costituisce (sol di per sé) il legittimo fondamento per l’inflizione dello stigma penale, ancorché nella forma embrionale dell’iscrizione nel registro delle persone sottoposte ad indagini e del successivo esercizio dell’azione penale.
Vi è poi che il refrain sulla possibile ascrizione di responsabilità penale al datore di lavoro per il solo fatto che un proprio lavoratore sia individuato come portatore o affetto da “Covid-19” pare essere stato alimentato da almeno due errori metodologici: l’indebito allargamento dello scopo precipuo che ha originato l’introduzione della disposizione di cui all’art. 42, comma 2 D.L. “Cura Italia”; la ‘superficiale’ equiparazione tra requisiti di sussistenza della tutela ‘assistenziale’ del lavoratore (da un lato) e quelli fondanti la responsabilità penale datoriale (dall’altro).
2. Bene perciò porre subito in evidenza che la disposizione di cui all’art. 42, comma 2, rubricato “Disposizioni INAIL”, ha semplicemente previsto che: a) i casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro costituiscono, sotto il profilo della sola tutela assicurativa, “infortunio”; b) siffatto accertamento dà, unicamente, il diritto al lavoratore di ricevere le prestazioni INAIL, anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato, con la conseguente astensione dal lavoro; c) l’infortunio grava sulla gestione assicurativa e non sull’impresa (essendo esplicitamente escluso il conseguente aumento dei premi assicurativi).
Ebbene, pur avendo la disposizione suscitato un acceso dibattito e vivaci opposizioni da parte di quanti l’hanno interpretata come strumento per l’introduzione di una nuova ipotesi di responsabilità del datore di lavoro, occorre ora ripetere come essa non possa (e non debba) essere intesa per quello che, a meglio vedere, non è. Come (per vero) è stato immediatamente ribadito dalle stesse autorità competenti in materia che hanno presto sentito la necessità, seppur con comunicati stampa[3] e circolari[4], di proporre un chiarimento e tentare di rasserenare gli animi degli operatori economici: tentativi che, lodevoli nel loro intento, non si possono tuttavia che relegare alla mera sfera delle rassicurazioni, atteso che né le circolari né, tantomeno, i comunicati stampa, possono mai assumere valenza normativa (rectius cogente) tale da allontanare la concretezza del rischio di iniziative giudiziarie volte all’accertamento della sussistenza (o meno) di comportamenti colposi rilevanti a norma delle disposizioni penali.
Se, per un verso, la risposta deliberatamente ad alta valenza mediatica di INAIL potrebbe contribuire ad evitare casi in cui i singoli siano portati a sporgere denuncia nei confronti del proprio datore di lavoro per il solo fatto di aver contratto il virus nel periodo di ripresa dell’attività lavorativa (non certo in contrasto con lo stesso interesse di INAIL); per altro verso, l’interpretazione fornita dal medesimo Istituto è sprovvista del potere di escludere, in radice, l’eventuale apertura di procedimenti penali, volti anche solo alla verifica del rispetto delle norme antinfortunistiche.
Al di là della classificazione normativa dell’infezione da “Covid-19” quale “infortunio”[5], idonea ad indurre un rapido quanto superficiale accostamento tra tutela assistenziale/previdenziale e tutela penale, l’indagine sulla causa dell’evento “infortunio-malattia-morte da Covid-19” non può infatti che rimanere doverosamente ancorata ai canoni di accertamento tipici del processo penale e svilupparsi rispettando le regole ed i principi propri del diritto sostanziale e processuale. Proprio su quest’ultimo piano vale anzi soffermare l’attenzione e spendere le debite considerazioni, vertendosi nel classico ambito della colpa penale: un ambito cioè che non può patire distorsioni neppure in presenza di un’emergenza sanitaria mondiale qual è la pandemia attualmente in corso.
In altre parole, ogni considerazione in tema di possibile responsabilità del datore di lavoro non può non confrontarsi con i noti principi che disciplinano l’accertamento della colpa: scopo, conoscibilità della norma cautelare e sua effettiva idoneità ad evitare l’offesa al bene giuridico tutelato (integrità psico-fisica e vita); prevedibilità e rappresentabilità in concreto dell’evento lesivo; sussistenza di una vera e propria posizione di garanzia (non mero obbligo di attivarsi o di sorveglianza); esigibilità della condotta doverosa da parte del soggetto garante nella determinata situazione; nesso causale tra condotta del datore di lavoro ed evento lesivo, e conseguente necessità di poter affermare oltre ogni ragionevole dubbio l’esistenza di una legge scientifica di copertura generalmente riconosciuta secondo la miglior scienza ed esperienza al tempo dell’azione (od omissione).
