ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
09 Gennaio 2024


Modifica della qualificazione giuridica dell’imputazione e diritto di difesa: nuovi spunti di riflessione dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 9.11.2023 BK, C-175/22

Corte di giustizia UE, sent. 9 novembre 2022, BK, C-175/22



1. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’U.E. del 9.11.2023, BK (causa C-175/22), ci consente di tornare ad occuparci dell’annosa questione del differente atteggiarsi del diritto di difesa nel nostro ordinamento a fronte della modifica dell’imputazione in fatto, piuttosto che in diritto[1]. Come è noto, infatti, l’art. 521 c.p.p., mentre consente al giudice di dare al fatto nella sentenza, anche di ufficio, una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza, né risulti attribuito alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale anziché monocratica (comma 1), nell’ipotesi in cui, invece, il medesimo giudice accerti che il fatto risulta diverso da come descritto nell’imputazione originaria, ovvero frutto delle modifiche apportate ai sensi degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, c.p.p., deve disporre con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero (comma 2). Questa norma, espressione del principio “iura novit curia”, non è stata modificata neppure a seguito dell’intervento riformatore attuato con la c.d. riforma Cartabia. Il legislatore del 2021/2022 è intervenuto apportando significative modifiche anche in punto di corretta contestazione dell’imputazione[2], ma non ha inteso modificare la norma cardine del sistema, qual è appunto l’art. 521 c.p.p. Sicché, nell’ipotesi in cui modifiche all’imputazione dovessero prospettarsi nel corso del giudizio, ancora oggi, se si tratta di modifiche in fatto, l’imputato gode di un ampio ventaglio di opportunità difensive, che spaziano dalla semplice richiesta di un termine a difesa, all’accesso ai riti alternativi, alla possibilità di avanzare richieste istruttorie e, nell’ipotesi in cui la diversità del fatto venga rilevata dal giudice all’esito del giudizio, all’imputato è assicurata la garanzia derivante dalla restituzione degli atti al p.m. Tutto ciò, invece, se la modifica attiene alla corretta qualificazione giuridica del fatto contestato, non è affatto garantito all’imputato, il quale potrebbe anche vedere attribuita la nuova “veste giuridica” al fatto direttamente dal giudice in sentenza, senza alcuna preventiva informazione, potendo semplicemente contestarla con le impugnazioni[3], salvo il caso in cui sia il giudice di legittimità a prospettare l’eventuale mutamento in iure, dovendosi in questa ipotesi assicurare il contraddittorio su tale eventualità.

 

2. La Corte costituzionale, tutte le volte in cui è stata investita del tema della ragionevolezza, rispetto al diritto di difesa, di questo sistema, per così dire, del “doppio binario”, ha affermato costantemente la “disomogeneità” dei due fenomeni riguardanti rispettivamente le modifiche in fatto e in diritto dell’imputazione[4]. In particolare, il giudice delle leggi ha affermato che una cosa è il mutamento del dato storico su cui si basa l’accusa, legato alle risultanze probatorie, mutamento che l’imputato non sarebbe tenuto ad “antivedere”, per adeguare ad esso le proprie strategie in punto di opzione per un rito speciale, donde l’abbandono, da parte della stessa Consulta, del vecchio orientamento basato sulla prevedibilità di variazioni dell’imputazione nel corso del dibattimento e sulla conseguente accettazione del relativo “rischio” da parte dell’imputato che non avesse richiesto per tempo un rito alternativo; altra cosa, invece, sarebbe la sussunzione del dato storico sub specie iuris, ossia il suo inquadramento sotto l’uno o l’altro titolo di reato, tema sul quale l’imputato potrebbe invece interloquire subito, nell’esercizio del suo diritto di difesa.

 

3. La Consulta ha continuato a tenere dritta la barra pur a fronte del consolidato indirizzo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, come è noto, accomuna il mutamento in iure dell’imputazione a quello in facto, sotto il profilo delle garanzie difensive da riconoscere all’imputato ai sensi dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. a) e b), CEDU. Secondo i giudici alsaziani, il diritto dell’accusato ad essere informato del contenuto dell’accusa, previsto dall’art. 6, paragrafo 3, lett. a), CEDU, rappresenta una condizione essenziale dell’equità del processo, garantita dal paragrafo 1 dello stesso articolo, ponendosi in collegamento con il diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la difesa, previsto dal paragrafo 3, lett. b) del citato articolo. A questi fini, l’imputato deve essere informato non solo dei motivi dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti. Ne consegue che, quando i giudici dispongono, in base al diritto interno, del potere di riqualificare i fatti per i quali sono stati aditi – in particolare, mutando il titolo del reato contestato –, essi debbono assicurarsi che l’imputato abbia avuto l’opportunità di esercitare i suoi diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Le modalità dell’informazione possono essere le più varie, purché adeguate allo scopo[5]. Tuttavia, a fronte dell’apparente assolutezza del principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la logica flou di quella Corte, l’approccio casistico, determinato dal fatto che il giudice europeo è incaricato di valutare a posteriori se il modo in cui è stato condotto un determinato procedimento penale abbia violato i diritti fondati sulla CEDU, sicché egli può valutare retroattivamente, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, se un giudice che non abbia dato all’imputato la possibilità di difendersi contro le accuse oggetto di riqualificazione abbia violato o meno la Convenzione, hanno consentito sia alla nostra giurisprudenza di legittimità, che, conseguenzialmente, alla Corte costituzionale, di mantenere inalterata nella sostanza la disciplina delle modifiche in fatto dell’imputazione rispetto a quelle in diritto. Si legge, ad esempio, nelle sentenze della Corte di Strasburgo che non spetta a quella Corte esaminare in abstracto la legislazione e la prassi pertinenti, ma deve verificare se la maniera in cui esse hanno riguardato i ricorrenti abbia infranto la Convenzione. Pertanto, la Corte dei diritti umani non ha il compito di verificare, ad esempio, se da un punto di vista generale l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione al principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'articolo 521 c.p.p. sia incompatibile con l’articolo 6 della Convenzione[6]. In particolare, la Corte non ha il compito di sostituirsi ai giudici interni. Invero, spetta alle autorità nazionali, soprattutto alle Corti e ai Tribunali, interpretare la legislazione interna, mentre il ruolo della Corte si limita a verificare che gli effetti di tale interpretazione siano compatibili con la Convenzione. La Corte europea deve assicurarsi che la procedura considerata nel suo insieme abbia avuto un carattere equo. Sotto questo profilo, ad esempio, se l’imputato ha avuto modo, attraverso le impugnazioni, di contestare la riqualificazione giuridica del fatto effettuata di ufficio dal giudice, il procedimento, nel suo insieme, potrebbe non avere violato la CEDU[7]. Eco di questo approccio è riscontrabile nella giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale, ad esempio, l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, sancito dall’art. 111, comma terzo, Cost. e dall'art. 6 CEDU, comma primo e terzo, lett. a) e b), così come interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia, è assicurata anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione[8]. Invero, secondo la Corte di legittimità, l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del p.m., al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111, secondo comma, Cost., e dell'art. 6 CEDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono[9].

