1. Con decreto del 20 dicembre 2021 il GIP di Agrigento ha disposto, accogliendo la richiesta avanzata dal Pubblico Ministero, l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Carola Rackete, accusata di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare (art. 12, commi 1 e 3 lett. a) T.U. imm.) e di rifiuto di obbedienza a nave da guerra (art. 1099 cod. nav.) in relazione a condotte realizzate, in qualità di comandante della nave Sea Watch 3, nelle acque territoriali antistanti all’isola di Lampedusa il 29 giugno 2019.
Si conclude così la nota e controversa vicenda, che in ragione della sua genesi (lo sbarco forzoso a Lampedusa seguito dall’arresto della comandante) era diventata uno dei simboli della stagione della criminalizzazione dei soccorsi in mare, e che, tuttavia, in ragione dei suoi successivi sviluppi giudiziari (il diniego della convalida dell’arresto da parte del GIP e della Corte di Cassazione), ed ora anche del suo epilogo in senso favorevole all’indagata, si avvia a diventare un punto di riferimento per il superamento, almeno sul piano dei principi di diritto, di quella stessa, tormentata, stagione.
2. Prima di illustrare le ragioni alla base del provvedimento di archiviazione, conviene richiamare sinteticamente i principali snodi attraverso i quali si è articolata la vicenda oggetto d’esame.
Il 29 giugno 2019, in qualità di comandante della nave Sea Watch 3, di proprietà dell’ONG Sea Watch, l’indagata aveva condotto in Italia 53 cittadini stranieri privi di validi documenti di ingresso, dopo averli tratti in salvo in acque internazionali rientranti nella zona SAR libica. Lo sbarco era avvenuto contravvenendo i reiterati ordini di alt imposti da una motovedetta della Guardia di Finanza ed entrando in collisione con la stessa durante le ultime fasi dell’attracco. Nell’immediatezza dei fatti Rackete era stata tratta in arresto per i delitti di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.).
Con ordinanza del 2 luglio 2019, tuttavia, il GIP di Agrigento aveva negato la convalida l’arresto e respinto la richiesta di applicazione del divieto di dimora nella provincia. L’ordinanza era stata successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, che, con sentenza del 16 gennaio 2020, aveva respinto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento avverso il diniego di convalida dell’arresto. I giudici di legittimità avevano in particolare ritenuto la fattispecie ex art. 337 c.p. scriminata dall’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p., in combinato disposto con i rilevanti strumenti di diritto internazionale ratificati dall’Italia) e quella ex art. 1100 cod. nav. insussistente per difetto della qualifica di “nave da guerra” in capo alla motovedetta della G.d.F. intervenuta. Anche alla luce di tale giudicato pre-cautelare, la Procura di Agrigento aveva chiesto ed ottenuto l’archiviazione per entrambi i capi di imputazione.
Il provvedimento di archiviazione qui pubblicato si riferisce – come già anticipato nell’incipit – alle accuse rivolte a Rackete per profili diversi della medesima vicenda, segnatamente il trasporto sul suolo italiano di stranieri senza documenti di ingresso, qualificato dalla Procura agrigentina come favoreggiamento dell’immigrazione irregolare aggravato dal coinvolgimento di più di cinque migranti (art. 12, commi 1 e 3 lett. a) T.U. imm.); e la violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali impartito dalla motovedetta della Guardia di Finanza sulla base di un provvedimento ministeriale di interdizione navale adottato ai sensi del decreto-legge n. 53/2019 (c.d. Decreto sicurezza-bis, oggi abrogato), condotta a sua volta qualificata come rifiuto di obbedienza a nave da guerra (art. 1099 cod. nav.).
3. Con riferimento al delitto di favoreggiamento aggravato, il GIP ha ritenuto operante la scriminante di dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), integrata dalle norme di diritto internazionale che disciplinano gli obblighi di soccorso in mare gravanti sia sugli Stati sia sui comandanti delle navi.