3. Nel caso di “infortunio” da “Covid-19”, ci si trova anzitutto al cospetto di “fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro […]”, come testualmente attestato dall’INAIL stessa. Evidenza questa che, a rigore, avrebbe dovuto immediatamente porre un freno al dibattito sulla possibile responsabilità datoriale, quantomeno per quella di natura penale che poggia la propria configurabilità in primis sulla possibilità del garante di controllare pienamente – e dunque poter prevedere ed evitare – la fonte del pericolo per la salute e la vita del lavoratore. Una condizione di partenza che non potrebbe essere soddisfatta nel caso di specie, dal momento che già le conoscenze scientifiche in merito alla trasmissibilità del “Covid-19” e alla sua permanenza nell’aria (o più in generale nell’ambiente, anche di lavoro) non hanno ancora raggiunto (allo stato) un sufficiente grado di certezza o affidabilità; il che, facendo un passo ulteriore, non consentirebbe neppure di poter richiedere al privato-datore di lavoro di divenire nei fatti un ‘sostituto’ dell’autorità sanitaria pubblica, sprovvisto di conoscenze certe, di sicuri poteri impeditivi dell’evento lesivo e purtuttavia “responsabilizzato” per la patologia che dovesse essere diagnosticata al suo dipendente.
I fattori di rischio “Covid-19” esulano poi (nella maggioranza dei settori lavorativi considerati[6]) dalla sfera di competenza specifica dell’imprenditore, non concernendo (in via diretta) né l’ambiente di lavoro rettamente inteso, né i fattori della produzione; la connessa criticità è dunque quella di sottoporre l’impresa ad obblighi e relativi accertamenti per fattori dannosi ‘aspecifici’ che esulano dalla sua realtà e che provengono dall’esterno del perimetro aziendale. In proposito, appaiono, dunque, più che fondate le osservazioni avanzate dalla principale organizzazione rappresentativa delle imprese manifatturiere e di servizi italiani (Confindustria), che bene ha posto in evidenza come “l’epidemia può rappresentare un’ulteriore “occasione” di commissione di alcune fattispecie di reato già incluse all’interno del catalogo dei reati presupposto della disciplina 231 ma, in sé considerate, non strettamente connesse alla gestione del rischio COVID-19 in ambito aziendale e, per questo, riconducibili a un perimetro che potremmo definire di rischi indiretti”[7].
Manifesta allora la deriva verso forme (inaccettabili) di responsabilità penale oggettiva, laddove si ipotizzasse di gravare il privato di compiti di “profilassi”, ultronei rispetto al rischio da lui effettivamente controllabile, senza che sia fornito, al contempo, di poteri concretamente idonei a scongiurare l’evento patologico. Il paradosso cui si giungerebbe sarebbe quello di richiedere all’impresa di rivestire un ruolo proprio, in primis, delle autorità sanitarie, imponendole di agire come attore sussidiario – o addirittura sostitutivo – degli enti pubblici: una sorta di “sostituto sanitario” che dovrebbe evidentemente colmare (senza essere dotato degli idonei strumenti impeditivi) eventuali ritardi e inefficienze degli attori pubblici. Una distorsione del complesso sistema di protezione dell’integrità fisica, della salute e della vita del lavoratore imposto al datore di lavoro dalle norme antinfortunistiche (per tutte il D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, nonché gli artt. 589 e 590 c.p.) che finirebbe per gravarlo di obblighi indistinti e generalizzati di garanzia cui non potrebbero che conseguire altrettanto indistinte e generalizzate forme di responsabilità oggettiva in caso di pretesi comportamenti impalpabilmente omissivi.
