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20 Febbraio 2020


Pena accessoria illegale nei giudicati di condanna per bancarotta fraudolenta: la Cassazione (a sezione semplice) ammette la rideterminazione discrezionale in fase esecutiva

Cass., Sez. I, sent. 3 dicembre 2019 (dep. 27 gennaio 2020), n. 3290, Pres. Mazzei, Est. Boni, ric. Di Leva



1. Con la decisione in commento la Cassazione riconosce il potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la durata della pena accessoria di cui all’art. 216, ultimo comma, l. fall. che sia stata applicata a seguito di condanna per bancarotta fraudolenta diventata definitiva prima della sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018.

In forza di quest’ultima pronuncia e dell’intervento di poco successivo da parte delle Sezioni unite, dunque, attraverso l’incidente di esecuzione potrà chiedersi che la pena accessoria, inflitta nella misura fissa di dieci anni ai sensi della norma rivelatasi incostituzionale, sia ora commisurata all’interno della nuova cornice edittale sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p., non essendo d’ostacolo la circostanza che tale intervento implichi l’esercizio di discrezionalità da parte del giudice.

 

2. Origine della questione si rinviene appunto nella declaratoria di illegittimità che nel 2018 ha investito la norma della legge fallimentare (art. 216 co. 4) che per i delitti di bancarotta fraudolenta (patrimoniale o documentale) prevede le pene accessorie aggiuntive della «inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale» e della «incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». Nella sentenza n. 222, la Corte, sul presupposto che l’originaria rigida predeterminazione legislativa («per la durata di anni dieci») rendesse impossibile soddisfare l’esigenza, costituzionalmente imposta, di individualizzare e modulare caso per caso la pena (artt. 3, 27 co. 1 e 3 Cost.), superato un proprio precedente contrario ha ritenuto di poter rimediare direttamente a tale vulnus individuando in dieci anni non più una comminatoria fissa, bensì il massimo edittale[1].

La pronuncia di incostituzionalità ha posto la giurisprudenza ordinaria di fronte a un duplice problema.

2.1. In prima battuta, guardando (principalmente) al futuro, si è trattato di stabilire il criterio sulla base del quale il giudice della cognizione, nei processi pendenti o da instaurare, debba commisurare la pena accessoria, astrattamente applicabile «fino a dieci anni».

Il relativo contrasto è stato prontamente composto già nel 2019 dalle Sezioni unite Suraci[2]: con una decisione di portata generale, estendibile a tutte le pene accessorie temporanee di durata non fissa, la Cassazione ha escluso, contro l’orientamento fino ad allora prevalente, che in ipotesi del genere ricorrano i presupposti per applicare l’art. 37 c.p. – il quale avrebbe imposto la parificazione della pena accessoria alla pena principale – e ha invece valorizzato, oltre il dispositivo, le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, per affermare la necessità che il giudice eserciti i propri poteri di commisurazione in concreto ex art. 133 c.p. – unica soluzione reputata idonea a scongiurare il rischio di automatismi sanzionatori anche indiretti.

Sul piano pratico, ciò non preclude in via assoluta che l’esercizio della discrezionalità sanzionatoria possa condurre a risultati equivalenti a quelli prodotti dall’adesione all’indirizzo alternativo, favorevole all’operatività dell’art. 37. Occorre tuttavia considerare, da un lato, che il riconoscimento di un’autonoma e pregnante funzione di prevenzione speciale negativa alle pene accessorie – ulteriore dato condiviso dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite – potrà tradursi nella loro legittima applicazione in una misura temporale maggiore rispetto alla pena principale concretamente inflitta[3]; dall’altro, come avremo modo di vedere meglio anche nel caso in esame, che il nuovo assetto grava il giudice di un preciso onere motivazionale, il cui adempimento rende possibile valutare il rispetto, nell’attività di commisurazione, dei principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

 

2.2. Volgendo l’attenzione al passato, invece, come è stato osservato in sede di primo commento alla pronuncia delle Sezioni unite[4], la declaratoria di illegittimità induceva a interrogarsi circa la sorte delle condanne passate in giudicato con cui era stata applicata automaticamente una pena accessoria pari a dieci anni sulla base della previgente formulazione dell’art. 216 l. fall.

Su tale questione, esorbitante l’oggetto della sentenza Suraci, si esprime la Cassazione con la decisione in esame – redatta dal medesimo estensore –, fornendo una soluzione che risulta in linea con la posizione già espressa per problemi analoghi dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito di una consolidata riflessione sul tema della cedevolezza del giudicato a fronte di una c.d. pena illegale, ma che si presentata come parzialmente innovativa in relazione alle pene accessorie.

 

3. Nel caso di specie il ricorrente, condannato a due anni di reclusione per bancarotta fraudolenta con sentenza diventata irrevocabile nel 2015, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale si rivolgeva alla Corte di appello di Milano in funzione di giudice dell’esecuzione per vedersi rideterminata la durata delle pene accessorie interdittive e inabilitative inflittegli in misura decennale.

Contro il provvedimento di diniego proponeva allora ricorso per cassazione, censurando che nonostante l’evoluzione sopra descritta, pure richiamata dalla Corte territoriale, quest’ultima si fosse limitata a ritenere ancora congrua l’originaria entità delle pene accessorie, senza compiere però una effettiva valutazione in concreto.

 

4. Sebbene consapevole che precipuo oggetto di contestazione sono i criteri adottati nella nuova commisurazione, la Cassazione ritiene di dover comunque svolgere più generali considerazioni sull’ammissibilità e sui limiti del potere del giudice dell’esecuzione, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma attinente al trattamento sanzionatorio, di incidere sul giudicato e in particolare sulle statuizioni relative alle pene accessorie.