 

4. Anche a proposito della possibilità di recuperare i riti alternativi in caso di riqualificazione giuridica del fatto, si tratta di un tema effettivamente non affrontato in maniera diretta dalla Corte europea dei diritti umani, ma solo indirettamente in alcune pronunce. Nel caso Sula c. Italia[10], ad esempio, il ricorrente si doleva del fatto che la Corte di Assise lo avesse riconosciuto colpevole, oltre che dei reati di alienazione di schiavi (art. 602 c.p.), anche di quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), ritenuto implicitamente contestato nel secondo capo di imputazione. In particolare, si lamentava del fatto che tale riformulazione dell’accusa avesse violato il suo diritto di difendersi adeguatamente e di definire la sua strategia difensiva con piena cognizione di causa, e, nel dettaglio, di scegliere tra il procedimento ordinario e il giudizio abbreviato, opzione che avrebbe potuto fare valere se fosse stato informato in anticipo di tutte le accuse a suo carico. Il giudice europeo osservava, anzitutto, che, a differenza della causa Drassich, in cui la riqualificazione dei fatti aveva avuto luogo al momento della decisione della Corte di Cassazione senza che l’imputato ne fosse informato, nel caso di specie la riqualificazione giuridica era intervenuta con la decisione di primo grado. Il ricorrente aveva potuto contestare, sia la modifica dell’accusa che il merito della condanna per il reato di riduzione in schiavitù di una persona, con l’impugnazione, ed era stato in grado di esercitare la regola del contraddittorio sull'accusa a suo carico. La Corte rilevava, inoltre, che la contestazione in fatto conteneva un riferimento alla circostanza che la vittima era stata resa schiava con determinate modalità, sicché, alla luce della nozione di reato di riduzione in schiavitù come prevista dalla normativa italiana, la descrizione dei fatti caratterizzava quindi gli elementi costitutivi del reato punibile dall’art. 600 c.p., potendosi, quindi, ritenere che una siffatta qualificazione del reato in questione costituiva un elemento intrinseco dell’accusa originaria, e, dunque, fosse prevedibile per il ricorrente. Per quanto riguardava l'impatto che l’asserita riqualificazione avrebbe avuto sulla strategia difensiva del ricorrente, la Corte alsaziana riteneva di non potersi soffermare su questo aspetto, pur evidenziando che, avendo sollevato il ricorrente altra censura riguardo alla mancanza della possibilità di sentire due testimoni nel corso del processo, ciò lasciava intendere che l’opzione processuale preferita dal ricorrente nella sua strategia difensiva sarebbe stata quella del rito ordinario. Dunque, ancora una volta, nella logica flou che è alla base delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, veniva esclusa la violazione dell’art. 6 CEDU, anche sotto il profilo dell’impossibilità di mutare strategia difensiva attraverso il ricorso ad un rito alternativo, per la prevedibilità della riqualificazione giuridica e per la possibilità per il ricorrente di contestare la diversa qualificazione giuridica del fatto attraverso le impugnazioni. Questi medesimi argomenti sono stati evidenziati dalla Corte di Cassazione[11] nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 521 c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost., nella parte in cui non prevede la rimessione in termini dell’imputato al fine di consentirgli di chiedere l’ammissione a riti alternativi, qualora il giudice, all’esito del processo, attribuisca al fatto una qualificazione giuridica diversa al fatto contestato, immutato nella sua dimensione storica. Ha sottolineato, infatti, la Corte come tale riqualificazione non determina uno scenario processuale “non prevedibile” per la difesa e non richiede interventi additivi rispetto al nucleo delle opzioni processuali da essa esercitabili[12]. A sostegno dei propri argomenti la Suprema Corte ha citato anche la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE nella causa Moro[13], che ha affermato che l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE[14] e l’art. 48 CDFUE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale in forza della quale l’imputato può domandare, nel corso del dibattimento, l’applicazione di una pena su richiesta nel caso di una modifica dei fatti su cui si basa l’imputazione, e non nel caso di una modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell’imputazione. Nel caso di specie, all’esito del dibattimento, all’imputato era stata prospettata dal giudice la possibile riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato come ricettazione, in furto. Siccome il p.m. aveva ritenuto di non modificare l’imputazione, a fronte della richiesta dell’imputato di accedere al patteggiamento, era stata sottoposta alla Corte di Giustizia UE questione pregiudiziale interpretativa che coinvolgeva l’art. 6 della direttiva 2012/13/UE e l’art. 48 della CFDUE. Si chiedeva alla Corte se il diritto dell’Unione ostasse a che fossero riconosciuti diritti della difesa differenti all’imputato a seconda che la modifica riguardasse i fatti su cui si basava l’imputazione ovvero la qualificazione giuridica dei fatti oggetto di imputazione. Sostanzialmente, la Corte evidenziava come la direttiva mirasse a stabilire norme minime da applicare in materia di informazione delle persone indagate o imputate. Fra queste, quanto alla modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell’accusa, non vi era anche quella di riconoscere all’imputato il diritto di domandare l’applicazione di una pena su richiesta nel corso del dibattimento. Con riferimento all’art. 48, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali, il rispetto dei diritti della difesa richiedeva che, nel caso della modifica della qualificazione giuridica dei fatti che sono oggetto di accusa, l’imputato ne fosse informato in un momento in cui dispone ancora dell’opportunità di reagire in modo effettivo, prima della deliberazione, affinché fosse posto in grado di predisporre in modo efficace la propria difesa. Per contro, i diritti della difesa previsti dall’art. 48, paragrafo 2, CDFUE, nell’ambito del diritto all’informazione dell’imputato, non impongono che quest’ultimo potesse chiedere di essere rimesso in termini per chiedere un rito alternativo in caso di modifica dei fatti su cui si base l’imputazione o di modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell’imputazione, sicché la circostanza che nel diritto nazionale non siano concessi al riguardo gli stessi diritti all’imputato non costituisce di per sé violazione dei diritti di difesa tutelati dall’art. 48 CDFUE sotto il profilo del diritto degli indagati/imputati di essere informati dell’accusa elevata a loro carico.

 