L’insidia, neppure troppo recondita, è che una lettura distorta delle norme porti a ipotizzare un ingestibile obbligo di controllo in capo all’imprenditore, ossia il contenimento di una fonte di rischio estranea alla propria realtà produttiva e che finisce per abbracciare pure variabili imprevedibili quali, ad esempio, i comportamenti dei lavoratori fuori dall’ambito d’impresa[8]. E ciò mentre, a rigore, dovrebbero essere invece sufficienti – a potersi evitare perniciose incriminazioni – il carattere ubiquitario del virus e le innumerevoli occasioni di contrazione dello stesso, apparendo pressoché indimostrabile (ad osservarsi il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio) che il lavoratore si sia ammalato proprio in azienda[9]. Considerazioni che non possono che condurre l’interprete accorto e ragionevole a ritenere l’art. 42, comma 2 del decreto “Cura Italia” quale norma assolutamente eccezionale, teleologicamente orientata all’unico scopo di garantire al lavoratore una pregnante, più sicura e immediata tutela dalle conseguenze derivanti dall’infezione da “Covid-19”[10]; nonché a diradare le potenziali difficoltà dell’INAIL a riconoscere prontamente l’infortunio e l’effettiva assistenza economica al singolo impossibilitato a svolgere l’attività lavorativa.
4. Così quindi delineato il quadro normativo di riferimento, la disposizione di cui all’art. 29-bis D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. decreto “Liquidità”)[11] non può rivestire carattere effettivamente innovativo, ma solo meramente ricognitivo. Invero, la citata disposizione, rubricata “obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19”, testualmente prevede che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”[12].
Si tratta (all’evidenza) di una statuizione tesa a ribadire quanto, in teoria, avrebbe dovuto (e dovrebbe) essere scontato, ossia che non si potrebbe muovere alcun rimprovero in termini di responsabilità penale colposa ove il datore di lavoro sia stato pienamente rispettoso delle norme cautelari specifiche e intese a prevenire il rischio di contagio[13].
Breve: una volta correttamente applicate le misure cautelari ritenute idonee e cristallizzate nei cc.dd. “protocolli anti Covid” non potrebbe ritenersi sussistere il fatto tipico dei delitti di omicidio e lesioni colpose per manifesta carenza del loro elemento costitutivo[14].
Invero, dall’analisi letterale della disposizione non è dato potersi evincere né una causa di giustificazione, né una causa di non punibilità, ma la sola pedissequa conferma ed esplicitazione della doverosa applicazione dei principi già insiti nel diritto penale positivo. Del tutto improprio, quindi, ogni riferimento all’introduzione da parte del legislatore di un preteso “scudo penale” inteso a inibire sul nascere qualsiasi iniziativa degli organi inquirenti, ben potendo l’autorità giudiziaria attivarsi (a fronte della conoscenza di un contagio-infortunio sul lavoro) proprio al fine di verificare che quelle stesse misure codificate nei cc.dd. “protocolli anti Covid” siano state effettivamente adottate, mantenute e rispettate dal datore di lavoro.
L’accertamento della responsabilità penale colposa del datore di lavoro rimane pertanto, (allo stato) subordinato alla (complessa e per nulla immediata) verifica dei già menzionati elementi costitutivi: assenza di dolo; causazione sul piano oggettivo del fatto di reato (nesso causale tra il fatto e l’evento); violazione di una norma cautelare; prevedibilità dell'evento[15]; concretizzazione del rischio (nel senso che l'evento verificatosi deve essere uno di quegli eventi che la norma cautelare mirava a prevenire); causalità della colpa (dovendosi accertare che il c.d. comportamento alternativo lecito avrebbe con certezza potuto evitare l’evento lesivo).
Il citato art. 42, tanto discusso, non pare dunque avere modificato nulla di tutto ciò[16], neppure alla luce dell’intervento chiarificatore introdotto con l’art. 29-bis D.L. “Liquidità”, in cui pure si fa espresso richiamo, nella veste di parametro normativo di riferimento, all’art. 2087 c.c. quale norma ritenuta (dalla giurisprudenza più che costante[17]) di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico[18]. Donde, le regole cautelari previste dai cc.dd. “protocolli anti Covid” rientrerebbero tra quelle “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, rappresentando così una specificazione delle regole che l’imprenditore sarebbe tenuto (comunque) ad adottare nell’esercizio dell'impresa a salvaguardia dei beni tutelati dalle norme incriminatrici dell’omicidio e delle lesioni colpose.