Posto che il decreto di archiviazione non contiene un’analitica ricostruzione del rilevante quadro normativo, sul punto occorre fare riferimento richiesta della Procura, anch’essa qui pubblicata e richiamata nell’incipit del provvedimento in esame. Il Pubblico Ministero aveva sostenuto che la comandante avesse agito (oltre che in stato di necessità ex art. 54 c.p., profilo sul quale il GIP non si è tuttavia espresso) nell’adempimento di un dovere discendente dai seguenti strumenti di diritto internazionale, tutti ratificati dall’Italia: i) la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (nota anche come Convenzione di Montego Bay o UNCLOS - United Nations Convention on the Law of the Sea), nella parte in cui impone agli Stati di “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera (…) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita (…)” (art. 98, par. 1), nonché in quella in cui pone in capo agli Stati costieri un obbligo di reciproca collaborazione ai fini del soccorso in mare (art. 98, par. 2); ii) la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (nota anche come SOLAS - Safety Of Life At Sea), che obbliga “il comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazioni da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza” (Cap. V, Regolamento 33); iii) la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo del 1979 (nota anche come Convenzione di Amburgo o SAR - Search And Rescue), che obbliga gli Stati a “garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare (…) senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Cap. 2.1.10), nonché a “fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro (Capitolo 1.3.2)”.
Alla luce della disciplina qui succintamente richiamata, la Procura aveva rilevato l’esistenza di “un obbligo di salvataggio in mare della vita umana, proveniente da una consuetudine marittima risalente nel tempo, che (…) riguarda sia i comandanti delle navi sia gli stessi Stati contraenti”; obbligo alla luce del quale “ai sensi del primo comma dell’art. 51 c.p., di conseguenza, non potrà essere chiamato a rispondere del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina il comandante dell’imbarcazione che adempia ai doveri di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare e di successivo trasporto dei naufraghi verso la terraferma, imposti dalle predette fonti normative”.
Una volta chiarito che la conduzione dei naufraghi sulla terraferma costituisce parte integrante dell’obbligo di soccorso, e dunque anche elemento essenziale del suo pieno adempimento da parte del comandante, il GIP di Agrigento si è confrontato con la spinosa questione relativa ai criteri di individuazione del luogo di sbarco, che ai sensi della precitata Convenzione di Amburgo deve potersi qualificare come “luogo sicuro” (POS - Place Of Safety), ossia – in base alle linee guida dell’International Maritime Organisation, espressamente citate dalla richiesta di archiviazione – un luogo nel quale siano garantiti il diritto alla vita, la soddisfazione delle necessità umane fondamentali e, nel caso in cui i naufraghi siano rifugiati o richiedenti asilo, l’accesso alle procedure di protezione internazionale.
Il decreto di archiviazione chiarisce – facendo proprie le statuizioni di cui alla sentenza della Corte di Cassazione sul diniego di convalida dell’arresto – che tali non potevano considerarsi né il porto di Tripoli, in quanto, come evidenziato anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, “migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti presenti in Libia versano in condizioni di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture ed a trattamenti disumani e degradante in violazione dei loro diritti umani”; né la nave soccorritrice, se non temporaneamente e fintantoché i diritti fondamentali possano essere garantiti a bordo, condizioni non sussistenti nel caso di specie “considerata la presenza a bordo, per diversi giorni, di persone particolarmente vulnerabili tra le quali donne anche in stato di gravidanza, sei minori di cui due neonati, migranti con ustioni da carburante, soggetti con sospetta tubercolosi”. A queste considerazioni la Procura aveva aggiunto, nella richiesta di archiviazione integralmente richiamata dal GIP, quelle che giustificavano la scelta del comandante di non dirigersi né verso Malta (considerato, tra l’altro, che l’isola non ha ancora ratificato gli emendamenti alle convenzioni SAR e SOLAS sugli obblighi di cooperazione tra gli Stati e che nel caso di specie aveva espressamente negato l’indicazione di un porto alla Sea Watch 3), né verso la Tunisia (Stato che non ha mai dichiarato una propria area di SAR e che si sottrae sistematicamente alle richieste di coordinamento di operazioni di salvataggio e concessione di un porto).
