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  Scheda  
20 Maggio 2024


Offesa alla reputazione del movimento LGBT e configurabilità del delitto di diffamazione

Cass. pen., Sez. V, sent. 15 giugno 2023 (dep. 2 ottobre 2023), n. 39770, Pres. Vessichelli, Rel. Brancaccio



*Contributo pubblicato nel fascicolo 5/2024. 

 

1. Quello di onore è un concetto fluido, dalla forte connotazione sociale, per ciò stesso «strettamente relazionale ed inevitabilmente relativo»[1]. Multiforme, immateriale, incoercibile in schemi nitidamente definiti, l’onore può, in un’ottica generale, inquadrarsi tra i beni «personalistici» aventi natura eminentemente normativa, «facendo esso riferimento non ad una realtà di natura, ma a valori socioculturali desumibili dal nostro ordinamento giuridico od extragiuridico»[2]. L’immagine che si ricava è quella di un bene di categoria dai contorni indefiniti e con un’essenza di irriducibile varietà: caratteri di incertezza, certo, che parrebbero stridere se confrontati alle esigenze di determinatezza proprie del diritto penale e della tutela da esso apprestata, sotto l’egida della più severa delle sanzioni.

Appare, allora, senz’altro d’interesse la sentenza che qui commentiamo brevemente, con la quale la Quinta Sezione della Corte di Cassazione chiarisce il significato di onore, precisando i margini di applicazione del reato di diffamazione ed indicando le coordinate ermeneutiche cui fare riferimento alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

Segnatamente, la pronuncia ricostruisce il concetto di onore non solo quale interesse individuale, facente capo al singolo, ma anche come bene giuridico di tipo sociale o collettivo, riferibile ad aggregazioni di individui ed enti. Muovendo da questa argomentazione, e in maniera pienamente aderente all’orientamento tradizionale consolidatosi in materia, il giudice di legittimità afferma che anche un soggetto collettivo può essere vittima di diffamazione, sempreché presenti i caratteri della determinatezza e dell’individuabilità; caratteri che – precisa la Corte, affiancando agli argomenti tradizionali un profilo di originalità – richiedono un accertamento in concreto, che tenga in debita considerazione le mire ed i contenuti della condotta offensiva realizzata: proprio attraverso un simile ragionamento può concludersi nel senso della consistenza e della determinabilità del Movimento LGBT, in apparenza soggettività indistinta, ma in concreto «serie determinata di soggetti collettivi e associazioni»[3], come tale idonea a rivestire la qualifica di persona offesa dal reato di cui all’art. 595 c.p. ove vittima di una frase di contenuto diffamatorio.

 

2. Procedendo, però, con ordine, giova ricostruire sommariamente i fatti da cui ha preso origine il giudizio, nonché le fasi processuali che ne sono seguite.

Nel gennaio 2017 l’imputata, medico, scrittrice, attivista e studiosa[4] delle tematiche che costituiscono lo sfondo della vicenda giudiziaria, pubblica sul proprio blog personale una serie di dichiarazioni indirizzate alle persone di orientamento omosessuale e, in particolare, rivolge un’esplicita critica al Movimento LGBT, accusato di «stare sempre più diffondendo la pedofilia»[5].

All’esito del primo grado di giudizio quanto originariamente oggetto di contestazione subisce una netta riperimetrazione: se, da un lato, con riferimento alle espressioni rivolte al Movimento LGBT, l’imputata è condannata per il delitto di cui all’art. 595 c.p., avendo costei «offeso l’onore e la reputazione delle persone di orientamento omosessuale», rappresentate in sede processuale da due associazioni dedite alla promozione della tutela dei diritti all’autodeterminazione sessuale[6], di contro, le ulteriori frasi da lei proferite, dirette alla categoria degli omosessuali in genere, conducono ad una sentenza di assoluzione, poiché giudicate inidonee ad integrare il reato di diffamazione in quanto genericamente indirizzate ad una platea di soggetti non individuata né individuabile.

Quindi, a seguito della conferma, da parte della Corte d’Appello di Torino, della pronuncia del giudice di prime cure, l’imputata ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo sette motivi di censura e contestando, insieme alla violazione di profili strettamente processuali[7], la possibilità di ritenere sussistente la fattispecie incriminatrice a lei imputata, da escludersi, secondo gli argomenti dalla stessa addotti, sia sotto il profilo obiettivo, sia sotto quello subiettivo, o comunque da ritenersi scriminata in virtù di un legittimo esercizio del diritto di critica.