5. Proprio in ordine alla chiarezza ed univocità degli obblighi prescritti ai datori di lavoro dai cc.dd. “protocolli anti Covid”[19] dovrebbero concentrarsi, allora, le principali preoccupazioni dei settori produttivi; non già e non solo su enunciazioni di principio che, per quanto normativamente codificate, non possono costituire garanzia di per sé sufficiente a scongiurare una penetrante e protratta attività di natura inquirente. D’altra parte, è la stessa disposizione di cui al citato art. 29-bis a fare espresso richiamo a differenti “protocolli”: i) quello nazionale di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus “Covid-19” negli ambienti di lavoro, stipulato tra il Governo e le parti sociali il 14 marzo, integrato in data 24 aprile 2020, specificamente normato ai sensi dell’art. 2, comma 6 D.p.c.m. 26 aprile 2020[20]; ii) quelli ‘regionali’ di cui all’art. 1 co. 14 D.L. 16 maggio 2020, n. 33[21]; iii) nonché quelli previsti dall’art. 2 D.p.c.m. 17 maggio 2020[22] – attuativo dello stesso D.L. n. 33/2020 – che richiama espressamente il protocollo Governo-parti sociali, nonché i protocolli redatti per i settori dell’edilizia/cantieri, trasporto e logistica.
Il singolo operatore economico e gli interpreti, chiamati ad affrontare le molteplici questioni collegate all’azione e all’organizzazione interna delle imprese, si trovano così costretti a confrontarsi quotidianamente con molteplici fonti normative da cui scaturiscono altrettanto numerosi obblighi giuridici pervasivi: una selva normativa (nazionale e regionale, con declinazioni pure per settori produttivi) che tutto fa tranne che assicurare quella certezza, stabilità e chiarezza che dovrebbe essere alla base di un precetto passibile di sanzione penale. La situazione di indeterminatezza caratterizzata dalla molteplicità dei comandi (che potrebbero così differenziarsi anche da regione a regione) contiene in nuce la potenzialità di esporre il singolo imprenditore ad accertamenti influenzati da diverse scelte e/o interpretazioni del dato normativo operate dagli organi inquirenti, nonché da valutazioni discrezionali in ordine al protocollo da ritenersi (nel singolo caso di specie) più idoneo e/o efficace a scongiurare l’evento lesivo: una prospettiva che porta con sé incognite difficilmente conciliabili con un’affermazione di responsabilità realmente personale e con la funzione irrinunciabilmente preventiva della sanzione penale.
Rimane dunque, allo stato ancora sottotraccia, la concreta possibilità di contestazione della scelta dei protocolli o delle linee guida adottate: una possibilità che, lungi dall’allontanare dal datore di lavoro lo spauracchio di una potenziale contestazione di natura penale, finisce (al contrario) per alimentare la fisiologica necessità di un più penetrante scrutinio e accertamento da parte dell’autorità giudiziaria in merito al rispetto delle misure cautelari “anti Covid” nel singolo caso analizzato[23].
L’inserimento espresso della previsione di cui all’art. 29-bis in sede di conversione del decreto “Liquidità”, nella misura in cui stabilisce che le prescrizioni dell’art. 2087 c.c. siano integrate dall’adozione dei protocolli cautelari con conseguente esclusione di profili di responsabilità, pare in ultima analisi rispondere ad esigenze (più che comprensibili) di rassicurazione degli operatori economici, senza intervenire tuttavia effettivamente nella modificazione del quadro normativo di riferimento. E ciò può affermarsi tanto nei confronti dell’imprenditore persona fisica, quanto dell’esercente attività commerciale sotto forma di persona giuridica, dal momento che, come noto, le regole base per l’accertamento della responsabilità personale di un individuo e di una società hanno un comune ed indefettibile denominatore: l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici colpose di cui agli artt. 589 e 590 c.p., la cui assenza o impossibilità di prova (anche sotto forma di incertezza) esclude pure (appunto) anche la conseguente possibilità di configurare la responsabilità amministrativa dell’ente persona giuridica secondo le disposizioni del D.lgs. n. 231/2001[24].
5.1. L’intrico di fonti, comandi e istruzioni operative pone poi nel concreto un’altra, non meno rilevante, tematica: la difficoltà di adempiere perfettamente alle molteplici disposizioni cautelari imposte dal D.lgs. n. 81/2008 e, dunque, il correlato pericolo di incappare – oltre che nei delitti di omicidio e lesioni colpose aggravati – in violazioni di norme penali contravvenzionali[25]. Pericolo questo che con il moltiplicarsi delle prescrizioni cautelari non potrà che inevitabilmente aumentare, alimentato (per giunta) dalle difficoltà interpretative che nel prossimo futuro deriveranno dal mutato contestato fattuale e normativo.