Il fondamento di tale potere, osserva la Cassazione, si rinviene nel principio espresso dall’art. 136 Cost. e specificato dalla l. cost. 87/1953, art. 30, che nel ribadire l’impossibilità di dare applicazione a norma illegittima dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa declaratoria (co. 3) considera espressamente l’ipotesi in cui «in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna» (co. 4). Di questa espressione la giurisprudenza ha dato una interpretazione estensiva per affermare l’efficacia retroattiva delle decisioni della Corte aventi ad oggetto tutte le disposizioni penali sostanziali, non solo qualora si tratti di norme incriminatrici – le uniche per cui l’art. 673 c.p.p. testualmente ammette la revoca della sentenza di condanna – ma anche di norme che stabiliscono il trattamento punitivo del fatto: comune è infatti l’esigenza che l’illegalità della pena, sopravvenuta rispetto alla sentenza definitiva di condanna, determini la cessazione del rapporto esecutivo eventualmente ancora in atto.

 

5. Ricorda quindi la Cassazione come l’applicabilità di tale principio anche alle norme che prevedono pene accessorie sia stata espressamente sancita dalle Sezioni unite nella sentenza Basile del 2014[5], quale argomento per ammettere che il giudice dell’esecuzione sia legittimato a eliminare la statuizione con cui in fase di cognizione fosse stata erroneamente applicata una pena accessoria non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali.

In quella occasione, tuttavia, le stesse Sezioni unite individuavano un limite a tale intervento nel principio ricavabile dall’art. 183 disp. att. c.p.p., il quale consente al giudice dell’esecuzione di integrare la sentenza di condanna con l’applicazione di una pena accessoria erroneamente omessa dal giudice della cognizione solo quando questa sia «predeterminata dalla legge nella specie e nella durata»: così, anche la correzione della pena illegale dovrebbe arrestarsi in mancanza della medesima condizione ed essere quindi esclusa – in particolare – rispetto a quelle pene accessorie per cui commisurazione residui un qualche margine di valutazione discrezionale da parte del giudice.

Questa lettura produceva almeno due conseguenze in relazione alle pene accessorie comminate tramite previsione di una cornice edittale o di un limite temporale massimo: da un lato, per ciò che concerneva più direttamente la questione rimessa alle Sezioni unite, precludeva interventi manipolativi da parte del giudice dell’esecuzione sulla relativa statuizione coperta da giudicato; dall’altro, come messo in luce dalla giurisprudenza successiva, imponeva al giudice della cognizione di procedere alla loro commisurazione secondo il criterio automatico di cui all’art. 37 c.p.

Quest’ultimo risultato applicativo, come visto, è poi stato superato dalla sentenza Suraci, che si è fatta carico di confutare il passaggio logico intermedio, imperniato sulla possibilità di qualificare le pene accessorie temporanee non fisse come pene di durata “non determinata dalla legge” (presupposto di operatività dell’art. 37).

La sentenza in esame perviene ora a una diversa soluzione anche sul primo versante, proponendosi espressamente di rivisitare, più a monte, uno degli argomenti centrali della sentenza Basile, vale a dire l’incompatibilità tra potere di intervento sul giudicato ed esercizio di discrezionalità da parte del giudice dell’esecuzione.

 

6. A tal fine, la Cassazione (pp. 4-7) richiama l’ampia elaborazione maturata in seno alla stessa Suprema Corte a proposito dell’ipotesi in cui la declaratoria di incostituzionalità investa norme che in vario modo incidono sull’entità delle pene principali.

Quali principi di riferimento vengono individuati quelli enunciati dalle Sezioni unite nella sentenza Gatto del 2014[6], in cui si è affermato in termini generali che le sentenze della Corte costituzionale debbano avere applicazione retroattiva, prevalendo sul giudicato di condanna, non soltanto nel caso in cui comportino la riduzione dell’area del penalmente rilevante, ma altresì qualora, dichiarata illegittima una norma diversa da quella incriminatrice, producano l’effetto di mitigare il trattamento sanzionatorio.

In entrambi i casi, infatti, l’intangibilità del giudicato, giustificata dai valori della certezza dei rapporti giuridici e della definitività della posizione individuale rispetto al potere punitivo dello Stato, recede a fronte della necessità di garantire che la privazione di libertà personale sia conforme ai parametri costituzionali non solo al momento della sua inflizione, ma anche per l’intero arco della fase esecutiva.

Per soddisfare questa esigenza, nel caso in cui all’esito della declaratoria di illegittimità diventi applicabile una disciplina punitiva meno severa di quella in vigore al momento del fatto, è compito del giudice dell’esecuzione, adito ex art. 666 c.p., rideterminare (“adeguare”) la pena inflitta nel vigore della norma viziata, tenendo conto del mutato quadro sanzionatorio – e ciò «anche se la nuova decisione da assumere non sia a contenuto predeterminato, dovendo farsi riferimento a penetranti poteri di accertamento e di valutazione». Poteri di cognizione che, ricorda la Cassazione, hanno trovato avallo in termini assai lati dalla stessa Corte costituzionale, che nella sent. 210 del 2013 «ha richiamato come in fase esecutiva possa esercitarsi il sindacato sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo, ma anche la sua modifica o il suo superamento».

Quanto ai limiti della rideterminazione, in base a ciò che emerge dalla rassegna della sentenza in esame, essi consisterebbero unicamente nell’esaurimento della fase esecutiva (pena integralmente espiata o estinta) e nell’incompatibilità della nuova valutazione con l’apprezzamento delle circostanze di fatto già operato dal giudice della cognizione.