5. Quest’ultimo riferimento giurisprudenziale ci permette di entrare in medias res, e cioè di cominciare ad esaminare le novità di cui è portatrice la sentenza della Corte del Lussemburgo in commento. Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava la possibilità per un giudice di riqualificare i fatti di reato in talune circostanze senza informare l’imputato. In pratica, l’imputato sarebbe venuto a conoscenza della nuova qualificazione giuridica dei fatti di reato soltanto al momento della pronuncia della sentenza del giudice e, quindi, non avrebbe avuto la possibilità di difendersi contro la nuova qualificazione giuridica nell’ambito del procedimento penale. Nel diritto bulgaro, però, siffatta riqualificazione giuridica sarebbe stata consentita solo qualora non si fosse verificata una modifica sostanziale degli elementi di fatto del capo di imputazione e la nuova qualificazione giuridica non avesse comportato l’irrogazione di una pena più severa. Il giudice bulgaro del rinvio sollevava due questioni pregiudiziali interpretative che coinvolgevano l’art. 6 (in particolare, il paragrafo 4) della direttiva 2012/13/UE, nonché l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nel dettaglio, con riguardo al diritto fondamentale ad un giudice imparziale. Tralasciando, la seconda questione[15], con la prima questione, come rilevato dall’avvocato generale Tamara Capeta nelle sue conclusioni[16], il giudice del rinvio sostanzialmente chiedeva se fosse contrario all’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE informare l’imputato della modifica delle accuse a suo carico soltanto al momento della pronuncia della sentenza con cui quest’ultimo era stato condannato sulla base dei capi di imputazione modificati. Interessante notare come la questione veniva esaminata dall’avvocato generale – e poi, come vedremo, dalla stessa Corte lussemburghese – sotto la prospettiva della prevedibilità della modifica. Invero, l’avvocato generale si chiedeva se al quesito si potesse rispondere affermativamente anche nel caso in cui il nuovo capo di imputazione e il capo di imputazione originario presentassero gli stessi elementi costitutivi. Sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si potrebbe sostenere che in tali casi non vi sarebbe alcun contrasto con il diritto dell’Unione Europea, poiché l’accertamento di una violazione della CEDU dipende dalla garanzia dell’equità del procedimento, ragione per cui occorrerebbe tenere conto della circostanza se l’imputato fosse consapevole, nel corso del procedimento, della possibilità di una nuova qualificazione giuridica. L’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva, e, in particolare, dell’espressione “necessario per salvaguardare l’equità del procedimento”, dovrebbe essere intesa in modo analogo. Tuttavia, notava l’avvocato generale, fino a quel momento in nessuna delle cause trattate, che avevano visto cimentarsi la Corte nell’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva, si era posta la questione se l’informazione relativa alla riqualificazione dei fatti di reato dovesse essere fornita all’imputato qualora la nuova qualificazione giuridica si basasse sugli stessi elementi costitutivi della qualificazione giuridica iniziale. Alla sollecitazione che proveniva dalla Commissione UE e dalla Repubblica Ceca, che erano intervenute nel procedimento, di adottare nell’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva un approccio analogo a quello adottato dalla Corte di Strasburgo nella sua giurisprudenza in materia di valutazione di asserite violazioni dell’art. 6, paragrafo 3, lett. a), CEDU, l’avvocato generale prospettava alla Corte un approccio diverso e nuovo[17].

 

6. Sosteneva l’avvocato generale come fosse pacifico che il diritto derivato dell’Unione, ivi compresa la direttiva 2012/13/UE[18], deve essere interpretato in conformità con i diritti fondamentali vincolanti per l’Unione. Invero, sulla base dell’articolo 52, paragrafo 3, CDFUE, in tali diritti rientrano anche quelli garantiti dalla CEDU e dalla giurisprudenza pertinente della Corte EDU ogni qual volta i diritti della Carta corrispondano a quelli della Convenzione. Tuttavia, l’obbligo di interpretare la direttiva 2012/13/UE in modo conforme ai diritti fondamentali implica che i diritti contenuti in tale direttiva non possono offrire una protezione inferiore a quella garantita dalla Carta e dalla Convenzione. Ciò non significa che il legislatore dell’Unione non possa concedere agli imputati diritti più ampi. Inoltre, se il diritto derivato dell’Unione prevede siffatti diritti più ampi, ciò non significa automaticamente che il livello della Carta sia più elevato rispetto a quello della Convenzione. Ciò significa semplicemente che la soluzione legislativa è più vantaggiosa rispetto a quanto richiesto dal livello dei diritti fondamentali nell’Unione, al di sotto del quale il legislatore dell’Unione non può scendere, ma al di sopra del quale può spingersi. Pertanto, sosteneva l’avvocato generale, anche qualora la giurisprudenza della Corte EDU debba essere interpretata nel senso che consente di riqualificare i fatti di reato senza offrire all’imputato la possibilità di reagire a tale modifica in talune circostanze, ciò non significa necessariamente che l’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE debba essere interpretato in tal senso. Invero, nell’interpretare il diritto derivato dell’Unione, oltre a prendere in considerazione la tutela dei diritti fondamentali quale soglia minima, bisogna tenere conto anche della finalità dell’atto giuridico da interpretare. Sotto questo profilo, come risulta dal suo preambolo[19], la direttiva 2012/13/UE mira ad armonizzare le legislazioni nazionali al fine di rafforzare la fiducia reciproca e consentire, di conseguenza, il reciproco riconoscimento nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale. Tale importante finalità sottesa alla direttiva 2012/13/UE incide necessariamente sul metodo della sua interpretazione, così come incide sull’interpretazione di altre direttive adottate sulla base dell’articolo 82, paragrafo 2, TFUE. Le norme comuni fissate dalla direttiva 2012/13/UE, suggeriva l’avvocato generale, devono essere interpretate, pertanto, in modo da consentire una migliore realizzazione dell’obiettivo di rafforzare la fiducia reciproca, attraverso esegesi semplici. In tale prospettiva, la formulazione dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE lasciava aperte (almeno) due opzioni. Secondo la prima opzione interpretativa, l’equità del procedimento è garantita in situazioni in cui gli elementi costitutivi del reato inizialmente contestato e di quello risultante dalla riqualificazione corrispondono, sebbene l’imputato non sia stato informato della riqualificazione dei fatti di reato prima della pronuncia della sentenza. Tale opzione riflette la giurisprudenza della Corte EDU. Essa si basa sulla premessa secondo cui, in tali situazioni, il giudice può accertarsi del fatto che l’imputato abbia avuto la possibilità di difendersi e che la strategia difensiva non sarebbe stata diversa. Un siffatto approccio caso per caso appare accettabile nella giurisprudenza della Corte EDU, dovendo tale giudice valutare a posteriori se il modo in cui è stato condotto un determinato procedimento penale abbia violato i diritti fondati sulla CEDU. Tuttavia, evidenziava l’avvocato generale, se la direttiva 2012/13/UE mira a rafforzare la fiducia reciproca, tale opzione interpretativa presenta degli inconvenienti. Un simile approccio caso per caso si basa sulla valutazione (soggettiva) di un giudice che l’imputato (e il suo avvocato) non abbiano potuto avvalersi di una strategia difensiva diversa, ma l’imposizione in capo al giudice di un siffatto requisito, ossia valutare le possibili strategie difensive in casi concreti, è problematica, e idonea a entrare in conflitto con l’imparzialità dei giudici in misura maggiore rispetto a quanto prospettato dal giudice del rinvio nella seconda questione pregiudiziale. Data l’incertezza legata a questa opzione interpretativa, essa non può offrire un utile contributo al rafforzamento della fiducia nutrita dai giudici di uno Stato membro nei confronti della prassi dei giudici di altri Stati membri.

Al contrario, la seconda opzione interpretativa, a parere dell’avvocato generale, conduce a una norma ancora più chiara e, quindi, è più efficace ai fini del rafforzamento della fiducia reciproca. Ai sensi della seconda opzione interpretativa, ai fini dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, informare l’imputato in tempo utile che i fatti di reato sono stati (o possono essere) riqualificati, il che consente di reagire alla nuova qualificazione, è sempre «necessario per salvaguardare l’equità del procedimento». Ciò avviene nonostante la possibilità che l’imputato fosse a conoscenza dell’eventualità di una riqualificazione dei fatti di reato e la circostanza che tutti gli elementi costitutivi del nuovo reato siano inclusi nel reato iniziale.