Emblematico il tal ultimo senso il dibattito circa l’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR): a interpreti, in primis istituzionali[26], che escludono siffatta necessità, si sono già contrapposti i fautori di un rigoroso aggiornamento giustificato dalla pandemia[27].
Non è bastato, insomma, l’intervento delle autorità preposte – che si ritiene per inciso condivisibile, perché ragionevole, apprezzabilmente garantista e volto al contenimento, per quanto possibile, degli adempimenti – per evitare l’affacciarsi di opinioni e interpretazioni contrastanti. E ciò dal momento che, come mostrano autorevoli (pur criticabili) commentatori[28], il dato positivo consente una lettura estremamente rigorosa degli obblighi imposti dal D.lgs. n. 81/2008, e dunque non esclude la possibilità per il soggetto accertatore (o inquirente) di pretendere non una mera integrazione (mediante appendici o allegati ad hoc[29]), ma un vero e proprio aggiornamento del DVR.
Il pur specifico tema del DVR ben testimonia allora la difficoltà con cui l’imprenditore potrà (purtroppo) trovarsi a fare i conti: il governo dell’ignoto, che impone (irragionevolmente) non solo di farsi carico di fattori indeterminati, o financo non propri, ma di adottare sempre, indistintamente, un approccio ultra-precauzionale[30], arrivando a sacrificare l’efficienza e l’efficacia dell’attività produttiva per (tentare di) scongiurare il pericolo di accertamenti potenzialmente invasivi, anche perché fondati su premesse metodologiche erronee.
6. Il quadro, per le ragioni che si è qui, pur sinteticamente, cercato di illustrare, non può che apparire in conclusione tanto nefasto quanto beffardo. Nefasto poiché, in un clima generale di preoccupazione e incertezza, si sono alimentati, in un sistema già da tempo ‘ingolfato’, ulteriori margini di (rischiose) ambiguità, capaci di alimentare nella collettività quell’ideologia del “capro espiatorio” in un campo, quello della colpa penale, in cui è più forte “l’illusione che l’uomo sappia – abbia il potere – di controllare, ridurre o azzerare qualunque rischio […]”[31] secondo una logica invece da rifuggire strenuamente nell’interpretazione della norma penale a meno che, prendendo ancora a prestito le parole della dottrina richiamata, non si voglia “aprire fatalmente la strada alla regola del ‘senno del poi’”, alimentando (magari inconsapevolmente) lo schema – sempre latente – del capro espiatorio e la consolatoria convinzione che ogni rischio sia umanamente dominabile”[32]. Beffardo, poiché restituisce all’interprete e agli operatori economici un orizzonte ben lontano dalle intenzioni del legislatore, prodigatosi ad intervenire mediante una disposizione che, considerata nel contesto, finisce per sostanziarsi niente più che nel ben noto “pannicello caldo”.
[1] Legge 5 giugno 2020, n. 40.
[2] L’art. 42, comma 2 D.L. n. 18/2020 così testualmente dispone: “[…] 2.Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
[3] Comunicato stampa INAIL, 15 maggio 2020: “In riferimento al dibattito in corso sui profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro per le infezioni da Covid-19 dei lavoratori per motivi professionali, è utile precisare che dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro. Sono diversi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail per la tutela relativa agli infortuni sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Queste responsabilità devono essere rigorosamente accertate, attraverso la prova del dolo o della colpa del datore di lavoro, con criteri totalmente diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative Inail”.
[4] Cfr. Circolare INAIL 20 maggio 2020, n. 22.
[5] Come è dato evincersi dalla Circolare INAIL richiamata alla nota precedente, il contagio da coronavirus rientra (lo si ribadisce, sotto il profilo della mera tutela assistenziale) nella categoria di “infortunio” e non in quella di “malattia professionale”, alla stregua di tutte le infezioni da agenti biologici contratte in occasione di lavoro, anche se in un contesto eccezionale di pandemia che rende diffuso il rischio di contagio. Un simile inquadramento, già fatto proprio dalla circolare INAIL del 3 aprile 2020, n. 13, e coerente con le linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare INAIL 23 novembre 1995, n. 74, trova la sua ratio nella equiparazione della “causa virulenta” a quella “violenta” propria dell’infortunio, anche quando gli effetti si manifestano oltre un certo lasso di tempo.