I principi esposti sono stati formulati dalla sentenza Gatto a proposito della incostituzionalità del divieto, ex art. 69 co. 4 c.p., di prevalenza della (allora) attenuante della lieve entità nei delitti in materia di stupefacenti sulla recidiva reiterata (sent. 251/2012), ma, come detto, hanno trovato numerose applicazioni nella giurisprudenza di legittimità, in corrispondenza di plurimi interventi della Corte costituzionale su norme rilevanti per la commisurazione della pena principale: tra queste, la Cassazione menziona quelle connesse alla declaratoria di illegittimità della previsione dell’aggravante della “clandestinità” ex art. 61 n. 11-bis c.p. (sent. 249/2010), dell’equiparazione a fini sanzionatori tra droghe “pesanti” e “leggere”, con reviviscenza, per queste ultime, della più favorevole cornice edittale preesistente (sent. 32/2014), fino a quella, più recente, della previsione per le droghe “pesanti” della pena minima di otto anni di reclusione (sent. 40/2019)[7].

A dimostrazione della cogenza del principio che vieta di eseguire pene illegali la Cassazione richiama in particolare il precedente costituito dalla sentenza delle Sezioni unite Jazouli[8], che ha ammesso la rideterminazione anche per i casi in cui la pena (principale) concretamente applicata con la sentenza passata in giudicato pure rientri nei limiti edittali risultanti dalla successiva declaratoria di illegittimità (quella relativa, nel caso di specie, alla l. Fini-Giovanardi); e anche in queste ipotesi l’adeguamento della pena comunque non potrà seguire criteri di tipo «aritmetico-proporzionale», dati dal rapporto numerico tra le due cornici considerate, ma dovrà costituire l’esercizio di un potere di valutazione discrezionale, supportato da una «congrua motivazione».

 

7. Le coordinate interpretative così ricostruite, osserva la Cassazione, devono essere mantenute ferme nel risolvere la specifica questione sollevata con il ricorso in esame (pp. 7-9).

Le affinità con le situazioni oggetto dell’orientamento ormai tralaticio sopra riportato si colgono, come accennato, su un duplice fronte: da un lato, si è in presenza di una pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale (n. 222/2018) che può tradursi in un più favorevole trattamento sanzionatorio per il condannato (pena interdittiva e inabilitativa «fino a dieci anni», anziché «per la durata [fissa] di dieci anni»); dall’altro, in forza del principio di diritto delle Sezioni unite Suraci, alla (ri)determinazione della pena entro tale massimo il giudice, tanto in sede di cognizione quanto, eventualmente, di esecuzione, è tenuto a procedere tramite potere discrezionale esercitato secondo i criteri ex art. 133 c.p.

L’unica differenza rispetto ai casi consueti affrontati dalla giurisprudenza si coglie nel fatto che a essere illegale è appunto una pena accessoria, e non principale.

Tuttavia – argomenta la Cassazione – non per questo viene meno il principio che impone che la legalità del «trattamento punitivo [sia] oggetto di costante verifica in tutto il corso del procedimento», non potendosi la potestà punitiva dello Stato esplicare, sotto nessun aspetto, in contrasto con i parametri legali; né possono sacrificarsi le sottostanti, identiche esigenze «di salvaguardia dei diritti individuali e di adeguamento […] a declaratorie di incostituzionalità».

Ciò posto, allora, la doverosità di un intervento di rideterminazione del quantum di durata della sanzione in seguito alla modifica degli estremi edittali deriva, anche per le pene accessorie, dalla necessità «di garantire la proporzione tra [nuova] previsione normativa e risposta punitiva concreta».

Tale conclusione viene ulteriormente supportata, in positivo, individuando un appiglio normativo nel disposto dell’art. 676 c.p.p., che stando al dato testuale attribuisce al giudice dell’esecuzione una generale competenza «a decidere […] in ordine alle pene accessorie», senza ulteriori specifiche.

Ma la Cassazione si preoccupa anche di depotenziare il riferimento all’art. 183 disp. att. c.p.p., dotato di un peso significativo nel ragionamento condotto, con esiti opposti, dalle citate Sezioni unite Basile: secondo la sentenza in esame, lo spazio ridotto che la norma riconosce al potere correttivo del giudice dell’esecuzione si giustifica in ragione degli effetti sfavorevoli che il tipo di intervento dalla medesima contemplato andrebbe a produrre (l’aggiunta di una pena accessoria erroneamente omessa nella sentenza di condanna); il limite della “pena predeterminata per specie e durata” non avrebbe però motivo di sussistere nei casi la nuova disciplina applicabile a seguito di declaratoria di incostituzionalità consentirebbe di rimodulare la pena accessoria in misura più favorevole rispetto alla sentenza di condanna definitiva.

L’argomentazione della Cassazione si chiude quindi con il seguente principio di diritto: «È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall’art. 216 ult. comma l. fall., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni».

 

8. Se, come detto, nella specifica vicenda processuale l’ammissibilità dell’intervento del giudice dell’esecuzione non era controversa, ciò che il ricorrente critica e che la Cassazione censura (pp. 8-9), annullando con rinvio l’ordinanza, è invece il concreto esercizio del potere di rideterminazione.

Se correttamente inteso, infatti, il richiamo ai principi delle Sezioni unite Suraci non legittima il giudice (in sede di cognizione o di esecuzione) a stabilire una pena accessoria di qualsiasi entità, ancorché ricompresa nella nuova cornice edittale. Superato il principio di simmetria di cui all’art. 37 c.p., a seguito di rideterminazione la durata della pena accessoria – dotata di autonoma funzione – potrebbe essere maggiore di quella della pena principale e, in astratto, finanche di durata decennale, come accadeva nel regime previgente; tuttavia, chiarise la sentenza in esame, un simile risultato richiede un adeguato «supporto giustificativo», compatibile (“non del tutto sperequato”) rispetto all’apprezzamento della gravità della fattispecie concreta contenuto nel giudicato di condanna, a pena di incongruenza della motivazione – vizio appunto riscontrato nel provvedimento impugnato, che a fronte di una valutazione di complessiva lieve entità del fatto (reclusione nel minimo edittale, ulteriormente ridotta in forza delle attenuanti generiche) aveva comunque confermato la durata delle pene accessorie nella misura di dieci anni.