 

3. Ebbene, nella sentenza in esame la Corte di cassazione dichiara l’infondatezza del ricorso e lo rigetta, non prima, però, di aver proceduto ad una articolata ricostruzione degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 595 c.p., così come elaborati dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

 

3.1. Avendo riguardo, in primis, agli elementi oggettivi del reato, occorre premettere che la fattispecie portata all’attenzione della S.C. – lo si può desumere dalla sua collocazione topografica all’interno del codice penale[8] – è un delitto preordinato alla tutela dell’onore, bene giuridico che, come già evidenziato in premessa, soffre di una spiccata vaghezza semantica: fondandosi, principalmente, su parametri extra giuridici che mutano in dipendenza del costume sociale e della sensibilità dei tempi, il concetto di onore rende la diffamazione un reato a tipicità «storicamente e socialmente mutevole»[9], con una area del penalmente rilevante necessariamente soggetta a progressive espansioni o contrazioni al variare dei contenuti del bene giuridico di categoria.

Sulla scorta delle opinioni avvicendatesi in dottrina ai fini di una unitaria ricostruzione del significato di onore, ed in linea di continuità con l’orientamento tradizionalmente fatto proprio dalla Corte di legittimità, la sentenza in esame individua l’oggetto di tutela del delitto di diffamazione nell’onore in senso “oggettivo” o “esterno”: secondo questa impostazione, ha natura diffamatoria  l’espressione idonea a ledere la reputazione della persona offesa, e cioè il sentimento di stima e di dignità personale che, in uno specifico contesto, derivano dall’opinione del gruppo sociale di appartenenza[10].

Così concepito, l’onore (e più nello specifico la reputazione, che di esso è declinazione) non risiede in uno stato individuale, indipendente dal mondo esteriore, né nel semplice amor proprio, ma si identifica nel «senso della dignità personale nell’origine degli altri», e pertanto in «un sentimento limitato dall’idea di ciò che, per la comune opinione, è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico»[11].

D’altra parte, alcuni autori in dottrina hanno elaborato una differente concezione del bene giuridico in questione, ancorando i contenuti dell’onore a principi di rango costituzionale e pervenendo, in tal modo, ad un concetto unitario, universalmente valido in ragione del proprio fondamento normativo, capace di superare la dicotomia – tipica della concezione fattuale – tra onore in senso oggettivo ed onore in senso soggettivo[12]. Questa particolare declinazione del bene giuridico, nota come concezione “personalistica” o “costituzionalmente orientata” del bene, colloca l’onore tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione e lo annovera tra le componenti essenziali della pari dignità sociale delineata dall’art. 3 Cost.: nello specifico, il bene giuridico è descritto nei termini di «attributo originario dell’individuo e valore intrinseco della persona umana in forza della dignità che gli è propria e che non può essere negata dalla comunità sociale»[13].

Nella sentenza in esame la Cassazione sposa la prima impostazione e preferisce, così, alla concezione personalistica del bene giuridico, quella fattuale ed oggettiva. Precisa, peraltro, la S.C. che l’adesione al primo orientamento di per sé non esclude l’esistenza di una connessione tra l’onore, la categoria dei diritti inviolabili dell’uomo ed il diritto di eguaglianza e di pari dignità sociale, come postulato dalla seconda impostazione: non è, infatti, possibile, secondo il giudice di legittimità, negare che l’interpretazione fattuale – come già quella personalistica, ma come anche le altre possibili caratterizzazioni del bene giuridico di categoria – si regga su principi e valori di ordine costituzionale e sovranazionale, dato il suo inserirsi «in un contesto interpretativo multilivello ed integrato»[14] quale quello contemporaneo.

 

3.2. Nella struttura generale della fattispecie criminosa delineata dall’art. 595 c.p., il veicolo dell’offesa arrecata all’onore del soggetto passivo del reato è un’espressione lessicale, di cui il giudice è chiamato ad accertare la portata negativa, spregiativa e, in ultima istanza, oggettivamente diffamatoria, in rapporto ai contenuti, alle modalità di comunicazione ed alle dinamiche di percezione della stessa nel panorama sociologico e storico in cui si inserisce.

Per meglio comprendere le fattezze del delitto in analisi, prima ancora di ripercorrere quanto affermato nella sentenza in commento, può richiamarsi una efficace similitudine elaborata da una risalente giurisprudenza[15]: nel reato di diffamazione, la parola utilizzata e la sua potenziale accezione offensiva si atteggiano come l’immagine di una diapositiva, che muta nella forma, nella struttura e nella colorazione a seconda delle proprietà della superficie su cui è proiettata. Per ricostruire il dato materiale della fattispecie in esame non è, allora, in linea di massima, sufficiente far riferimento al significato letterale della locuzione utilizzata, con un operato paragonabile a quello di chi, per verificarne i contenuti, guarda la diapositiva in trasparenza, accostando l’occhio direttamente alla pellicola di cui si compone; devono, invece, apprezzarsi i caratteri che detta immagine acquista per effetto della proiezione su un preciso supporto, e così, simmetricamente, l’accertamento della portata diffamatoria dei lessemi proferiti deve tenere in debita considerazione il valore oggettivo e contingente degli stessi[16], nonché la loro idoneità a “gettare luce negativa” sulla persona offesa[17].