Soprattutto, sempre a proposito dei criteri di individuazione del POS, la stessa Procura aveva rimarcato, facendo proprie le Raccomandazioni emanate dalla Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa nel 2019[1], che “sebbene il coordinamento delle operazioni spetti agli RCC [ossia i Rescue Coordination Centers facenti capo agli Stati, n.d.a.] anche i capitani delle navi hanno un ruolo cruciale durante le fasi decisionali dell’intera operazione di salvataggio: sono loro, infatti, ad avere una visione d’insieme della situazione a bordo, incluse le condizioni delle persone soccorse, nonché dei fattori esterni, quali in particolare le condizioni metereologiche e la capacità dell’imbarcazione di portare a termine l’operazione in sicurezza. Essi godono pertanto di un margine di discrezionalità nel prendere qualunque decisione che, secondo il loro apprezzamento professionale, risulta necessaria alla tutela della vita mana. Le stesse linee guida dell’IMO [ossia l’International Maritime Organisation, n.d.a.] prescrivono al comandante di sorvegliare affinché le persone non vengano sbarcate in luoghi dove la loro incolumità possa essere nuovamente minacciata. È per questo che si raccomanda agli Stati non solo di istruire i comandanti al fine di consentire il raggiungimento di un porto sicuro (…) ma anche di rispettare la loro eventuale decisione di non condurre i migranti in Libia o in ogni altro luogo insicuro”.
Nel caso di specie, il porto di Lampedusa non poteva non considerarsi il luogo sicuro dove portare a termine l’operazione di soccorso, la sua identificazione da parte della comandante essendo scaturita da valutazioni improntate ad una ragionevole ponderazione di tutte le circostanze rilevanti nella prospettiva di massimizzare la tutela della vita umana e minimizzare i rischi per le persone coinvolte, tenuto anche conto dell’assenza di praticabili alternative prospettate dagli Stati costieri. L’attracco della Sea Watch 3 e lo sbarco dei naufraghi, in conclusione, avevano rappresentato il tassello finale di un intervento da considerarsi, nel suo insieme, oggetto di un dovere a carico della comandante, con conseguente efficacia scriminante della contestata fattispecie ex art. 12 T.U. imm.
4. Con riferimento alla fattispecie di rifiuto di obbedienza a nave da guerra (art. 1099 cod. nav.), giova anzitutto ricordare come la sua contestazione a Rackete si fondasse sulla trasgressione dell’ordine di non entrare nelle acque territoriali impartito dalla Guardia di Finanza sulla base di un decreto ministeriale a sua volta adottato ai sensi del d.l. 14 giugno 2019, n. 53 (conv. con modif. in legge 8 agosto 2019, n. 77), c.d. Decreto sicurezza-bis. Quest’ultimo – oggi abrogato dal d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, conv. con modif. in legge 18 dicembre 2020, n. 173, c.d. Decreto Lamorgese (sul quale v. anche infra) – era stato varato allo scopo di dotare di una base legale (e di un presidio sanzionatorio) la c.d. “politica dei porti chiusi”, ossia le misure ministeriali volte a limitare il trasporto sul territorio italiano di migranti soccorsi in acque internazionali[2]. In particolare, modificando l’art. 11 del Testo Unico immigrazione, il Decreto sicurezza-bis aveva conferito al Ministro dell’Interno – di concerto con i Ministri della difesa e dei trasporti, e informato il Presidente del Consiglio – il potere di emanare provvedimenti volti a vietare o limitare l’ingresso, il transito o la permanenza nelle acque territoriali di navi (escluse quelle militari o in servizio governativo non commerciale), in presenza di due ordini di presupposti alternativi: i) “motivi di ordine e sicurezza pubblica”; ii) concretizzazione delle condizioni di cui all’art. 19, comma 2, lett. g) della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, norma che a sua volta individua, quale ipotesi di passaggio non inoffensivo (o “pregiudizievole”) di nave straniera nelle acque territoriali, il caso in cui tale nave effettui “il carico o lo scarico di (…) persone in violazione delle leggi di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Per completezza giova ricordare che lo stesso Decreto sicurezza-bis, intervenendo altresì sull’art. 12 T.U. imm. aveva dotato tali provvedimenti ministeriali di un apparato sanzionatorio di carattere (almeno formalmente) amministrativo, prevedendo per i trasgressori la sanzione pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro, oltre alla confisca dell’imbarcazione in caso di reiterazione della condotta; sanzioni che, peraltro, erano state fortemente inasprite in sede di conversione, intervenuta successivamente ai fatti oggetto d’esame, allo scopo di rafforzarne la portata deterrente, che proprio il “caso Rackete” aveva evidentemente messo in discussione.