 

* * *

 

9. Prima di evidenziare alcuni spunti di riflessione offerti dalla sentenza in esame, può essere utile fissare in modo sintetico i passaggi argomentativi essenziali con cui la Cassazione risolve, al di là dell’inquadramento generale del tema affrontato, la specifica questione di diritto.

Data per acquisita l’elaborazione in materia di pena illegale, la possibilità di rideterminare anche in via discrezionale le pene accessorie poggia sul seguente ragionamento:

i) il principio che vieta di dare esecuzione a un trattamento sanzionatorio rivelatosi, anche in seguito alla condanna definitiva, contrastante con parametri costituzionali è dotato di massima latitudine, estendendosi a tutte le manifestazioni del potere punitivo (pene principali e pene accessorie);

ii) una volta ammessa la necessità di ripristinare la legalità, anche incidendo sul giudicato, i principi che regolano la legittimità costituzionale delle pene (principali e accessorie) impongono altresì un intervento che garantisca proporzionalità e individualizzazione del (nuovo) trattamento sanzionatorio, per prevenire ulteriori lesioni di valori fondamentali;

iii) alla piena parificazione, sotto questo profilo, tra pene principali e pene accessorie non osta l’art. 183 disp. att. c.p.p., poiché il relativo disposto, apparentemente contrario alla rideterminazione discrezionale, si riferisce a una situazione affatto diversa.

La conclusione cui giunge la Cassazione è indubbiamente lineare e in ultima analisi rappresenta, più che l’enunciazione di un nuovo principio, un ulteriore passo nell’opera di precisazione del campo applicativo di un principio – quello di legalità delle pene in rapporto al giudicato – tanto generale quanto consolidato[9]. Il carattere di novità della questione, decisa con una soluzione che alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale in materia poteva forsi dirsi prevedibile, dipende infatti dalla peculiarità di una sentenza della Corte costituzionale che ha per la prima volta dichiarato illegittima una pena accessoria.

 

10. Come è facile osservare, allora, il vero ostacolo verso un esito per il resto scontato era semmai costituito dalla sentenza delle Sezioni unite Basile del 2014 e, in definitiva, dal riferimento all’art. 183 disp. att., da cui si sarebbe potuto ricavare un limite all’intervento del giudice dell’esecuzione su pene accessorie di durata “non predeterminata” dalla legge.

L’argomento sostanziale impiegato dalla Cassazione riposa sulla possibilità di distinguere tra ipotesi di correzione con effetti peggiorativi per il condannato – per le quali trova applicazione l’art. 183 – e ipotesi di rideterminazione in melius (come quella di specie), in relazione alle quali, difettandone la ratio, la norma citata non opera.

È interessante notare come questa scelta interpretativa consenta di risparmiare due aggravamenti procedurali che la Cassazione non menziona espressamente ma ai quali, ci pare, non avrebbe altrimenti potuto sottrarsi: da un lato, sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, nella parte in cui impedisce la rideterminazione discrezionale, per violazione (si può ipotizzare) dei parametri da cui discende la tendenziale illegittimità di vincoli rigidi alla commisurazione proporzionata e individualizzata delle pene (artt. 3 e 27 Cost.); dall’altro lato, in alternativa e forse in via prioritaria, rimettere la decisione del ricorso nuovamente alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 618 co. 1-bis c.p.p., sul presupposto della non condivisibilità del principio di diritto da queste affermato – prospettiva cui la lettura della motivazione sembra in un primo momento dare adito, almeno laddove (§ 1.4. del “considerato in diritto”) la Cassazione manifesta testualmente l’intenzione di sottoporre a «rivisitazione» la soluzione offerta dalle Sezioni unite nel 2014.

Che l’ipotesi non sia peregrina lo dimostra il fatto che la disposizione processuale introdotta dalla riforma Orlando (l. 103/2017) era stata invocata, proprio con riferimento alla sentenza Basile, dalla V Sezione della Cassazione – in aggiunta al contrasto giurisprudenziale insorto dopo la sent. 222/2018 – per motivare la rimessione del ricorso poi deciso dalle Sezioni unite Suraci[10]; e se ciò è avvenuto in relazione a una questione, quale l’applicazione dell’art. 37 c.p. alle pene accessorie non fisse, solo indirettamente (per quanto autorevolmente) avallata dalla sentenza Basile, a fortiori dovrebbe opinarsi per una soluzione che interferisce in modo diretto con il tema oggetto dello stesso principio di diritto formulato dalle Sezioni unite, concernente appunto «limiti e ambito» dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione in caso di pene accessorie applicate «extra o contra legem»[11].

Sotto questo profilo si può allora apprezzare il valore strategico di marcare la differenza tra il caso in esame e quelli ritenuti riconducibili all’art. 183: è noto che, come insegnano la storia del diritto e l’approccio comparatistico, il distinguishing rappresenta la tecnica per derogare alla regola dello stare decisis[12] – regola di cui si avverte un’eco nella previsione, ad opera della riforma del 2017, della vincolatività (sia pure relativa) di quel precedente qualificato costituito da una decisione delle Sezioni unite[13].