Facendo applicazione di questi principi, attraverso un giudizio di offensività dell’espressione linguistica idoneo a superare la mera portata etimologica della parola, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 50659/2016[18], ha escluso che l’attribuzione dell’appellativo di “omosessuale” ad un soggetto di differente orientamento sessuale possa determinare un pregiudizio della sua reputazione, comportando tale condotta, al più, una lesione dell’identità personale, come tale tutelabile unicamente in sede civile. Il giudice di legittimità ha, difatti, evidenziato che nel contemporaneo contesto storico il termine “omosessuale” è espressione di per sé neutra, ormai entrata nell’uso comune, che «si limita ad attribuire una qualità personale attinente alle preferenze sessuali» di un individuo e che non può, di conseguenza, considerarsi intrinsecamente offensiva, come invece poteva ritenersi in passato e come devono reputarsi «altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente»[19].

Tornando al caso che qui ci occupa – e quindi in relazione alle accuse di «stare sempre più diffondendo la pedofilia» rivolte dall’imputata al Movimento LGBT – la Corte di cassazione conclude nel senso dell’oggettiva valenza diffamatoria dell’espressione adoperata dall’imputata.

Nel significato lessicale attuale e storicizzato, difatti, il termine pedofilia individua una forma di perversione o devianza sessuale, caratterizzata da ricorrenti fantasie, intense pulsioni e comportamenti sessualmente espliciti con bambini in età prepuberale. Trattandosi di atteggiamenti univocamente stigmatizzati da un punto di vista morale ed etico, oltreché sanzionati a vario titolo come illeciti penali, al concetto di “pedofilo” si accompagna un giudizio di elevata riprovazione: l’attribuzione di detto appellativo è, allora, innegabile fonte di disonore e comporta una significativa lesione della reputazione del soggetto passivo. Né l’utilizzo dell’appellativo di “pedofilo” può ritenersi giustificato nel nome di presunte ricostruzioni storiche – come quelle prospettate dalla difesa dell’imputata – che stabiliscano una connessione tra il Movimento LGBT e gruppi che giustificano e liberalizzano condotte pedofile, essendo altrettanto «riferibile alla comune, opposta e diffusa percezione la distanza e la non sovrapponibilità, né confusione, tra l’inclinazione pedofila e l’omosessualità, la transessualità oppure la fluidità di genere»[20].

 

3.3. La sentenza affronta, quindi, un tema che assume centrale importanza nel caso di specie e si interroga sulla direzione lesiva della frase a contenuto diffamatorio e, così, sui caratteri propri della vittima del reato.

A questo proposito, giova preliminarmente rilevare che, contrariamente a quanto sostenuto in passato da alcune voci della dottrina – che escludevano la configurabilità di un’offesa alla reputazione di persone giuridiche, ritenendo l’onore un bene riferibile alle sole persone fisiche[21] – è oramai pacifico in giurisprudenza, nonché riconosciuto all’unisono tra gli interpreti, che anche un’entità giuridica o di fatto può ben rivestire la qualifica di persona offesa dal reato di diffamazione, con corrispondente titolarità del diritto di querela: si devono includere, dunque, nel novero delle potenziali vittime di condotte diffamatorie, le fondazioni, le associazioni e le altre tipologie di sodalizi, che rappresentano tanto un interesse collettivo, unitario ed indivisibile, delineato dall’attività svolta e dalle finalità dagli stessi perseguite, quanto plurimi interessi afferenti ai singoli componenti[22]. È, insomma, concettualmente ammissibile l’esistenza di un onore “sociale”, o comunque «di un onore e decoro collettivo, quale bene morale di tutti gli associati o membri, considerati come unitaria entità capace di percepire l’offesa»[23]. D’altro canto, questa impostazione, da tempo fatta propria dalla dottrina civilistica, può farsi discendere dall’art. 2 della Costituzione, che non limita la salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo al solo individuo, ma accorda tutela anche alle formazioni sociali ove si svolga la personalità del soggetto[24].