Nel giorni in cui la nave Sea Watch 3 sostava in prossimità delle acque italiane, veniva raggiunta da un provvedimento ministeriale che – come si apprende ancora una volta dalla richiesta di archiviazione – ne vietava l’ingresso sulla base di ragioni attinenti ad entrambi i presupposti individuati dal Decreto sicurezza-bis, ossia tanto la violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, quanto i motivi di ordine e sicurezza pubblica, alla luce dei “rischi di ingresso in territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, in quanto trattasi nella totalità di cittadini stranieri privi di documenti di identità e la cui nazionalità è presunta”.
Tutto ciò premesso, occorre ora volgere lo sguardo agli argomenti posti dal GIP alla base dell’archiviazione del reato di cui all’art. 1099 cod. nav., la cui contestazione – come già ricordato – si fondava sulla trasgressione del divieto di ingresso impartito dalla Guardia di Finanza sulla base del provvedimento ministeriale poc’anzi richiamato. Al riguardo, il GIP ha evidenziato come detto provvedimento ministeriale fosse carente in punto di “individuazione di specifiche ed individualizzanti situazione di ordine e sicurezza pubblica che avrebbero potuto far ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi”; e che il carattere “offensivo” del passaggio non potesse essere desunto, “in assenza di una specifica attività istruttoria (carente nel caso di specie), sul solo presupposto che i naufraghi fossero tutti stranieri senza documento”. Si tratta di passaggi assai sintetici, nei quali peraltro le valutazioni in ordine al difetto dei due presupposti del provvedimento ministeriale – quello attinente ai motivi di sicurezza e ordine pubblico, da un lato, e quello relativo alla violazione della normativa sull’immigrazione, dall’altro – tendono a sovrapporsi e confondersi. Anche in questo caso, peraltro, la lettura del decreto di archiviazione. alla luce della richiesta della Procura di Agrigento restituisce un quadro più chiaro. Il Pubblico Ministero, infatti, oltre ad evidenziare come l’eventuale pericolosità dei naufraghi non potesse essere inferita dal mero fatto che si trattava di stranieri senza documenti, così escludendo la ricorrenza della condizione sub i) di cui al Decreto sicurezza-bis, aveva osservato come la conformità delle condotte di Rackete alla normativa internazionale sui soccorsi in mare, già evidenziata per escludere la sussistenza della fattispecie di favoreggiamento, venisse in rilievo anche per escludere la ricorrenza della condizione sub ii) del medesimo Decreto sicurezza-bis, non potendo affermarsi che lo sbarco fosse avvenuto contra legem.
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5. Il decreto di archiviazione esaminato si inserisce nel solco di un orientamento che appare in via di consolidamento presso le Procure e gli Uffici GIP siciliani[3], fondato su principi di diritto che hanno ricevuto l’autorevole sigillo della Corte di Cassazione, intervenuta, come già ricordato, in sede di giudizio precautelare proprio sul caso Rackete. Tale pronuncia, infatti, pure avendo ad oggetto la diversa questione della legittimità dell’arresto in flagranza per i delitti di resistenza a pubblico ufficiale e resistenza o violenza contro nave da guerra, ha offerto una ricostruzione del dovere di soccorso in mare che – come già osservato su questa Rivista – ne ha resa agevolmente estendibile la portata scriminante anche alle condotte astrattamente riconducibili alla diversa fattispecie incriminatrice di cui all’art. 12 T.U. imm., stante il rango superiore dei diritti fondamentali alla vita ed all’integrità fisica rispetto al bene giuridico dell’ordine pubblico connesso all’integrità delle frontiere.