Nondimeno, qualche perplessità può sorgere a proposito della effettiva correttezza della scelta operata dalla Cassazione, alla luce del fatto che nel ragionamento della sentenza Basile (§ 6.2 del “considerato in diritto”) l’art. 183 è individuato solo come riferimento normativo da cui è «ricavabile», in ottica sistematica, un più generale principio di incompatibilità tra valutazione discrezionale e intervento in executivis a fronte di una pena accessoria illegale, avvalorato peraltro dall’asserita esistenza di «limitati poteri» del giudice dell’esecuzione: tutti argomenti contro i quali, al di là dell’interpretazione della singola norma, si scontrano frontalmente le motivazioni della pronuncia in esame. Né, a ben guardare, è sufficiente il richiamo alla circostanza che l’intervento al quale la Cassazione ritiene oggi legittimato il giudice dell’esecuzione abbia effetti favorevoli per il condannato: le stesse Sezioni unite avevano infatti riportato, a sostegno della conclusione incondizionatamente negativa, alcuni precedenti di legittimità (a sezioni semplici) in cui era stato negata la possibilità di richiedere dopo il giudicato il riconoscimento di un’attenuante diventata applicabile dopo una sentenza della Corte costituzionale[14], così dimostrando di ritenere anche ipotesi del genere escluse dai poteri di rideterminazione in sede esecutiva. Anche da questo punto di vista, dunque, il principio affermato nella sentenza in esame sembra determinare una netta contrapposizione, anziché una semplice distinzione, rispetto a quanto stabilito dalle Sezioni unite nel 2014.

Peraltro, una nuova decisione delle Sezioni unite potrebbe essere l’occasione propizia per ripristinare, in modo rispettoso dell’art. 618 co. 1-bis, la simmetria di interpretazioni dell’art. 183 disp. att. e dell’art. 37 c.p., prima sancita dalla sentenza Basile e poi scardinata dalla sentenza Suraci. Nelle motivazioni di quest’ultima già si legge (§ 8.2) che le due norme citate «pongono […] la medesima problematica della individuazione di cosa si intenda per determinazione legale della durata della pena accessoria». Ora, dimostrato che per pene accessorie “non determinate dalla legge” non possono intendersi le pene per cui la legge stabilisce minimo e massimo o solo un massimo, alle quali pertanto si è ritenuto inapplicabile l’art. 37, analoga lettura dovrebbe darsi del (quasi) identico sintagma contenuto nell’art. 183. Già questa semplice osservazione consentirebbe di ritenere non più pertinente il principale riferimento normativo individuato dalla sentenza Basile per escludere interventi in sede esecutiva che implichino esercizio di discrezionalità, con il vantaggio di poter richiamare a tal fine i numerosi argomenti spesi dalle Sezioni unite nel 2019.

 

11. Tenendo invece ferma la scelta di campo operata dalla Cassazione, d’altra parte, ci pare che le ragioni che inducono a escludere l’applicazione dell’art. 183 disp. att. a situazioni del genere di quelle oggetto della decisione in esame dovrebbe essere ulteriori e più radicali rispetto al criterio fondato sulla natura (favorevole o sfavorevole) degli effetti dell’intervento del giudice dell’esecuzione.

La profonda differenza tra le fattispecie di riferimento sembra risiedere nella seguente circostanza: mentre l’art. 183 disciplina ipotesi in cui il giudice della cognizione ha errato nell’applicare una pena accessoria prevista dalla legge, le ipotesi per le quali si pone il problema oggi affrontato dalla Cassazione si ricollegano alla caducazione della norma sulla base della quale è stata correttamente applicata una pena accessoria. In altri termini: nel primo caso la pena (accessoria) è illegale a causa di un errore del giudice contestuale alla sua irrogazione, nel secondo caso lo diventa, o meglio si rivela tale, a seguito della sopravvenuta declaratoria di illegittimità della relativa previsione normativa.

Questo profilo differenziale potrebbe essere sfruttato per sostenere, con maggiore persuasività, la necessità di distinguere la classe di casi in esame da quelli cui risulta applicabile il principio enunciato dalla sentenza Basile.

In tale occasione, infatti, la questione rimessa alle Sezioni unite concerneva i margini di intervento sul giudicato a seguito di applicazione di una pena accessoria erroneamente determinata in modo difforme rispetto al quadro normativo vigente al momento della sentenza di condanna (in quel caso, interdizione perpetua anziché temporanea dai pubblici uffici).

Vero che nelle motivazioni le Sezioni unite hanno fatto ampio riferimento ai principi in tema di pena illegale, ma tale nozione viene utilizzata nella sua accezione più ampia, valida per ogni «pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato»[15]; inoltre, sebbene tra le altre venga citata la sentenza Gatto, molte delle pronunce richiamate attengono a casi in cui con la sentenza di condanna era stata applicata una pena non prevista dalla legge o eccedente per specie o quantità il limite di legge[16].

Così, nonostante il principio di diritto sia stato formulato in termini generali, ci sarebbe più di una ragione per sostenere che le Sezioni unite allora non abbiano tenuto presente la distinzione tra “errore del giudice” e “illegittimità della norma punitiva”, e che pertanto l’assimilazione della seconda ipotesi alla prima possa essere esclusa tramite una adeguata opera di perimetrazione, senza necessità di attivare il meccanismo di cui all’art. 618 co. 1-bis c.p.p.

La distinzione, netta sul piano strutturale, trova peraltro riconoscimento nel diritto vivente, che vi ricollega almeno un profilo di emersione in termini di disciplina.

Il riferimento è alla – complessa – questione della sorte delle condanne per “inosservanza dell’ordine di esibizione del documento di identità e del permesso di soggiorno” diventate definitive dopo che il legislatore nel 2009 aveva così ridescritto la condotta tipica di cui all’art. 6 co. 3 t.u. immigrazione e prima della sentenza con cui nel 2012 le Sezioni unite hanno stabilito che l’effetto della novella era stato quello di abolire il reato se commesso da uno straniero “irregolare” (impossibilitato a esibire, per definizione, il permesso di soggiorno).