La configurabilità del reato di diffamazione è, peraltro, subordinata alla condizione essenziale ed imprescindibile[25] che l’offesa alla reputazione sia rivolta ad una persona determinata ed individuata, o perlomeno individuabile, «sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive ed i riferimenti personali e temporali»[26]. Sul punto la giurisprudenza di legittimità, in linea con «con la struttura ontologica del reato e con la ratio della sua previsione normativa»[27], ha costantemente affermato che, anche in assenza di una indicazione nominativa o di riferimenti inequivoci a fatti o circostanze direttamente riferibili ad uno specifico individuo, il destinatario della condotta diffamatoria deve potersi identificare in termini di affidabile e ragionevole certezza dalla stessa prospettazione obiettiva dell’offesa: secondo un criterio di tipo oggettivo, deve potersi, insomma, desumere la piena ed immediata consapevolezza, da parte di chiunque sia raggiunto dall’affermazione diffamatoria, dell’identità del soggetto cui la stessa sia rivolta e che dalla stessa sia offeso, non potendosi, al contrario, dar rilevanza a intuizioni o congetture soggettive, proprie di chi, ad esempio, «per sua scienza diretta, può esser consapevole, di fronte alla genericità di un'accusa denigratoria, di poter essere uno dei destinatari»[28].

Se non vi sarebbero dubbi circa la sussistenza del reato di diffamazione nell’ipotesi in cui l’espressione verbale a contenuto diffamatorio fosse rivolta ad un ente, pubblico o privato, dotato di una personalità giuridica definita e determinata, ovvero ad una persona fisica che ne compone l’organizzazione – realizzandosi, in quest’ultimo caso, una lesione plurioffensiva idonea a diffondersi anche alla persona giuridica cui l’individuo appartiene –, più complesso è, invece, il caso in analisi, a fronte di una offesa genericamente rivolta al Movimento LGBT, nome collettivo riferibile ad una pluralità indefinita di gruppi, organizzazioni ed associazioni, tra loro autonomi e differenti, ma accomunati dal perseguimento della finalità di tutela delle diverse identità sessuali e delle espressioni di genere.

Per superare i problemi interpretativi derivanti dall’espressione utilizzata dall’imputata, all’apparenza inidonea ad integrare il reato di cui all’art. 595 c.p. poiché priva di «capacità individualizzante»[29], in quanto rivolta ad una entità di composizione eterogenea ed indistinta, senza ulteriori riferimenti specifici a individui o persone giuridiche facenti parte del Movimento, la decisione in commento precisa quale iter logico debba seguirsi per accertare che la frase a contenuto diffamatorio abbia un destinatario determinato ed individuato o, perlomeno, individuabile.

Nello specifico, la verifica della determinatezza del soggetto passivo – afferma la S.C. – non deve essere condotta in astratto e, così, accertare che la persona offesa cui sia diretta la diffamazione sia “in genere”, astraendo dal caso di specie, un soggetto almeno individuabile, ma deve indagare il piano concreto, e pertanto verificare la determinatezza di quelli che erano gli effettivi obiettivi dell’imputato, di quei soggetti che lo stesso mirava a ledere proferendo parole offensive. Di conseguenza, quanto al Movimento LGBT, non è corretto interrogarsi sulla possibilità o meno di assimilare l’entità – agglomerato eterogeneo di collettività riconducibili ad un medesimo intento – ad un unico soggetto collettivo determinato o determinabile nelle sue componenti, ma deve verificarsi se «con il riferimento al Movimento suddetto si sia voluta attaccare sul punto dell’onore e della reputazione collettiva quella pletora di associazioni ed enti che si riconoscono in esso ed agiscono sotto la sua egida»[30], se quindi, pur con una espressione nella sua essenza indeterminata, l’imputata abbia voluto accusare di contribuire alla diffusione del fenomeno della pedofilia una serie determinata di soggetti collettivi ed associazioni, accomunate dall’appartenenza all’aggregazione movimentista.  

Procedendo in questo modo, con una verifica della portata della locuzione che ne analizzi il contenuto calandolo nel contesto della condotta offensiva realizzata, la Corte di cassazione arriva, allora, ad affermare che «nel caso della ricorrente e dell’espressione utilizzata nel suo blog, il riferimento al Movimento LGBT è stato “in concreto” utilizzato come espressione sintetica di collegamento logico-soggettivo-individualizzante, allo scopo di rappresentare con un solo termine tutte le associazioni giuridiche o enti di fatto che, riconosciute nell’appartenenza all’aggregazione movimentista [e individuabili, n.d.r.], danno vita ad un’attività politica sociale di tutela dei diritti dei soggetti-individui che li compongono, in quanto appartenenti alla comunità omosessuale, transgender o comunque che rivendica la fluidità sessuale»[31].

 

3.4. Da ultimo, rigettando l’ultima doglianza proposta dalla ricorrente, la Cassazione esclude che le espressioni utilizzate dall’imputata – di evidente portata diffamatoria per le ragioni sino a qui illustrate – possano ritenersi scriminate in virtù del riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, sub specie di diritto di critica.