[6] Differente sarebbe il caso laddove si prendessero in considerazione gli ambienti di lavoro sanitario o sociosanitario o qualora il rischio biologico fosse un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell'azienda.
[7] Cfr. Confindustria, La responsabilità amministrativa degli enti ai tempi del Covid-19. Prime indicazioni operative, giugno 2020, p. 1.
[8] Cfr. Pozzi – Mari, I “modelli 231” alla prova dell’emergenza covid-19: nuovi rischi-reato e conseguenti strumenti di prevenzione e di protezione dell’ente collettivo dalla responsabilità ex crimine, in questa Rivista, 6/2020, p. 151.
[9] Cfr. Amato, Contagio da Covid-19 “in occasione di lavoro” e responsabilità̀ datoriale: è davvero necessario uno scudo penale?, in https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/06/Amato_gp_2020_6.pdf, p. 5; in senso analogo Moretti – Racchi, Responsabilità del datore di lavoro da Covid-19 alla prova del doppio nesso causale, in Ipsoa Quotidiano, 13 maggio 2020, p. 2; Racchi, Contagio COVID sul lavoro indennizzato dall’INAIL a condizione che sussistano le prove, in Ipsoa Quotidiano, 21 maggio 2020, p. 1, il quale giustamente sottolinea come “la natura pandemica del Covid-19, ossia la sua diffusione in ogni luogo sul territorio, anche intuitivamente, non consente in via generale di presumerne l’origine professionale”; Pozzi – Mari, cit., p. 150.
[10] Aspetto sottolineato pure in Pozzi – Mari, cit., p. 149.
[11] L’art. 29-bis è stato inserito, come noto, nel decreto “Liquidità” dall’art. 1 comma 1 Legge 5 giugno 2020, n. 40.
[12] La norma recepisce le indicazioni sul punto già contenute nel documento denominato “Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022” (c.d. Piano Colao) redatto dal comitato di esperti in materia economica e sociale incaricato dal Governo. In specifico, nel citato documento è dato testualmente leggersi, infatti, la preferenza degli esperti nominati per un intervento normativo volto ad “escludere il “contagio Covid-19” dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie” (p. 15 del rapporto); e, più nello specifico, si veda la scheda 1.i, titolata “Escludere contagio COVID da responsabilità penale e ridurre temporaneamente il costo delle misure organizzative anti contagio”, allegata al citato “Piano Colao”.
[13] In senso del tutto analogo, Amato, cit., pag. 8.
[14] Si vedano però le pur brevi considerazioni di Bulgarini, Contagio da Covid-19: infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale, in Il Giuslavorista, 9 giugno 2020, il quale, richiamando la più rigorosa giurisprudenza, nota come “Può non risultare, dunque, sufficiente l'adozione delle misure di contenimento e prevenzione del contagio fissate nei protocolli, anche perché le stesse vanno calate nel contesto produttivo in cui l'impresa si trova ad operare, esponendola a possibili valutazioni di idoneità e completezza”, né “[…] può essere omesso che la negligenza e la imprudenza del lavoratore per non avere utilizzato i dispositivi di protezione o per non avere seguito i vari passaggi del processo produttivo, alla luce di un indirizzo [giurisprudenziale, n.d.r.], non sono ritenuti idonei ad escludere la responsabilità del datore”.
[15] Cfr. Marchesi, L’ente alla prova dell’emergenza. Prime considerazioni su prevenzione del rischio e garanzie dell’ente ex d.lgs. 231/2001 nel governo della crisi, in questa Rivista, 14 maggio 2020, la quale ben sottolinea, seppur nell’ottica della responsabilità amministrativa dell’ente, l’importanza di poter prevedere e concretamente gestire/evitare l’evento lesivo.
[16] In questo senso si veda anche Riverso, Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali, in Questione giustizia, 19 maggio 2020.