L’accoglimento di siffatta interpretazione significherebbe che un giudice, il quale ritenga che i fatti di reato debbano essere riclassificati, è tenuto ad offrire all’imputato la possibilità di presentare una nuova difesa, e ciò non dovrebbe costituire un motivo di rigetto dell’interpretazione proposta, soprattutto se valutato alla luce della garanzia dell’equità del procedimento. Questa interpretazione dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE è molto più semplice, poiché non implica valutazioni soggettive da parte del giudice. Di converso, essa impone una norma chiara: qualora il giudice ritenga necessario riqualificare i fatti di reato, esso deve informare l’imputato della nuova accusa e consentirgli di reagire all’accusa come riqualificata presentando una nuova difesa. Infine, l’avvocato generale riteneva che l’intenzione di limitarsi a ribadire il livello di protezione garantito dalla CEDU non potesse essere dedotta dal Considerando 40 della direttiva 2012/13/UE, il quale stabiliva che tale direttiva fissa soltanto norme minime. Ma l’espressione «norme minime» significa che gli Stati membri possono fissare un livello di tutela più elevato rispetto a quello imposto dalla direttiva 2012/13/UE. Ciò non implica che le norme previste da tale direttiva debbano rappresentare il livello minimo possibile. La CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, fissa la soglia minima, anche per situazioni non contemplate dalla direttiva 2012/13/UE. Nulla in detto Considerando suggerisce che i diritti conferiti dalla direttiva 2012/13/UE non possano essere più estesi rispetto a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, l’avvocato generale suggeriva alla Corte di fare propria la seconda opzione interpretativa.

 

7. Dunque, l’avvocato generale proponeva alla Corte un’interpretazione autonoma dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, sganciata dall’approccio esegetico della Corte EDU. La Corte di Giustizia UE ha fatto proprio il suggerimento dell’avvocato generale. Innanzitutto, la Corte ha ribadito che gli artt. 3 e 6 della direttiva 2012/13/UE mirano, come confermano i Considerando da 27 a 29 della direttiva, a garantire l’equità del procedimento e a consentire l’esercizio effettivo dei diritti della difesa. Il giudice del rinvio si interrogava sulla portata dell’obbligo, gravante su un giudice che si pronuncia nel merito di un procedimento penale, di informare l’imputato che la qualificazione giuridica dei fatti contestati è mutata. A tal riguardo, la Corte ha ricordato di avere già riconosciuto che le informazioni relative all’accusa trasmesse alla difesa possono essere oggetto di modifiche successive, segnatamente per quanto riguarda la qualificazione giuridica dei fatti contestati. Siffatte modifiche devono tuttavia essere comunicate all’imputato o al suo avvocato in un momento in cui questi ultimi abbiano ancora la possibilità di replicare in modo effettivo, prima della deliberazione. Tale possibilità è prevista appunto all’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, il quale prevede che qualsiasi modifica delle informazioni fornite ai sensi di tale articolo che intervenga nel corso del procedimento penale debba essere tempestivamente comunicata all’imputato qualora ciò sia necessario per garantire l’equità del procedimento. Il Considerando 29 della direttiva precisa, inoltre, che qualora, nel corso del procedimento penale, i particolari concernenti l’accusa cambino in modo tale da ripercuotersi in modo sostanziale sulla posizione delle persone indagate o imputate, ciò dovrebbe essere loro comunicato ove necessario per salvaguardare l’equità del procedimento e a tempo debito per consentire un esercizio effettivo dei diritti della difesa. In tale contesto, ha sottolineato la Corte, va rimarcata l’importanza determinante della comunicazione della qualificazione giuridica del reato per l’esercizio effettivo dei diritti della difesa. Infatti, tale comunicazione all’imputato (o al suo avvocato) è indispensabile per porre quest’ultimo in condizione di comprendere quanto gli è addebitato, di organizzare di conseguenza la sua difesa nonché, se del caso, di contestare la sua colpevolezza cercando di dimostrare l’assenza di uno o più elementi costitutivi del reato contestato. Di conseguenza, qualsiasi modifica della qualificazione giuridica dei fatti da parte del giudice che si pronuncia nel merito di un procedimento penale può avere un’incidenza determinante sull’esercizio dei diritti della difesa nonché sull’equità del procedimento ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE. Ciò si verifica, da un lato, qualora il nuovo reato prospettato comporti elementi costitutivi nuovi, sui quali l’imputato non ha ancora avuto la possibilità di presentare i propri argomenti. D’altro lato, però, anche nell’ipotesi in cui il nuovo reato prospettato non contenga nuovi elementi costitutivi rispetto al reato precedentemente contestato, cosicché l’imputato ha avuto la possibilità, nel corso del procedimento, di presentare i propri argomenti su tutti gli elementi costitutivi di tale nuovo reato, la riqualificazione del reato da parte del giudice penale che statuisce nel merito resta nondimeno idonea a influire in modo non trascurabile sull’esercizio dei diritti della difesa. Infatti, non si può escludere che l’imputato al quale viene comunicata la nuova qualificazione prospettata predisponga in modo diverso la propria difesa. Occorre anche sottolineare che, in tale contesto, è del tutto priva di rilievo la circostanza che la nuova qualificazione non possa comportare l’applicazione di una pena più severa. Infatti, l’equità del procedimento richiede che l’imputato possa esercitare pienamente i diritti della difesa. Orbene, la maggiore o minore severità della pena comminata non ha alcun nesso con la questione se sia stato possibile esercitare tali diritti. Ne consegue, ha concluso la Corte, che il giudice che si pronuncia nel merito di un procedimento penale è tenuto, quando intende riqualificare il reato, a informare tempestivamente l’imputato, o il suo avvocato, della nuova qualificazione prospettata, in un momento e in condizioni che consentano a tale persona di predisporre efficacemente la propria difesa, dandole la possibilità di esercitare in modo concreto ed efficace i diritti della difesa in relazione a tale qualificazione, al fine di garantire l’equità del procedimento ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE. La necessità di concedere all’imputato un termine per predisporre o rivedere la sua difesa in un siffatto contesto nonché la durata di tale termine sono elementi che devono essere determinati da tale giudice alla luce di tutte le circostanze rilevanti. La Corte ha tratto conforto dell’interpretazione esposta dagli obiettivi della direttiva 2012/13/UE. Infatti, come risulta dai suoi Considerando 3, 9 e 14, tale direttiva, mediante l’istituzione di norme minime comuni da applicare in materia di informazioni relative ai diritti e all’accusa da fornire alle persone indagate o imputate per un reato, persegue lo scopo di rafforzare la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, pertanto, di facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie in materia penale. Sicché, come rilevato in sostanza dall’avvocato generale ai paragrafi da 59 a 71 delle sue conclusioni, l’interpretazione fatta propria dalla Corte, che assume la forma di una regola chiara e di semplice applicazione per quanto riguarda l’obbligo, per il giudice che statuisce nel merito di un procedimento penale, di informare tempestivamente l’imputato qualora tale giudice preveda di riqualificare il reato, contribuisce al rispetto dei diritti della difesa nonché all’equità del procedimento penale negli Stati membri. In tal modo, la suddetta interpretazione rafforza la fiducia reciproca tra detti Stati e, pertanto, facilita il reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie in materia penale, conformemente agli obiettivi perseguiti da tale direttiva. Pertanto, alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte ha risposto alla prima questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE deve essere interpretato nel senso che osta a una giurisprudenza nazionale che consente a un giudice che si pronuncia nel merito di un procedimento penale di adottare una qualificazione giuridica dei fatti contestati diversa da quella inizialmente adottata dal pubblico ministero senza informare tempestivamente l’imputato della nuova qualificazione prospettata in un momento e in condizioni che gli consentano di predisporre efficacemente la propria difesa e, pertanto, senza offrire a tale persona la possibilità di esercitare i diritti della difesa in modo concreto ed effettivo in relazione a tale nuova qualificazione. In questo contesto, non assume alcuna rilevanza la circostanza che detta qualificazione non sia tale da comportare l’applicazione di una pena più severa rispetto al reato per il quale la persona era inizialmente perseguita.