Com’è noto, la libera manifestazione del pensiero – di cui il diritto di critica rappresenta una declinazione – si colloca tra le libertà fondamentali di rango costituzionale riconosciute e tutelate dal nostro ordinamento in quanto presupposto per l’esistenza e lo sviluppo di ogni società democratica. Espressamente garantita dall’art. 21 Cost., oltreché dall’art. 10 CEDU, la libertà di pensiero non è assoluta né illimitata, ma trova i propri limiti naturali nella tutela del buon costume e nell’esistenza di beni ed interessi parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione[32]: tra questi ultimi, in particolare, assume preminente importanza l’onore che, «essenzialmente connesso con la persona umana»[33], deve ascriversi tra i diritti inviolabili di cui agli artt. 2 Cost. e 8 CEDU.

Rendendosi, pertanto, necessario un bilanciamento tra i due beni, l’onore e la libertà di pensiero, entrambi di rango costituzionale, la Corte di Cassazione – allineandosi alla giurisprudenza costituzionale e convenzionale – ha delineato il perimetro entro il quale una manifestazione del pensiero che leda la reputazione di taluno possa comunque ritenersi giuridicamente accettabile e, quindi, scriminata. A questo proposito sono stati elaborati i requisiti della «verità oggettiva, della pertinenza e della continenza formale dei fatti narrati», alla presenza dei quali un fatto di diffamazione può dirsi giustificato[34]. Se, da un lato, la sussistenza dei citati requisiti assume importanza fondamentale perché la manifestazione del pensiero, nelle forme del diritto di cronaca, costituisca causa di giustificazione di una condotta nella sua essenza antigiuridica; differente è l’ipotesi in cui la manifestazione del pensiero costituisca esercizio del diritto di critica, e pertanto espressione di un giudizio o di una opinione soggettiva, che, come tale, «non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti»[35]. In quest’ultimo caso, allora, alla luce della peculiare natura della forma di manifestazione del pensiero, i limiti della verità obiettiva dei fatti narrati, della pertinenza e della continenza formale degli stessi devono ritenersi meno stringenti, ma comunque non integralmente caducati: il permanere di un necessario grado di tutela della reputazione impone che, comunque, le espressioni utilizzate consistano «in un’argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti»[36], senza risolversi in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui, e che le modalità espressive dispiegate risultino «proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione o dell’opinione che ne costituisce l’oggetto»[37].        

Ebbene, nel caso in esame la Corte di cassazione conclude nel senso dell’assoluta lontananza della locuzione adoperata dall’imputata dalla complessità espressiva richiesta ai fini dell’integrazione della scriminante: la struttura e la forma dell’espressione in contestazione, non solo gravemente infamante ed inutilmente umiliante, ma altresì «laconica e povera concettualmente, declinata come un insulto e non come un dato di asserita riflessione»[38], rendono la proposizione riferita una mera aggressione verbale del soggetto criticato, come tale non giustificabile in nome dell’asserito esercizio del diritto di critica, ma, al contrario, con il suo messaggio denigratorio tranchant ed incisivo, pienamente integrante la fattispecie di cui all’art. 595 c.p.

 

***

4. La pronuncia della Quinta Sezione in esame ci consegna una chiara ed analitica ricostruzione dei confini applicativi del reato di diffamazione alla luce dei principi interpretativi consolidatisi nella più recente giurisprudenza della Cassazione.

In particolare, l’aspetto sul quale pare utile svolgere qualche ulteriore considerazione è senz’altro quello della corretta individuazione del soggetto passivo del delitto di cui all’art. 595 c.p., elemento tutt’altro che marginale, dirimente quanto alla legittimazione della persona fisica o giuridica ad esercitare il proprio diritto di querela ed a costituirsi, quindi, parte civile nel nascente procedimento penale.

Ebbene, le riflessioni in argomento, come già le affermazioni contenute nella sentenza in commento, muovono da un unico assunto: non può essere disconosciuta in capo ad un ente collettivo la capacità di essere soggetto passivo del delitto di diffamazione. La giurisprudenza maggioritaria e la dottrina sono, invero, ormai da tempo consolidate nel riconoscere in capo alle persone giuridiche, alle associazioni, agli enti di fatto privi di personalità giuridica, alle fondazioni, alle comunità religiose ed ai corpi amministrativi e giudiziari la titolarità dei beni giuridici dell’onore e della reputazione, da intendersi quali beni morali sociali o collettivi riferibili ai singoli associati o membri del soggetto collettivo e, per proprietà transitiva, all’ente stesso, che degli associati si compone. Insomma, espressioni denigratorie che incidano sulla considerazione esterna di cui l’ente gode presso i consociati ben possono integrare il reato di cui all’art. 595 c.p., poiché lesive tanto dell’onore dei singoli individui che del soggetto collettivo fanno parte, quanto dell’onore sociale di cui è titolare l’ente, reductio ad unum della pluralità di posizioni di cui si compone.