Inizia dunque a diradarsi quell’aura di sospetto che da ormai qualche anno circonda gli interventi delle ONG attive nel Mediterraneo centrale. Sospetti in parte alimentati da suggestive narrazioni, ad oggi peraltro rivelatesi prive di riscontri fattuali (si pensi alla teoria del pull factor o alle presunte connivenze tra trafficanti e soccorritori[4]); in parte forse anche figli di autentici dubbi in ordine ai contenuti ed alla portata delle regole che disciplinano lo svolgimento dei soccorsi in mare, soprattutto con riguardo alla fase del trasferimento dei naufraghi sulla terraferma. Ora che almeno i nodi di ordine giuridico risultano in larga parte sciolti, appare lecito auspicare il compimento di ulteriori passi avanti verso il definitivo superamento della stagione della “criminalizzazione della solidarietà” nei confronti dei naufraghi sans papiers. Sorge spontaneo, in particolare, chiedersi se, quanto meno di fronte alle ipotesi prive di profili di complessità, abbia davvero senso continuare a considerare alla stregua di notizia di reato, ex art. 12 T.U. imm., il trasporto sul suolo italiano di stranieri privi di documenti trovati in condizione di distress in alto mare; o se invece si possa più semplicemente qualificare il contenuto delle informative aventi ad oggetto tali vicende come “atti non costituenti notizie di reato”, da iscriversi pertanto a modello 45. Quest’ultima opzione appare a maggior ragione meritevole di considerazione tenuto conto che, a ben vedere, una volta esclusa l’“illegalità” del trasporto in Italia, a venire meno è l’elemento di illiceità speciale che connota la fattispecie di cui all’art. 12 T.U. imm. (la quale incrimina, appunto, il compimento di “atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso” di stranieri nel territorio dello Stato) e conseguentemente, a rigore, il fatto dovrebbe considerarsi atipico prima ancora che antigiuridico[5].
Una svolta in questo senso, anzitutto, consentirebbe di destinare maggiori risorse, umane ed economiche, alla repressione delle autentiche forme di sfruttamento dei migranti da parte della criminalità organizzata, anziché a procedimenti verosimilmente destinati all’archiviazione. In secondo luogo, una più attenta selezione delle autentiche notitiae criminis potrebbe ridurre il “chilling effect” che la prospettiva di essere sottoposti ad indagini per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare è in grado di produrre sui comandanti delle navi private e commerciali che percorrono il Mediterraneo centrale. Non può infatti escludersi che, di fronte alle fatiscenti imbarcazioni che trasportano migranti irregolari, il timore di essere anche solo sottoposti a procedimento per un reato che prevede l’arresto in flagranza, la confisca dell’imbarcazione e severe pene di natura pecuniaria e detentiva possa agire da controspinta psicologica rispetto all’adempimento del dovere di soccorso. Infine, lo sfoltimento delle cronache sulle indagini nei confronti dei soccorritori potrebbe indebolire le speculazioni sulla presunta pericolosità delle attività di search and rescue per l’integrità delle frontiere italiane e contestualmente sottrarre consenso a iniziative di ordine legislativo (si pensi ancora ai provvedimenti di interdizione navale introdotti dal Decreto sicurezza-bis e confermati dal successivo Decreto Lamorgese[6]) e amministrativo (si pensi alle penetranti e talvolta pretestuose ispezioni alle quali vengono sottoposte le imbarcazioni delle ONG) i cui unici effetti tangibili si misurano in termini di intralcio allo svolgimento di attività finalizzate alla tutela della vita umana in mare.
6. Il decreto di archiviazione in commento, letto congiuntamente alla richiesta di archiviazione, merita attenzione anche per quanto attiene alle statuizioni relative alla fattispecie di rifiuto di obbedienza a nave da guerra (art. 1099 cod. nav).
Al riguardo occorre anzitutto evidenziare che tanto il GIP quanto la Procura si concentrano pressoché esclusivamente sulla mancanza, nel caso di specie, dei presupposti per l’adozione del provvedimento ministeriale di interdizione navale sul quale si era basato l’alt ordinato dalla Guardia di Finanza trasgredito dalla comandante; ma non esplicitano le ragioni in virtù delle quali l’illegittimità del suddetto provvedimento abbia determinato, quale ricaduta penale, l’insussistenza del reato ex art. 1099 cod. nav. È possibile che entrambi abbiano ritenuto che l’illegittimità del provvedimento abbia invalidato, a cascata, l’ordine della G.d.F., con conseguente venire meno anche dell’obbligo di rispettarlo in capo al comandante della nave; ma il silenzio serbato sul punto non consente di formulare conclusioni certe. Si tratta di una lacuna argomentativa difficilmente spiegabile, specie se si considera che alla stessa conclusione – l’archiviazione per infondatezza della notitia criminis – si sarebbe potuti pervenire, anche qui, in virtù della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere. Considerato, infatti, che la Corte di Cassazione aveva ritenuto scriminato il reato di resistenza a pubblico ufficiale persino a fronte dello scontro tra la Sea Watch 3 e la motovedetta della G.d.F., a fortiori – ci pare – la stessa esimente avrebbe potuto essere estesa anche ad una fattispecie avente ad oggetto la mera disobbedienza all’ordine di fermare i motori.