 

8. L’interpretazione fornita dalla sentenza in commento dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, superando anche l’esegesi dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. a) e b), CEDU resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si pone in contrasto con il distinguo che continua ad esserci nel nostro ordinamento rispetto ai fenomeni delle modifiche in facto dell’imputazione e delle modifiche in iure. Il decisum della Corte di Giustizia lussemburghese non può essere equivocato, poiché nasce proprio dall’esigenza di porre una regola semplice, chiara e precisa, valevole per tutti gli Stati membri, in grado di rafforzare la fiducia reciproca degli stessi sui rispettivi sistemi giuridici e, quindi, di facilitare il reciproco riconoscimento delle sentenze e decisioni giudiziarie in materia penale. E la regola è chiara: qualsiasi modifica della qualificazione giuridica dell’imputazione, sia che incida sugli elementi costitutivi del fatto, sia che non incida sugli stessi, anche se comporta per l’imputato l’applicazione di una pena meno severa, deve essere tempestivamente comunicata all’imputato (o al suo avvocato), prima della decisione, in modo da consentirgli di predisporre efficacemente la propria difesa, di esercitare i diritti della difesa in modo concreto ed effettivo in relazione alla nuova qualificazione giuridica. Fra i diritti difensivi che certamente devono essere assicurati all’imputato vi è innanzitutto, come chiarito dalla stessa sentenza in commento, la necessità di concedere all’imputato un termine per predisporre o rivedere la sua difesa; quindi, la possibilità di presentare eventuali osservazioni e, se del caso, formulare qualsiasi richiesta, in particolare, istruttoria, che avrebbe diritto di presentare ai sensi del diritto nazionale[20]. Prendendo espressamente le distanze dalle pronunce della Corte di Strasburgo sul medesimo tema, la Corte dell’Unione ha inteso assicurare piena tutela all’imputato a fronte delle modifiche in iure dell’imputazione indipendentemente dall’eventuale prevedibilità delle stesse, proprio per evitare di affidare ai giudici nazionali valutazioni “caso per caso”, circa la possibilità per l’imputato di difendersi comunque, poiché la propria strategia difensiva non sarebbe in ogni caso cambiata. Ovviamente, rientra nell’autonomia procedurale degli Stati membri stabilire le modalità concrete di attuazione dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, a condizione che siano rispettati il principio di equivalenza, il quale richiede che le regole nazionali non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe soggette al diritto interno, e il principio di effettività, in base al quale le modalità procedurali nazionali non devono rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione[21]. Appare evidente, pertanto, che, di fronte al diritto dell’Unione Europea, non esiste alcuna ragione di distinguere le modifiche dell’imputazione, a seconda che riguardano gli elementi costitutivi del fatto, ovvero la loro qualificazione giuridica. In ogni caso, all’imputato devono essere assicurati i medesimi diritti difensivi. Sarebbe, quindi, contraria all’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, norma avente efficacia diretta[22], una disposizione che consentisse l’atteggiarsi in termini diversi del diritto all’informazione in caso di modifica della qualificazione giuridica del fatto rispetto ai mutamenti fattuali dell’imputazione, con conseguente diversa ricaduta sull’esercizio dei diritti difensivi. Se per il diritto dell’Unione Europea è del tutto indifferente che il diritto degli imputati ad essere informati dell’accusa previsto dall’art. 6 della direttiva 2012/13/UE sia garantito dal pubblico ministero, a seguito di restituzione degli atti e del regresso del procedimento alla fase delle indagini preliminari, o dal giudice penale nell’ambito della fase giudiziale, quello che conta è che le necessarie informazioni siano rese nel rispetto dei diritti difensivi come delineati dal diritto nazionale, e cioè che all’imputato e al suo difensore sia concesso, nel rispetto del principio del contraddittorio e di parità delle armi, un lasso di tempo sufficiente per prendere conoscenza di tali informazioni, ed essi devono essere posti in grado di predisporre efficacemente la propria difesa, presentare le proprie eventuali osservazioni e, se del caso, formulare qualsiasi richiesta, in particolare, istruttoria, che avrebbero diritto di presentare ai sensi del diritto nazionale[23]. Pertanto, per il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, non possono ritenersi conformi all’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE gli artt. 516, 519, 520 e 521 c.p.p., laddove distinguono nettamente la disciplina prevista per le informazioni relative alle modifiche fattuali dell’imputazione rispetto a quella prevista per le analoghe informazioni relative alle modifiche giuridiche. Come visto, infatti, il diritto nazionale, anche nell’interpretazione giurisprudenziale, prevede innanzitutto che le modifiche fattuali debbano essere formalmente contestate all’imputato, prima della sentenza del giudice, poiché, in caso contrario, ove sia il giudice a riscontrare la diversità del fatto al momento della deliberazione della sentenza, deve disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero. Inoltre, in caso di formale contestazione della modifica dell’imputazione, all’imputato sono riconosciuti tutti i diritti difensivi, dalla richiesta di un semplice termine a difesa, all’accesso a tutti i riti alternativi, alla richiesta di mezzi istruttori. Per contro, con riferimento alla diversa qualificazione giuridica del fatto, non è neppure imposto al giudice l’onere di darne preventiva informazione all’imputato, giacché la nostra giurisprudenza di legittimità consente che la riqualificazione giuridica avvenga direttamente con la pronuncia della sentenza. Questo onere è normativamente previsto adesso solo per la Cassazione. In ogni caso, quand’anche il giudice, in ossequio al diritto convenzionale europeo, informasse preventivamente l’imputato della possibile riqualificazione giuridica attribuibile al fatto contestato, il prevenuto non godrebbe di alcun espresso diritto difensivo, non essendo previsto formalmente neppure il diritto ad un termine a difesa. Ne consegue che situazioni sostanzialmente identiche ai sensi dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE troverebbero nel diritto interno una disciplina differente, tale da non assicurare i medesimi diritti difensivi agli imputati, e ciò in violazione dei principi di equivalenza ed effettività del diritto dell’Unione Europea.