Perché possa ritenersi integrato il reato di diffamazione è imprescindibile poi – lo si è già evidenziato – che il destinatario dell’offesa sia determinato ed individuato o, perlomeno, in assenza di una inequivoca indicazione nominativa, individuabile in termini di affidabile certezza alla luce delle circostanze del caso concreto (la natura e la portata di quanto riferito, le circostanze oggettive e soggettive narrate, i riferimenti personali e temporali utilizzati). Il criterio cui fare affidamento in sede di individuazione dell’effettivo destinatario dell’espressione diffamante è un criterio di tipo oggettivo: dalla stessa prospettazione dell’offesa devono promanare elementi diretti o indiretti di qualsiasi specie, idonei a consentire una facile e certa individuazione del soggetto passivo da parte di chi abbia percezione dell’espressione lesiva, non potendosi, di contro, dar rilevanza a intuizioni o congetture di tipo soggettivo, anche se queste siano in grado di riempir di significato accuse denigratorie altrimenti generiche.

Al quadro sin qui delineato – al quale erano già pervenute per vie parallele tanto la giurisprudenza quanto la dottrina maggioritaria – la sentenza in esame aggiunge un’ulteriore precisazione: il vaglio della capacità individualizzante della locuzione utilizzata dal soggetto agente non può condursi in astratto, avendo a riferimento il semplice significato lessicale di quanto proferito, ma tale verifica deve essere condotta sul piano concreto, tenendo in debita considerazione le circostanze sussistenti nel caso di specie, calando quanto affermato dall’individuo nel contesto di realizzazione della condotta offensiva e avendo riguardo alle specifiche mire ed obiettivi fatti propri dall’imputato nel perpetrare il reato.

Le considerazioni svolte appaiono in linea con la struttura ontologica del reato di diffamazione e con la ratio della sua previsione normativa, preordinata alla tutela della reputazione, nel suo significato di stima e dignità di cui gode l’individuo in virtù del giudizio che il gruppo sociale di appartenenza matura nei suoi confronti.

Permangono, tuttavia, delle perplessità in merito alle conclusioni cui addiviene il giudice di legittimità ed alla loro rispondenza ai criteri poco sopra indicati. Puntualizza, difatti, la Quinta Sezione che, nel caso in esame, «il riferimento al Movimento LGBT è stato “in concreto” utilizzato come espressione sintetica di collegamento logico-soggettivo-individualizzante, allo scopo di rappresentare con un solo termine tutte le associazioni giuridiche o enti di fatto che, riconosciute nell’appartenenza all’aggregazione movimentista, danno vita ad un’attività politica sociale di tutela dei diritti dei soggetti-individui che li compongono, in quanto appartenenti alla comunità omosessuale, transgender o comunque che rivendica la fluidità sessuale»[39]. Così, il ragionamento utilizzato dalla Corte offre una ricostruzione del soggetto passivo del reato che, nella sua ambizione di indagare la concreta portata del termine, pare disattendere il requisito dell’oggettiva e precisa individuabilità del destinatario dell’offesa da parte di chi ha percezione della frase denigratoria, valorizzando, invece, le intime volontà dell’imputata, che con tale espressione ellittica avrebbe voluto riferirsi alla pletora di associazioni ed enti che nel Movimento si riconoscono. Insomma, secondo questa impostazione, i requisiti della determinatezza ed individuazione, o perlomeno individuabilità, della persona offesa del reato, anche se non rinvenibili nella obiettiva prospettazione dell’offesa, in ragione, ad esempio, della genericità delle espressioni utilizzate per indicare il destinatario, ben potrebbero ricavarsi dagli intenti del soggetto agente, che nell’utilizzare formule indeterminate intendeva, per verità, colpire soggetti specificamente individuati o individuabili. Quella prospettata è, allora, una indagine che, sondando i privati intenti del soggetto agente, si rivela ben più complessa della verifica della identificabilità della persona offesa secondo un criterio di tipo oggettivo, che faccia discendere la potenziale individuabilità – in termini di affidabile e ragionevole certezza – del destinatario della diffamazione dalla possibilità che chiunque sia raggiunto dall’affermazione denigratoria abbia piena e immediata consapevolezza dell’identità del soggetto cui la stessa sia rivolta; né sfugge che, in casi limite, la parametrazione della determinabilità del soggetto offeso sulle intenzioni dell’imputato potrebbe portare a conferire penale rilevanza anche ad ipotesi prive di una effettiva lesione del bene dell’onore collettivo, bene giuridico non configurabile in capo a soggettività indeterminate nella loro composizione, ancorché determinate nella mente del soggetto che sia intenzionato ad offenderle.