Escluso dalla Corte costituzionale (sent. 230/2012) che il principio di retroattività favorevole possa operare anche per il mutamento giurisprudenziale in bonam partem, un risultato sostanzialmente analogo – cioè la revoca dei giudicati di condanna formatisi nel periodo intermedio – è stato raggiunto nel 2015 dalle Sezioni unite Mraidi[17]: ciò è stato possibile non tanto inquadrando la vicenda nel contesto delle sopravvenienze normative, ma facendo leva sulla circostanza per cui l’abolitio si era già verificata in forza della modifica legislativa del 2009 e, pertanto, le successive sentenze di condanna avrebbero applicato una pena “illegale”.

È in relazione a tali ipotesi – corrispondenti, mutatis mutandis, al primo tra i casi sopra prospettati – che le Sezioni unite hanno richiamato il precedente costituito dalla sentenza Basile per affermare che la revoca della sentenza è tuttavia subordinata alla condizione che la condanna sia frutto di un errore percettivo (il giudice non si è pronunciato sull’abolitio) e non meramente valutativo (il giudice ha esaminato ed escluso, anche implicitamente, l’evenienza dell’abolitio)[18]. Un limite come detto identico a quello stabilito dalle Sezioni unite nel 2014[19], e che invece non si ritrova in nessuna delle pronunce relative a casi di sopravvenuta illegittimità della norma punitiva: per quanto sia ricorrente l’affermazione secondo cui i poteri del giudice dell’esecuzione non devono porsi in contrasto con l’accertamento delle circostanze di fatto contenuto nella sentenza, non si è mai pensato di escludere la revoca della condanna (o la rideterminazione della pena) per la circostanza che il giudice della cognizione avesse preso in considerazione, per escluderla, la possibile illegittimità della norma incriminatrice (o sul trattamento sanzionatorio), successivamente dichiarata dalla Corte costituzionale.

Un ulteriore motivo, da un lato, per tenere distinte le due ipotesi e, dall’altro, per convincersi del fatto che il principio affermato dalla sentenza Basile sia da circoscrivere ai soli casi di illegalità della pena per errore del giudice.

 

12. Aver chiarito tale differenza consente di evitare sovrapposizioni con un’altra distinzione, ben più marcata, sulla quale pure si registra una qualche ambiguità nella sentenza in esame.

Nella parte delle motivazioni in cui svolge alcuni tra i passaggi più qualificanti e originali del proprio ragionamento (v. lett. a)-b) supra), la Cassazione in almeno due punti sembra porre sullo stesso piano, menzionandoli in alternativa, la situazione che si genera, come nel caso di specie, a seguito di declaratoria di incostituzionalità, e lo scenario conseguente a una modifica della disciplina sanzionatoria da parte del legislatore.

In particolare: dapprima, nell’affermare la cogenza del principio di legalità della pena anche nel «segmento esecutivo» fase esecutiva, se ne ricollega l’operatività, in termini generali, «al sopravvenuto mutamento normativo o a declaratorie di incostituzionalità»; subito dopo, argomentando dal principio di proporzionalità delle pene, si predica la necessità di un intervento di rideterminazione «da attuare in via postuma rispetto al giudicato già formatosi» quando gli estremi edittali siano «modificati per intervento del legislatore o del giudice costituzionale» (p. 7).

Sebbene entrambi i fenomeni – declaratoria di illegittimità della legge e modifica legislativa – costituiscano sopravvenienze, e non si possa quindi parlare di “errore del giudice”, la differenza tra loro è netta, come hanno efficacemente spiegato proprio le Sezioni unite Gatto, citate come riferimento dalla sentenza in esame.

Per limitarci ai tratti essenziali[20], si può ricordare come l’incostituzionalità della legge denota una «patologia normativa» che «inficia fin dall’origine» la disposizione impugnata, e che quindi giustifica, in seguito alla relativa declaratoria da parte della Corte costituzionale, «che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere [la norma] a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto», salvo che si tratti di rapporto ormai esaurito. Un ragionamento del genere, osserviamo peraltro, dovrebbe valere non solo per l’illegittimità costituzionale, ma anche per l’illegittimità convenzionale ed eurounitaria (nonché per la disapplicazione eurounitaria), trattandosi pur sempre di ipotesi di contrasto tra la legge e una fonte sovraordinata[21].

Diversamente, la modifica legislativa, sia che si traduca nell’abolizione del reato o in una più favorevole disciplina di natura sanzionatoria, appartiene alla fisiologia dell’ordinamento, derivando «da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto, fondata sull’opportunità politica e sociale, operata dal Parlamento».

Tali differenze presentano, secondo la prospettiva tracciata dalla sentenza Gatto, precisi riflessivi applicativi, in particolare sul piano dell’efficacia intertemporale: schematizzando ancora la questione, può dirsi che mentre la sopravvenienza legislativa soggiace alle regole di cui all’art. 2 c.p., la declaratoria di illegittimità «impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo».

Le deroghe all’art. 2 si colgono principalmente sotto due aspetti: da un lato, il riscontro di un vizio di incostituzionalità porterebbe a escludere l’applicazione della lex mitior (perfino se abolitrice del reato) ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, dovendo il principio di retroattività favorevole cedere alla inefficacia ex tunc della norma invalida[22]; dall’altro lato, la declaratoria di incostituzionalità in bonam partem, attinendo alla validità e non alla vigenza delle norme, presenta una maggiore forza demolitoria e per questo, anche se investe una disposizione penale sostanziale diversa dalla norma incriminatrice, la sua efficacia retroattiva non incontra il limite del giudicato posto dall’art. 2 co. 4 per la legge più favorevole (non abolitrice)[23].

Si segnala tuttavia come talora siano affiorate in giurisprudenza decisioni il cui contenuto sembra doversi leggere come il risultato, tra gli altri motivi, di una non perfetta distinzione tra le due tipologie di sopravvenienze.