[17] Cfr. Cass. Civ., sez. lav., 16 dicembre 2019, n. 33133; Cass. Civ., sez. lav., 21 giugno 2019, n. 16749; Cass. Civ., sez. lav., 29 marzo 2018, n. 7844; Cass. Civ., sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. Pen., sez. III, 25 maggio 2018, n. 50000; Cass. Pen., sez. IV, 5 ottobre 2016, n. 3291; Cass. Pen., sez. IV,10 novembre 2015 n. 46979; Cass. Pen., sez. III, 26 gennaio 2005, n. 6360.
[18] In questo senso, per le notazioni e ricadute in campo penale, cfr. Cupelli, Obblighi datoriali di tutela contro il rischio di contagio da covid-19: un reale ridimensionamento della colpa penale?, in questa Rivista, 15 giugno 2020, pp. 3 e 4.
[19] A cui, per vero, non si vede come non possano essere aggiunti eventuali paper, linee guida, protocolli, indicazioni provenienti da autorità pubbliche quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Istituto Superiore di Sanità, il Consiglio Superiore di Sanità, etc.
[20] L’art. 2 co. 6 D.p.c.m. 26 aprile 2020: “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 6, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 7, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 8. La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”. Allo stesso modo, l’art. 2, comma 10 D.p.c.m. 10 aprile 2020 rendeva obbligatoria l’osservanza del Protocollo del 14 marzo 2020: “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”.
[21] Il co. 14 dell’art. 1 D.L. n. 33/2020 dispone che “Le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale. Le misure limitative delle attività economiche, produttive e sociali possono essere adottate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con provvedimenti emanati ai sensi dell'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020 o del comma 16”.
[22] L’art. 2 D.p.c.m. 17 maggio 2020 prevede che “Sull'intero territorio nazionale tutte le attività produttive industriali e commerciali, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 1, rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 12, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 13, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 14”.
[23] Cfr. in tal senso pure Cupelli, cit., p. 8. Vale inoltre aggiungersi al pericolo di accertamenti amministrativi e giudiziari pure, dato il tema particolarmente caldo e sensibile, quello del protagonismo di un eventuale “whistleblower”; sull’argomento specifico si veda Masiero, La segnalazione di illeciti sul luogo di lavoro ai tempi della pandemia Covid-19. Una breve riflessione, in questa Rivista, 14 giugno 2020, in particolare, p. 4.
[24] Che questa possa essere l’unica valida, perché più rigorosa, chiave di lettura delle (pur approssimative) novità normative è dato potersi intendere, indirettamente, pure da quanto sostenuto dagli operatori più accorti, che infatti non hanno mancato di sottolineare come “ciò che quindi l’esposizione dei lavoratori al rischio da contagio nei luoghi di lavoro determina, per il datore di lavoro, in attuazione (anche) dei presidi previsti nel Modello 231, è l’obbligo di predisporre le adeguate misure che tutelino i lavoratori da tale rischio, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile”; v. “La responsabilità amministrativa degli enti ai tempi del Covid-19 – prime indicazioni operative”, cit., p. 4. In punto di responsabilità ex D.lgs. n. 231/01 sia consentito rinviare a Pozzi – Mari, cit., p. 153, i quali, analogamente a quanto si sostiene nel testo, osservano come “[…] la responsabilità dell’ente e, a monte, quella del datore di lavoro, in caso di contagio, potrà essere valutata solo sul piano della correttezza attuativa delle misure di prevenzione e non anche sull’idoneità ed efficacia delle misure adottate rispetto al rischio contagio o sul mancato riconoscimento ex ante di tale rischio”.
[25] Cfr. Briola – Capuzzo, La responsabilità penale del datore di lavoro per contagio da Covid-19, in Il Quotidiano Giuridico, 28 aprile 2020, p. 2.