Da ultimo, al di là del ragionamento logico utilizzato, destano perplessità anche le risultanze cui la Corte di cassazione addiviene all’esito della verifica in concreto della determinatezza del soggetto passivo: ammesso pure che, nel caso di specie, l’imputata abbia utilizzato il sintagma Movimento LGBT quale «espressione sintetica di collegamento logico-soggettivo-individualizzante» per riferirsi ai soggetti giuridici che al Movimento appartengono, come può ritenersi determinata o determinabile una categoria in costante divenire, che ricomprende al proprio interno una platea indeterminata di associazioni giuridiche o di enti di fatto, in cui chiunque, in potenza, potrebbe riconoscersi in ragione di una semplice adesione alle finalità di tutela della fluidità sessuale, dal Movimento perseguite?

 

 

 

[1] A. Visconti, Reputazione, dignità, onore. Confini penalistici e prospettive politico-criminali, Giappichelli, Torino, 2018, p. 4.

[2] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, vol. I, Wolters Kluwer, Padova, 2019, p. 222. Sul punto si veda anche R. Bartoli, M. Pelissero, S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Giappichelli, Torino, 2022, pp. 213 ss. Con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 595 c.p., utile rinviare altresì a P. Savani, Art. 595 c.p., in G. Lattanzi, E. Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. V, Giuffrè, Milano, 2022, pp. 273 ss., nonché a G. Riccardi, Art. 595 c.p., in E. Dolcini, G. Gatta, Codice penale commentato, vol. III, Wolters Kluwer, Milano 2021, pp. 1333 ss.

[3] Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, §3.3 del Considerato in diritto.

[4] È quanto sostenuto dalla difesa dell’imputata in sede di ricorso avverso la pronuncia della Corte d’Appello di Torino, ove la donna è definita «studiosa dei temi centrali sottesi alle sue dichiarazioni» diffamatorie. 

[5] Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §1 del Ritenuto in fatto.

[6] Sentenza del 14.12.2018, pronunciata dal Tribunale di Torino.

[7] In questo senso i primi due motivi di censura, con cui la ricorrente denunziava una violazione dell’art. 108 c.p.p., con conseguente lesione del diritto di difesa dell’imputata, ed una violazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. d), c.p.p., derivante dal mancato esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice di secondo grado. Anticipando già in questa sede le conclusioni del giudice di legittimità, la Corte di cassazione dichiarava inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo ed inammissibile perché privo di pregio il secondo. Per una più estesa trattazione di questi profili si fa rinvio al testo di Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, §§2.1 e 2.2. del Ritenuto in fatto e §§2 e 2.1. del Considerato in diritto. 

[8] L’art. 595 c.p. si inserisce, difatti, nel Libro Secondo, Titolo XII (Dei delitti contro la persona), Capo II (Dei delitti contro l’onore) del codice penale.

[9] Cfr. F.M. Iacoviello, Problemi vecchi e sensibilità nuova della Cassazione in materia di diffamazione a mezzo stampa, in Cass. pen., 1995, p. 2537 ss.

[10] Cfr. G. Riccardi, Art. 595 c.p., in E. Dolcini, G. Gatta, Codice penale commentato, cit., pp. 1336 ss. In giurisprudenza ex multis Cass., Sez. V, sent. 28.02.1995 (dep. 24.03.1995), n. 3247, Rv. 201054-01; Cass., Sez. V, sent. 13.05.2016 (dep. 27.07.2016), n. 32789, Rv. 267399-01; Cass., Sez. V, sent. 18.10.2016 (dep. 29.11.2016), n. 50659, Rv. 268604-01.

[11] F.M. Iacoviello, Problemi vecchi e sensibilità nuova della Cassazione in materia di diffamazione a mezzo stampa, in Cass. pen., 1995, p. 2535.

[12] La concezione “fattuale” dell’onore consente, difatti, di distinguere un onore in senso soggettivo, «consistente nel sentimento effettivo che il soggetto ha del proprio valore», suscettibile di lesione nelle sole ipotesi di ingiuria, alla presenza della persona offesa, da un onore in senso oggettivo, «consistente nel sentimento di stima che gli altri hanno del soggetto» e, pertanto, idoneo ad essere leso in occasione di dichiarazioni diffamatorie che si consumino dinanzi a terzi. La concezione personalistica dell’onore, anche detta concezione “costituzionalmente orientata”, supera la riferita distinzione e configura una unitaria figura, che accomuna, quale oggetto giuridico, le fattispecie di ingiuria e di diffamazione, distinguibili, di conseguenza, unicamente in ragione della presenza o dell’assenza di chi offeso. Sul punto si fa rinvio a G. Riccardi, Art. 595 c.p., in E. Dolcini, G. Gatta, Codice penale commentato, cit., pp. 1336 ss.

[13] Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.1 del Considerato in diritto.

[14] Ibidem.