Al netto di tali perplessità, appare comunque di particolare interesse l’argomento del GIP secondo cui, nel caso di specie, l’illegittimità del provvedimento ministeriale adottato sulla base del Decreto sicurezza-bis derivava dal difetto di istruttoria in ordine al presupposto dei “motivi di ordine e sicurezza pubblica”. Si tratta di un principio condivisibile, in quanto improntato al rifiuto di presunzioni di pericolosità fondate sul mero status di irregolarità amministrativa dello straniero, e soprattutto suscettibile di future applicazioni con riferimento ai provvedimenti ministeriali che potrebbero essere emanati sulla base del c.d. Decreto Lamorgese (intervenuto, come già ricordato, in sostituzione del Decreto sicurezza-bis). La novella, infatti, ha mantenuto in capo al Ministro dell’Interno il potere di iniziativa per l’emanazione di provvedimenti di interdizione navale in presenza di “motivi di ordine e sicurezza pubblica”, prevedendo nei confronti dei trasgressori una sanzione non più amministrativa bensì penale (reclusione fino a due anni e multa da 10.000 a 50.000 euro). Ebbene, seguendo l’impostazione del GIP di Agrigento, l’applicazione di tale fattispecie dovrà essere subordinata all’accertamento incideter tantum della legittimità del provvedimento presupposto (anche) in punto di sussistenza di una specifica attività istruttoria finalizzata all’accertamento dei motivi di ordine e sicurezza pubblica, non sostituibile da arbitrarie presunzioni di pericolosità da parte dell’autorità amministrativa.
[1] Si tratta della Raccomandazione "Vite salvate. Diritti protetti. Colmare le lacune in materia di protezione dei rifugiati e migranti nel Mediterraneo", 2019, p. 29.
[2] Per un inquadramento delle novità introdotte dal Decreto sicurezza-bis, sia consentito rinviare a S. Zirulia, Decreto sicurezza-bis: una riforma è urgente (benché l’arma sia ormai spuntata), in Annuario ADiM. Raccolta di Scritti di Diritto dell’Immigrazione, 2020, 115 ss.
[3] Tra i più recenti provvedimenti di cui ha dato notizia la stampa, si vedano: la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal Tribunale di Ragusa il 4 novembre 2020 nei confronti del comandante e del capo missione della nave Open Arms dell’omonima ONG; il decreto di archiviazione emesso dal GIP di Agrigento il 4 dicembre 2020 a favore del capo missione e comandante della nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans; il decreto di archiviazione emesso dal GIP di Agrigento il 6 ottobre 2021 a favore di un altro comandante della Sea Watch.
[4] Per una confutazione dell’argomento “pull factor”, v. Cusumano E., Villa M., Sea Rescue NGOs: a Pull Factor of Irregular Migration?, Policy Brief, European University Institute, Issue 2019/22, November 2019; per una confutazione della teoria delle “consegne concordate” tra trafficanti e soccorritori, v. lo studio pubblicato da Forensic Architecture (Goldsmiths University of London) in www.blamingtherescuers.org/iuventa.
[5] La tesi del difetto di tipicità ex art. 12 T.U. imm. delle condotte di search and rescue a favore di stranieri irregolari è stata sostenuta, con accenti diversi, nei seguenti saggi: S. Bernardi, I (possibili) profili penalistici delle attività di ricerca e soccorso in mare, in Diritto penale contemporaneo – Rivista trimestrale, 2018, pp. 138-139; A. Spena, Smuggling umanitario e scriminanti, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2019, p. 1902; C. Pitea, S. Zirulia, ‘Friends, not Foes’: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in Quaderni di SIDIBlog 2019, p. 74 ss.
[6] Per un inquadramento delle novità introdotte dal c.d. Decreto Lamorgese, v. G. Mentasti, L’ennesimo “Decreto immigrazione-sicurezza” (d.l. 21 ottobre 2020, n. 130): modifiche al codice penale e altre novità, in questa Rivista, 23 ottobre 2020; nonché, volendo, S. Zirulia, Il diritto penale nel “Decreto Lamorgese”: nuove norme, vecchie politiche criminali, in Diritto penale e processo, n. 5/2021, p. 568 ss.