 

9. La sentenza in commento costituisce una significativa evoluzione della stessa giurisprudenza lussemburghese. Come visto, infatti, la Corte di Giustizia dell’UE è già stata investita di una questione pregiudiziale attinente alla conformità con il diritto dell’Unione Europea, e, segnatamente, proprio con l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE e con l’art. 48 CDFUE, degli artt. 516 e 521 c.p.p., nella parte in cui queste disposizioni, prevedendo un diverso atteggiarsi dell’ordinamento interno per le modifiche in fatto rispetto alla modifiche in diritto dell’imputazione, consentono solo nel primo caso all’imputato di chiedere l’accesso ad un rito alternativo. In questo caso, infatti, l’approccio della Corte di Giustizia fu del tutto “minimalista”, all’insegna di un’interpretazione letterale ed essenziale dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE. Non a caso, infatti, l’esegesi dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva veniva supportata attraverso il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[24], richiami di cui, del tutto comprensibilmente, risulta priva la sentenza in commento, se è vero che, su impulso dell’avvocato generale, la Corte ha fornito un’interpretazione autonoma dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva, discostandosi espressamente da quella dell’art. 6 CEDU resa dalla Corte di Strasburgo. Anche sul significato dell’espressione “necessità di salvaguardare l’equità del procedimento” le due sentenze appaiono distanti. Invero, la sentenza Moro (vedi punti 61-65) ha fatto proprio l’approccio esegetico dell’avvocato generale Michael Bobek[25], secondo il quale la nozione di equità del procedimento, davvero ampia, come spiegato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, concerne l’esame del procedimento penale considerato nel suo complesso, alla luce delle specifiche caratteristiche e circostanze del caso, sicché non tutti gli eventi che si verificano nell’ambito di un procedimento penale comportano una violazione dell’equità del procedimento, ma alcuni ovviamente possono causarla, a seconda dell’importanza degli stessi all’interno di un dato procedimento. Pertanto, riteneva l’avvocato generale, la valutazione del rispetto dell’equità del procedimento doveva essere necessariamente collegata ai diritti espressamente disciplinati dalla direttiva 2012/13/UE. In altre parole, gli specifici obblighi di cui alla direttiva 2012/13/UE, secondo l’avvocato generale, rappresentavano una specifica espressione di come debba essere garantita l’equità del procedimento per quanto concerne l’obbligo di fornire informazioni agli imputati. Sicché, aspetti della procedura penale rilevanti al fine di garantire tale equità, disciplinati o meno da specifiche direttive (il diritto al difensore, il diritto al gratuito patrocinio, il diritto all’interprete e così via), come i requisiti per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, continuavano evidentemente ad essere sottoposti alla disciplina del diritto penale nazionale. Il fatto che la questione in parola, come altre, potesse essere rilevante per l’equità generale del procedimento non poteva essere utilizzato per interpretare l’articolo 6, paragrafo 4 o altre disposizioni della direttiva in modo così estensivo da ammettere il riesame di ogni singolo aspetto della procedura penale, per quanto distante esso sia dallo specifico obbligo sancito dalla stessa direttiva 2012/13/UE. Così applicata, la direttiva 2012/13/UE, secondo l’avvocato generale Bobek, cesserebbe di essere uno strumento di armonizzazione minima di specifici elementi dei diritti della difesa che essa espressamente prevede, ma diventerebbe uno strumento che apre la porta al riesame di qualsiasi elemento della procedura penale nazionale. Al contrario, l’approccio dell’avvocato generale Capeta alla questione interpretativa dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, fatto proprio dalla Corte con la sentenza in commento, è apparso diverso fin dall’esordio.  Invero, secondo l’avvocato generale Capeta, come risulta dal suo preambolo, la direttiva 2012/13/UE mira ad armonizzare le legislazioni nazionali al fine di rafforzare la fiducia reciproca e consentire, di conseguenza, il reciproco riconoscimento nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale. Tale importante finalità sottesa alla direttiva 2012/13/UE incide necessariamente sul metodo della sua interpretazione, così come incide sull’interpretazione di altre direttive adottate sulla base dell’articolo 82, paragrafo 2, TFUE. Condividendo quanto affermato da altro avvocato generale nelle conclusioni rassegnate in occasione della sentenza Covaci[26], la Capeta affermava che «le norme adottate sulla base dell’articolo 82, paragrafo 2, TFUE devono essere interpretate nel senso idoneo ad assicurare loro un pieno effetto utile, poiché una siffatta interpretazione, che rafforzerà la tutela dei diritti, rafforzerà allo stesso tempo la fiducia reciproca e, di conseguenza, faciliterà l’attuazione del riconoscimento reciproco», sicché «[r]idurre la portata di tali norme mediante un’interpretazione letterale dei testi può produrre l’effetto di contrastare l’attuazione del riconoscimento reciproco e quindi la costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Pertanto, secondo l’avvocato generale Capeta, le norme comuni fissate dalla direttiva 2012/13/UE devono essere interpretate in modo da consentire una migliore realizzazione dell’obiettivo di rafforzare la fiducia reciproca. Siffatto obiettivo milita a favore di soluzioni semplici. In questa prospettiva l’avvocato generale suggeriva l’opzione interpretativa di cui si è detto che meglio consente di raggiungere l’obiettivo di rafforzare la fiducia reciproca. Un’interpretazione, occorre ribadire, secondo la quale, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, informare l’imputato in tempo utile che i fatti di reato sono stati (o possono essere) riqualificati, il che consente di reagire alla nuova qualificazione, è sempre “necessario per salvaguardare l’equità del procedimento”, e ciò nonostante la possibilità che l’imputato fosse a conoscenza dell’eventualità di una riqualificazione dei fatti di reato e la circostanza che tutti gli elementi costitutivi del nuovo reato siano inclusi nel reato iniziale. Questa interpretazione obbligherebbe il giudice, che ritenga di riqualificare i fatti, ad offrire all’imputato la possibilità di presentare una nuova difesa, nei sensi su esposti. Tuttavia, secondo l’avvocato generale Capeta, il conseguente prolungamento del procedimento non può costituire un motivo per non accogliere l’interpretazione proposta, soprattutto se valutato alla luce della garanzia dell’equità del procedimento. L’interpretazione in questione, come sopra evidenziato, è semplice, poiché non implica valutazioni soggettive da parte del giudice, imponendogli un obbligo chiaro.

 

10. Alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza eurounitaria è possibile tornare a proporre la questione della conformità del diritto interno al diritto dell’Unione Europea. Al giudice che dovesse ritenere di cimentarsi su questo tema si aprono quattro diverse strade. Con le prime due, più ardue, stante il precedente della causa Moro, il giudice dovrebbe cimentarsi in una interpretazione conforme del diritto interno (segnatamente dell’art. 521 c.p.p.) rispetto al diritto eurounitario espresso dalla sentenza in commento, tenuto conto che, come detto, l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE costituisce norma direttamente efficace, sicché, per il principio del primato del diritto dell’Unione, i giudici nazionali devono interpretare, quanto più possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione. Ove, peraltro, non ritenesse di potere procedere ad un’interpretazione delle norme nazionali conformi alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice, avendo l’obbligo di garantire la piena efficacia di queste ultime, dovrebbe procedere a disapplicare all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale[27]. Accanto a questa soluzione, vi è quella di riproporre la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel senso di verificare se osta all’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, l’art. 521 c.p.p., come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, nella parte in cui consente al giudice di riqualificare giuridicamente l’originaria imputazione, contestata dal pubblico ministero, anche in sentenza, senza necessariamente assicurare una preventiva informazione all’imputato e senza assicurargli la possibilità di esercitare i diritti della difesa in modo concreto ed effettivo in relazione a tale nuova qualificazione, così come invece viene assicurato all’imputato in caso di modifica degli aspetti fattuali dell’imputazione. Infine, vi è la possibilità, offerta dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, inaugurata con la nota sentenza n. 269/2017[28], di rivolgersi direttamente alla Consulta sollevando questione di legittimità costituzionale ai sensi degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. Invero, coinvolgendo la questione non solo diritti fondamentali tutelati dal diritto dell’Unione Europea (come si legge nel Considerando 14 della direttiva 2012/13/UE, la direttiva predetta muove dai diritti enunciati dalla CDFUE, in particolare gli artt. 6, 47 e 48), ma anche diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione (segnatamente il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.), la Corte può essere investita di una specifica questione di legittimità costituzionale. Ritiene, infatti, la Corte Costituzionale che non può esserle precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Laddove, però, sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, ritiene il giudice delle leggi di non potersi esimere, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione. Anzi, seguendo il suggerimento di autorevole giudice costituzionale[29], quest’ultima strada avrebbe non pochi vantaggi, poiché accentrerebbe in capo ad un unico giudice (il giudice costituzionale) la questione, che potrebbe deciderla anche previa interlocuzione con la Corte di Giustizia UE, peraltro, con una sentenza che potrebbe intervenire a “ripulire” la norma interna con effetti erga omnes.

 

[1] Sul tema della riqualificazione giuridica del fatto nel processo penale, senza pretesa di esaustività, si rimanda, nell’ambito della vasta produzione bibliografica, a A. Capone, Iura novit curia, Cedam ed., 2010 e S. Quattrocolo, Riqualificazione del fatto nella sentenza penale e tutela del contraddittorio, Jovene ed., 2011, e, volendo, sullo specifico aspetto del testo, a G. Biondi, La riqualificazione giuridica del fatto e le spinte riformatrici che provengono dal diritto europeo, in Dir. pen. cont., 29 aprile 2013.

[2] Il d. lgs. n. 150/2022 ha, innanzitutto, modificato l’art. 421 c.p.p., sostituendo il comma 1 e inserendo il comma 1-bis, e l’art. 423 c.p.p., inserendo i commi 1-bis e 1-ter. Attraverso queste modifiche si è attribuito al giudice dell’udienza preliminare il controllo sulla determinatezza e correttezza della formulazione dell’imputazione, sia in fatto che in diritto, da parte del p.m., sia con riguardo alla contestazione originariamente formulata, sia rispetto alle modifiche apportate nel corso della stessa udienza preliminare, attraverso lo schema “virtuoso” suggerito in via “pretoria” dalle Sezioni Unite della Cassazione nella nota sentenza Battistella (Cass. pen. sez. un., 20.12.2007, n. 5307/08), prevedendo, quindi, che il giudice inviti il p.m. a precisare o modificare l’imputazione, e, qualora il p.m. non provveda, a dichiarare, sentite le parti, nel primo caso la nullità della richiesta di rinvio a giudizio con restituzione degli atti al p.m. con ordinanza, e, nel secondo caso, a disporre con ordinanza la restituzione degli atti al p.m. Analoga disciplina è prevista con riferimento alla nuova udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta (art. 554-bis, commi 5, 6 e 7, c.p.p.). Inoltre, in seguito ai plurimi interventi della Corte Costituzionale (sentenze n. 265 del 1994, n. 530 del 1995, n. 333 del 2009, n. 237 del 2012, n. 184 del 2014, n. 273 del 2014, n. 206 del 2017, n. 141 del 2018, n. 82 del 2019, n. 14 del 2020), sono stati modificati i commi 1 e 2 dell’art. 519 c.p.p., prevedendo che, nei casi di cui agli artt. 516, 517 e 518, comma 2, c.p.p., salvo che la contestazione abbia ad oggetto la recidiva, il presidente informa l’imputato che può chiedere un termine a difesa e formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p. o di sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché di richiedere l’ammissione di nuove prove, richieste che può presentare, in caso di termine a difesa, a pena di decadenza, all’udienza successiva. È stato modificato il comma 1 dell’art. 520 c.p.p. attribuendo i diritti previsti dall’art. 519 c.p.p. anche all’imputato assente, al quale va notificato il verbale contenente la modifica dell’imputazione. È stato sostituito anche il comma 4-bis dell’art. 141 disp. att. c.p.p. stabilendo che, in caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, anche nel caso delle nuove contestazioni di cui agli artt. 516, 517 e 518, comma 2, c.p.p., l’imputato è rimesso in termini per chiedere l’oblazione. Infine, in ossequio alla pronuncia della Corte EDU, 11.12.2007, Drassich c. Italia, è stato inserito il comma 1-sexies nell’art. 611 c.p.p., che stabilisce che, se ritiene di dare al fatto una definizione giuridica diversa, la Corte di Cassazione dispone con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, indicando la ragione del rinvio e dandone comunicazione alle parti con l’avviso di fissazione della nuova udienza. L’intervento del “riformatore” è stato dettato soprattutto dall’esigenza di favorire la celere definizione dei procedimenti, in quanto, come si legge nella Relazione illustrativa del d. lgs. n. 150/2022, la completezza dell’imputazione e la sua correttezza (in punto di fatto e di diritto), per di più realizzata (salvo contrasti) senza retrocessione degli atti e nel contraddittorio con le parti, per un verso, consente il più rapido superamento dei casi problematici, per altro verso, facilita l’accesso ai riti alternativi, soprattutto se preclusi proprio dalla qualificazione giuridica o, in ogni caso, scoraggiati da fatti mal descritti o qualificazioni errate. La soluzione adottata, oltre a impedire il verificarsi dell’evento anomalo per cui è solo con il decreto di rinvio a giudizio che emerge la qualificazione ritenuta dal giudice, consente altresì di svolgere il dibattimento su un oggetto (in fatto e in diritto) corretto, riducendo il rischio tanto di istruttorie inutili quanto di modifiche (ex art. 516 ss. c.p.p.) o retrocessioni (art. 521 c.p.p.) in corso di dibattimento o, addirittura, in esito ad esso. Il tutto senza contare che proprio il tema dei rapporti tra giudice e p.m. rispetto all’imputazione intesa in senso lato ha provocato numerose complicazioni, con soluzioni giurisprudenziali controverse e non soddisfacenti, da ritenersi superate dalla nuova norma.

[3] Da ultimo Cass. pen. sez. IV, 13.11.2019, n. 49175.

[4] Si veda Corte Cost. 10-17.3.2010, n. 103 e Corte Cost. 14-31.7.2020, n. 192.

[5] Sul punto, solo per citare le pronunce più note: Corte EDU, grande camera, 25.3.1999, Pellissier e Sassi c. Francia; Corte EDU, 1.3.2001, Dallos c. Ungheria; Corte EDU, 21.2.2002, Sipavicius c. Lituania; Corte EDU, 20.4.2006, I.H. c. Austria; Corte EDU, 11.12.2007, Drassich. C. Italia. 

[6] Corte EDU, 28.2.2002, D.C. c. Italia e Corte EDU, 20.10.2015, Mandelli c. Italia.

[7] Si veda la già citata Corte EDU, 28.2.2002, D.C. c. Italia e Corte EDU, 1.3.2001, Dallos c. Ungheria.