Sul primo versante si richiama l’ancora recente sentenza Augussori[24], in cui la Cassazione ha confermato la statuizione del g.u.p. che in applicazione dell’art. 2 co. 2 c.p. aveva disposto il non luogo a procedere nei confronti di numerosi soggetti, appartenenti alle c.d. camice verdi, imputati per un reato – associazione di carattere militare con scopi politici (art. 1 l. 43/1948) – successivamente abolito da una norma poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sent. 5/2014).

Sul versante che qui più rileva, invece, nell’ambito della nutrita serie di pronunce delle Sezioni unite tese a valorizzare il principio di legalità della pena si registra una sentenza del 2015 (Della Fazia)[25] che ha formulato un singolare principio di diritto: pur riconoscendo in astratto la validità della distinzione tra declaratoria di illegittimità e intervento del legislatore, ha poi ammesso che gli effetti di una sopravvenuta modifica normativa favorevole possano essere rilevati d’ufficio dal giudice di legittimità anche in presenza di un ricorso inammissibile – in presenza del quale, secondo costante giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi già formato il giudicato (c.d. sostanziale) con le relative preclusioni.

Senza poter approfondire le ragioni di quest’ultimo arresto[26], ci si limita a osservare che la sentenza in commento, a causa delle espressioni utilizzate, sembra ancora alludere a una comune disciplina per i due tipi di sopravvenienze considerati: un’equiparazione che, qualora trascendesse il piano retorico per riversarsi su quello applicativo, trasformandosi da clausola di stile in principio di diritto, si porrebbe senza dubbio in contrasto – oltre che con l’art. 2 co. 4 c.p. – con la consolidata elaborazione della giurisprudenza, anche costituzionale, circa i limiti di retroattività della lex mitior[27].

 

13. In conclusione, una rapida riflessione sulle ipotesi per cui non è ammesso chiedere la rideterminazione della pena accessoria da parte del giudice dell’esecuzione invocando la sent. 222/2018 della Corte costituzionale.

Come da altri già osservato in sede di commento alla sentenza Suraci[28], tale possibilità dovrebbe ritenersi esclusa in relazione alle condanne divenute definitive dopo la declaratoria di illegittimità, quando l’intervento in fase esecutiva sia invocato dal ricorrente non per rimuovere una pena illegale, ma come strumento per ottenere che la pena interdittiva o inabilitativa applicata dal giudice della cognizione ai sensi dell’art. 37 c.p. sia commisurata in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.

In altri termini, con l’incidente di esecuzione può farsi valere la sopravvenienza costituita dalla pronuncia di incostituzionalità ma non l’ulteriore tipo di sopravvenienza rappresentanto da un mutamento nella giurisprudenza della Cassazione, quand’anche a Sezioni unite, posto che il formante giudiziario nell’ordinamento nazionale non assurge a fonte del diritto (si rinvia alle considerazioni espresse dalla Corte costituzionale nella citata sent. 230/2012).

Occorre tuttavia una precisazione: tale principio opera sul presupposto che il mutamento giurisprudenziale di cui si tratta possa condurre a un risultato più favorevole per il condannato, ma si è visto che, in concreto, il nuovo criterio di commisurazione individuato dalle Sezioni unite Suraci potrà produrre un effetto meno favorevole, legittimando l’applicazione di pene accessorie di durata maggiore della pena principale inflitta.

Ragionando in tale ottica, è evidente che un problema non si pone rispetto alle condanne definitive (passate in giudicato dopo la sentenza della Corte costituzionale e prima della sentenza delle Sezioni unite), dal momento che probabilmente il condannato non avrà alcun interesse a proporre incidente di esecuzione essendosi visto applicare, in forza dell’orientamento prevalente, il più mite regime di cui all’art. 37 c.p.

Richiederebbe invece un qualche approfondimento la posizione di coloro (i) che hanno commesso il fatto tra la declaratoria di illegittimità e la pronuncia delle Sezioni unite nonché, per dare maggiore senso pratico al problema, di coloro (ii) che, avendo commesso il fatto prima della sentenza della Corte costituzionale, non erano stati ancora giudicati in via definitiva prima della sentenza Suraci e che pertanto, intervenuto l’overruling delle Sezioni unite, sono stati (o saranno) condannati con applicazione di una pena accessoria determinata in base all’art. 133 e non all’art. 37 c.p.

Un insieme di ipotesi ritagliato in modo piuttosto tortuoso, ma per le quali, a rigore, fatte le opportune distinzioni, ci si dovrebbe interrogare circa (i) la prevedibilità, al momento del fatto, di un simile mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale in malam partem (cui, come noto, attribuisce rilevanza la giurisprudenza convenzionale ai sensi dell’art. 7 CEDU)[29] e circa (ii) i margini di tutela dell’affidamento maturato nel corso del processo quando, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale era diventata applicabile, secondo il diritto vivente, una disciplina più favorevole di quella indicata dalle Sezioni unite (se, in altri termini, possa valere una logica di tutela del “sospiro di sollievo”[30] analoga a quella che fonda l’art. 2 co. 4 c.p.).

 

 

[1] Corte cost., sent. 5 dicembre 2018, n. 222, Pres. Lattanzi, Red. Viganò, con nota di A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e ‘rime obbligate’: costituzionalmente illegittime le pene accessorie nei delitti di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2018.

[2] Cass., Sez. un., sent. 28 febbraio 2019 (dep. 3 luglio 2019), n. 28910, Pres. Carcano, Est. Boni, imp. Suraci e altri, con nota di S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell’intervento della Corte costituzionale in materia di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 15 luglio 2019.

[3] Cfr. S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla determinazione delle pene accessorie, cit., par. 11.

[4] Ancora S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla determinazione delle pene accessorie, cit., par. 12.