[26] Cfr. Nota del Direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (prot. n. 89/13.3.2020), in cui è stato opportunamente specificato come “[…] il datore di lavoro non sarebbe tenuto ai suddetti obblighi in quanto trattasi di un rischio non riconducibile all’attività e cicli di lavorazione e, quindi, non rientranti nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali del rischio, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili […] pertanto non si ravvisa una “esposizione deliberata” né tantomeno una “esposizione potenziale”, richiedenti l’obbligo puntuale della valutazione del rischio e l’elaborazione del DVR eventualmente integrato ed aggiornato”; Nota del Direttore dell’ISN (prot. 131/10.4.2020); Regione Veneto, COVID-19: indicazioni per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari, 3 marzo 2020, p. 6, la quale pare ragionevolmente esimere dall’aggiornare il DVR in ragione della non riconducibilità del “Covid-19” al rischio biologico di natura professionale; in senso analogo, anche la “Nota informativa per le aziende del territorio marchigiano, nel periodo di epidemia da nuovo coronavirus” della Regione Marche del 6 marzo 2020. Nelle “Linee guida operative per la prevenzione, gestione, contrasto e controllo dell’emergenza Covid-19 nelle strutture ricettive, stabilimenti balneari e spiagge libere”, adottate con D.G.R. 11 maggio 2020, n. 564, si precisa che le stesse “possono costituire anche un riferimento ai fini dell’integrazione del DVR […]”; ancora, in senso apparentemente conforme, cfr. pure Assolombarda, Disposizioni su COVID-19 e loro rapporto con il D.Lgs. n. 81/2008; infine v. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale? in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 2/2019, il quale recisamente afferma “[…] una cosa è l’obbligo del datore di lavoro di rispettare gli obblighi prevenzionistici che gli incombono in relazione alla sua specifica organizzazione, e altra cosa è l’obbligo di attuare le misure prevenzionistiche anti-contagio dettate dalla pubblica autorità, le quali, contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, non si integrano nel documento di valutazione dei rischi […]”, p. 104.
[27] In tal senso in primis cfr. Guariniello, La sicurezza sul lavoro al tempo del Coronavirus, ebook, IPSOA, 2020, pp. 10-12, che perentoriamente ritiene rientri nell’obbligo del datore di lavoro provvedere all’aggiornamento specifico del contenuto DVR; Marchesi, cit., p. 6, la quale specifica come “[…] la fattispecie dell’art. 25-septies d. lgs. 231/2001 pone in questione anche un dovere di aggiornamento del DVR (Documento di Valutazione del Rischio), previsto dal d. lgs. 81/2008, in quanto obbligo non delegabile del datore di lavoro persona fisica, nonché attività ricompresa nella mappatura e nella valutazione dei rischi legati alla salute e alla sicurezza dei luoghi di lavoro: l’art. 30 del d. lgs. 81/2008 prescrive infatti che il modello di organizzazione ex d. lgs. 231/2001 debba essere «adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi»”; Minniti, Contagio da COVID-19 in ambiente lavorativo: responsabilità penale del datore di lavoro e dell'ente ex d.lgs. 231/2001, in Diritto e Giustizia, 15 aprile 2020, p. 3; Corsaro – Zambrini, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, in Giurisprudenza Penale Web, n. 3/2020, p. 4; pur stringatamente analoga posizione è stata espressa nei seguenti documenti: Aodv, Doveri e ambiti di attivazione dell’OdV in relazione al rischio di contagio da Covid-19 nelle aziende, 4 maggio 2020, secondo cui “[…] Il rischio di contagio, pertanto, è fenomeno naturalistico che comporta un nuovo profilo di rischio biologico ad alta intensità e che impone una valutazione specifica ai sensi del D.Lgs. 81/08 e l’adozione di adeguate misure […]”; Associazione studi legali associati (asla), Covid-19: la normativa d’emergenza e i suoi effetti nelle varie aree del diritto, in particolare alle pp. 39 e 41; Fondazione e consiglio nazionale commercialisti, Vigilanza e modello di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. 231/2001 nell’emergenza sanitaria, 27 aprile 2020, p. 4; infine cfr. Ordinanze del Presidente della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna del 20 marzo 2020, n. 44 e del 23 marzo 2020, n. 47.
[28] In specie, cfr. Guariniello, op. cit.
[29] Come invece suggerito pure dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, cfr. nota seguente.
[30] Indicativo ciò che è caldeggiato esplicitamente nella citata Nota dell’Ispettorato nazionale: “si ritiene utile, per esigenze di natura organizzativa/gestionale, redigere – in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione e con il Medico Competente – un piano di intervento o una procedura per un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione, basati sul contesto aziendale, sul profilo del lavoratore – o soggetto a questi equiparato – assicurando al personale anche adeguati DPI […] Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”, p. 2.
[31] Cfr. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, in questa Rivista, 26 aprilo 2020, p. 1.
[32] Cfr. Palazzo, cit., p. 2.