[15] La similitudine riportata è utilizzata in Cass., Sez. V, sent. del 07.02.1995 (dep. 24.03.1995), n. 1489, con nota di F.M. Iacoviello, Problemi vecchi e sensibilità nuova della Cassazione in materia di diffamazione a mezzo stampa, in Cass. pen., 1995, p. 2531.

[16] Precisa ulteriormente Cass., Sez. V, sent. del 07.02.1995 (dep. 24.03.1995), n. 1489, cit., che, quanto alle modalità in cui il riferito accertamento deve svolgersi, pare necessario procedere «non con gli strumenti rigidi della grammatica, o parti del discorso, ma con la mediazione dei sussidi di volta in volta necessari, non escluso, quando necessario, il cosiddetto linguaggio figurato».  

[17] In questi termini Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.2 del Considerato in diritto.

[18] Cass., Sez. V, sent. 18.10.2016 (dep. 29.11.2016), n. 50659, Rv. 268604, con nota di P. Dubolino, Non sussiste la lesione della reputazione personale nell’attribuzione della qualifica di omosessuale, in Rivista penale, fasc. 2, 2017, pp. 163-164.

[19] Così Cass., Sez. V, sent. del 18.10.2016 (dep. 29.11.2016), n. 50659, cit. e nel medesimo senso Cass., Sez. V, sent. del 22.06.2006 (dep. 17.07.2006), n. 24513 e Cass., Sez. V, sent. del 07.02.2020 (dep. 11.06.2020), n. 17944, Rv. 279116.

[20] Cfr. Cass., Sez. V, sent. del 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.2 del Considerato in diritto.

[21] Ex multis V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Utet, 1951, pp. 357 ss.

[22] Sul punto si veda Cass., Sez. V, sent. del 30.01.1998 (dep. 27.04.1998), n. 4982, Rv. 210601, con nota di C. Lazzari, Offesa diffusiva: una discutibile affermazione della Corte di cassazione, in Cass. pen., 1999, p. 509.

[23] Così Cass., Sez. V, sent. del 24.01.1992 (dep. 16.03.1992), n. 2886, Rv. 189901; Cass., Sez. V, sent. del 21.09.2012 (dep. 08.11.2012), n. 43184, Rv. 253773.

[24] V. Cass., Sez. V, sent. del 30.01.1998 (dep. 27.04.1998), n. 4982, cit.

[25] In questi termini Cass., Sez. V, sent. del 24.11.1987 (dep. 22.03.1988), n. 3756, Rv. 177952.

[26] Cfr. Cass., Sez. V, sent. del 06.12.2021 (dep. 24.01.2022), n. 2598, Rv. 282679 e, in senso conforme, ex multis, Cass., Sez. V, sent. del 21.10.2014 (dep. 21.01.2015), n. 2784, Rv. 262681; Cass., Sez. V, sent. del 20.12.2010 (dep. 25.02.2011), n. 7410, Rv. 249601; Cass., Sez. V, sent. del 18.10.1993 (dep. 15.11.1993), n. 10307, Rv. 195555.

[27] Così Cass., Sez. V, sent. del 24.11.1987 (dep. 22.03.1988), n. 3756, Rv. 177952.

[28] Ibidem.

[29] È questa la tesi sostenuta dalla difesa dell’imputata, da cui si fa discendere la necessaria esclusione del reato di diffamazione.

[30] V. Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.4. del Considerato in diritto.

[31] Ibidem.

[32] C. cost, sent. 27.03.1974, n. 86 e, nel medesimo senso, C. cost, sent. 19.02.1965, n. 9. Con riferimento alla giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto si segnalano Cass., Sez. VI, sent. del 08.03.1974 (dep. 29.07.1974), n. 5316, Rv. 127738; Cass., Sez. V, sent. del 28.11.1972 (dep. 22.02.1973), n. 1597, Rv. 123357; Cass., Sez. VI, sent. del 16.04.1971 (dep. 08.06.1971), n. 474, Rv. 118351.

[33] Così C. cost, sent. 27.03.1974, n. 86, cit.

[34] Ex multis Cass., Sez. U, sent. del 30.06.1984 (dep. 23.10.1984), n. 8959, Rv. 166252.

[35] In questo senso Cass., Sez. V, sent. del 16.04.1993 (dep. 03.07.1993), n. 6493, Rv. 194300.

[36] Cfr. Cass., Sez. V, sent. del 15.11.2022 (dep. 09.03.2023), n. 9953, Rv. 284177 ; Cass., Sez. V, sent. del 14.10.2021 (dep. 10.01.2022), n. 320, Rv. 282871; Cass., Sez. I, sent. del 05.11.2014 (dep. 06.02.2015), n. 5695, Rv. 262531.

[37] V. Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.2. del Considerato in diritto.

[38] Ibidem.

[39] Cass., Sez. V, sent. 15.06.2023 (dep. 02.10.2023), n. 39770, cit., §3.4. del Considerato in diritto.