[5] Cass., Sez. un., sent. 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), n. 6240, Pres. Santacroce, Est. Amoresano, ric. Basile, con nota di I. Manca, Le Sezioni unite ammettono l’intervento in executivis sulla pena accessoria extra o contra legem, purché determinata per legge nella specie e nella durata, in Dir. pen. cont., 8 marzo 2015.

[6] Cass., Sez. un., sent. 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014), n. 42858, Pres. Santacroce, Est. Ippolito, ric. Gatto, con nota di G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, in Dir. pen. cont., 17 ottobre 2014.

[7] A proposito di quest’ultima declaratoria di illegittimità (su cui cfr. C. Bray, Stupefacenti: la Corte costituzionale dichiara sproporzionata la pena minima di otto anni di reclusione per i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le droghe pesanti, in Dir. pen. cont., 18 marzo 2019) è interessante riportare gli estremi delle sentenze di legittimità citate dalla Cassazione, in quanto non massimate: Sez. I, sent. 8 novembre 2019, n. 49104, ric. Hefdi; Sez. I, sent. 20 novembre 2019, n. 51802, ric. Puccinelli).

[8] Cass., Sez. un., sent. 26 febbraio 2015 (dep. 28 luglio 2015), n. 33040, Pres. Santacroce, Est. Fidelbo, ric. Jazouli, consultabile a questo link in Dir. pen. cont., 30 luglio 2015.

[9] Tra le panoramiche generali si veda G. Canzio, Giurisdizione e la esecuzione della pena, in Dir. pen. cont., 26 aprile 2016. Ricostruzioni dell’evoluzione giurisprudenziale avutasi sul tema sono contenute nelle motivazioni delle più recenti sentenze delle Sezioni unite (in particolare la sent. Mraidi, su cui v. infra) e nei relativi commenti dottrinali, citati nelle note di questo contributo.

[10] Cass., Sez. V, ord. 14 dicembre 2018, n. 56458, Pres. Vessichelli, Est. Scotti (consultabile a questo link in Dir. pen. cont., 14 gennaio 2019), § 1 del “considerato in diritto”.

[11] Così testualmente (§ 6 del “considerato in diritto”) le stesse Sezioni unite inquadrano la questione su cui sono chiamate a pronunciarsi. Per un confronto diretto, si riporta per intero il principio di diritto formulato dalla sentenza Basile: «L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purché essa sia determina per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione».

[12] Sia in prospettiva diacronica che sincronica si veda da ultimo M. Taruffo, Note sparse sul precedente giudiziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1, 110 ss.

[14] Il riferimento, contenuto a p. 22 delle motivazioni, è alla sent. 68/2012, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p. nella parte in cui non prevede, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, l’attenuante della lieve entità applicabile, in forza dell’art. 311 c.p.p., ai

[15] Sez. un., sent. Basile, cit., p. 19 delle motivazioni.

[16] Sez. un., sent. Basile, cit., pp. 14 ss. delle motivazioni.

[17] Cass., Sez. un., sent. 29 ottobre 2015 (dep. 23 giugno 2016), n. 26259, Pres. Agrò, Est. Cammino, imp. Mraidi, con nota di V. Pazienza, La “cedevolezza” del giudicato nelle ipotesi di condanna per fatti successivi all’abrogazione della norma incriminatrice, in Dir. pen. cont., 23 novembre 2016.

[18] Sez. un., sent. Mraidi, cit., p. 33 delle motivazioni.

[19] Sez. un., sent. Basile, cit., pp. 19-21 delle motivazioni.

[20] Amplius Sez. un., sent. Gatto, cit., pp. 12 ss. delle motivazioni.

[21] Il superamento del giudicato fondato su norma contraria alla Convenzione è stata riconosciuto all’esito della “saga” che ha interessato i c.d. fratelli minori di Scoppola, e che a seguito della omonima pronuncia della Corte EDU si è snodata attraverso le decisioni della Corte costituzionale (sent. 210/2013) e delle Sezioni unite Ercolano (sent. 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821, Pres. Santacroce, Est. Milo, consultabile a questo link in Dir. pen. cont., 12 maggio 2014).

[22] È una conseguenza non direttamente enunciata dalle Sezioni unite Gatto ma che trova conforto nelle motivazioni della sent. 394/2006 della Corte costituzionale, ove si afferma che «il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto […] può giustificare […] l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole […] solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione».

[23] Su questo invece puntualmente le Sezioni unite Gatto, p. 15 delle motivazioni.

[24] Cass., Sez. I, sent. 22 settembre 2016 (dep. 18 maggio 2017), n. 24834, Pres. Vecchio, Est. Talerico, ind. Augussori e altri, con nota di F. Viganò, Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione, in Dir. pen. cont., 23 ottobre 2017.

[25] Cass., Sez. un., sent. 26 giugno 2015 (dep. 25 novembre 2015), n. 46653, Pres. Santacroce, Est. Brusco, ric. Della Fazia, consultabile a questo link.

[26] Per la contestualizzazione della sentenza Della Fazia rispetto all’evoluzione della giurisprudenza in materia di illegalità sopravvenuta della pena, si vedano la panoramica e le riflessioni di G. Piffer, Successione e incostituzionalità di discipline penali, in Il libro dell’anno del diritto 2017, liberamente consultabile sul sito di Treccani a questo link.

[27] Sul giudicato come limite costituzionalmente e convenzionalmente legittimo alla retroattività della lex mitior si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 236/2011.

[28] Si vedano le condivisibili notazioni di S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla determinazione delle pene accessorie, cit., par. 12.

[29] Sulla portata generale di tale garanzia, al di là della nota vicenda Contrada, cfr. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Giuffrè 2019, p. 115, con riferimenti alla più recente giurisprudenza di legittimità.

[30] L’espressione si deve a F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge più favorevole, in Dir. pen. cont., 6 settembre 2011, p. 18.