[8] Ex plurimis Cass. pen. sez. VI, 14.2.2012, n. 10093; Cass. pen. sez. II, 24.10.2014, n. 46786 e, da ultimo, la già citata Cass. pen. sez. IV, 13.11.2019, n. 49175.

[9] Cass. pen. sez. un., 26.6.2015, n. 31617: nell'affermare il principio indicato la Corte ha escluso la violazione dell’art. 521 c.p.p. in una fattispecie in cui l'imputato era stato condannato in primo grado per il reato di concussione e in appello per quello di corruzione.

[10] Corte EDU, 3.3.2020, Sula c. Italia.

[11] Cass. pen. sez. II, 14.10.2021, n. 45068.

[12] La “prevedibilità” della riqualificazione giuridica è alla base anche delle pronunce della Cassazione in tema di patteggiamento (Cass. pen. sez. V, 3.12.1997, 5493/98) e in tema di oblazione (Cass. pen. sez. un. 28.2.2006, n. 7645 e Cass. pen. sez. un., 26.6.2014, n. 32351), a mente della quali l’accesso al rito alternativo in seguito alla riqualificazione giuridica del fatto è ammissibile solo se l’imputato si sia fatto parte diligente, prospettando con una sua tempestiva richiesta la possibilità di patteggiare la pena o di oblare sulla base della diversa qualificazione giuridica dell’imputazione, nonché delle sentenze della Corte Costituzionale (vedi la già citata sentenza n. 192/2020, e, in aggiunta, la sentenza n. 131/2019, con la quale la Consulta ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, c.p.p., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., in un caso in cui l’imputato aveva tempestivamente richiesto la sospensione del procedimento con messa alla prova, prospettando la riqualificazione giuridica del fatto, che il giudice riteneva possibile all’esito del dibattimento). Sullo specifico argomento della modifica dell’imputazione in fatto e in diritto e accesso ai riti alternativi si rimanda anche a A. Capone, Derubricazione del reato e richiesta di messa alla prova, in Giur. Cost., 2019, p. 1534; C. Naimoli, Modifica dell’imputazione in facto e in iure e restitutio in termini per l’accesso ai riti alternativi, in Dir. Pen. e proc., 2020, p. 1503.

[13] Corte di Giustizia UE, 13.6.2019, Moro, C-646/17.

[14] Direttiva del 22.5.2012, 2012/13/UE, pubblicata in GUUE dell’1.6.2012, L 142 pag. 1. Come è noto la direttiva sul diritto all’informazione nei procedimenti penali è stata attuata nel nostro ordinamento con il d. lgs. 1.7.2014, n. 101, pubblicato in G.U. Serie Generale n. 164 del 17.7.2014.

[15] Con la seconda questione il giudice bulgaro chiedeva alla Corte di Giustizia UE se l’art. 47, paragrafo 2, CDFUE, vieti al giudice di informare l’imputato della possibilità che pronunci la sua decisione di merito sulla base di una diversa qualificazione giuridica dei fatti, e di dargli, inoltre, la possibilità di predisporre la propria difesa, poiché l’iniziativa di tale diversa qualificazione giuridica non proviene dal pubblico ministero. La Corte rispondeva al quesito affermando che gli artt. 3 e 7 della direttiva 2016/343/UE, nonché l’art. 47, paragrafo 2, CDFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consente a un giudice che si pronuncia nel merito di un procedimento penale di adottare, di propria iniziativa o su proposta dell’imputato, una qualificazione giuridica dei fatti contestati diversa da quella inizialmente adottata dal pubblico ministero, purché tale giudice abbia tempestivamente informato l’imputato della nuova qualificazione giuridica prospettata, in un momento e in condizioni che gli hanno consentito di predisporre efficacemente la propria difesa, e abbia quindi offerto a tale persona la possibilità di esercitare i diritti della difesa in modo concreto ed effettivo in relazione alla nuova qualificazione così adottata. In sostanza, secondo la Corte, la circostanza che un giudice di merito decida di riqualificare il reato, senza intervento in tale senso del pubblico ministero, indica che tale giudice considera che i fatti contestati potrebbero, se accertati, corrispondere a tale nuova qualificazione, e non che detto giudice abbia già preso posizione sulla colpevolezza dell’imputato, sicché il dubbio sull’imparzialità del giudice risulta privo di fondamento. Allo stesso modo, per quanto concerne il dubbio circa la violazione del diritto dell’imputato a non autoincriminarsi, la Corte riteneva che il fatto che l’imputato proponga una nuova qualificazione giuridica dei fatti che gli sono stati contestati non implica, di per sé, che tale persona riconosca la propria colpevolezza in relazione alla nuova qualificazione. In ogni caso, chiosava la Corte, nessuna norma del diritto dell’Unione vieta ad un imputato di ammettere di avere commesso un reato.  

[16] Conclusioni dell’avvocato generale Tamara Capeta nella causa C-175/22 del 25.5.2023, in Curia.eu.

[17] Si vedano i punti da 55 a 76 delle conclusioni dell’avvocato generale Tamara Capeta, che si proveranno a riassumere nel testo.

[18] Il Considerando 41 della direttiva enuncia il principio che la stessa rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti dalla CDFUE. Il Considerando 42 precisa che le disposizioni della direttiva che corrispondono ai diritti garantiti dalla CEDU dovrebbero essere interpretate e applicata in modo coerente rispetto a tali diritti, come interpretati dalla Corte EDU.

[19] Vedi Considerando 1, 3 e 4.

[20] Corte di Giustizia UE, 13.6.2019, Moro, C-646/17, punto 53.

[21] Corte di Giustizia UE, 12.2.2020, Kolev, C-794/18, punti 48 e 49; Corte di Giustizia UE, 14.1.2021, UC e TD, C-769/19, punti da 47 a 49; Corte di Giustizia UE, 21.10.2021, ZX, C-282/20, punto 35.

[22] Corte di Giustizia UE, 14.5.2020, Staatsanwaltschaft Offenburg, C-615/18, punto 72.

[23] Corte di Giustizia UE, 12.2.2020, Kolev, C-704/18, punti 44, 54 e 55; Corte di Giustizia UE, 21.10.2021, ZX, C-282/20, punti 36-38.

[24] Corte di Giustizia UE, 13.6.2019, Moro, C-646/17, punti 51, 53 e 55.

[25] Vedi conclusioni dell’avvocato generale Michael Bobek presentate in data 5.2.2019 nella causa C-646/17, in particolare punti 69-72, consultabili sul sito Curia.eu.

[26] Conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot presentate in data 7.5.2015 nella causa C-216/14 consultabili sul sito Curia.eu.

[27] Corte di Giustizia UE, 24.6.2019, Poplawski, C-573/17, punti 57, 58 e 61; Corte di Giustizia UE, 21.10.2021, ZX, C-282/20, punti 39-41. Pertanto, il giudice dovrebbe disapplicare il comma 1 dell’art. 521 c.p.p. e, quindi, dovrebbe fare applicazione delle sole norme riguardanti le modifiche fattuali dell’imputazione, estendendole anche alle modifiche in iure.

[28] Cui hanno fatto seguito le sentenze n. 20/2019 e n. 63/2019.