Scheda  
03 Maggio 2021


Diffamazione e illegittimità “convenzionale” della pena detentiva: oltre l’aggravante dell’uso della stampa?


Laura Tomasi

Cass., Sez. V, sentenza 17 febbraio 2021 (dep. 14 aprile 2021), n. 13993, Pres. Sabeone, Rel. Riccardi


1. Con la sentenza n. 13993 del 2021, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione «connesso ai mezzi di comunicazione» (in specie, Internet), anche se non commesso nell’ambito di attività giornalistica, sia tendenzialmente incompatibile con l’art. 10 CEDU che sancisce la libertà di espressione, salvo che in caso di discorsi di odio o istigazione alla violenza.

 

2. La vicenda trae origine dalla pubblicazione da parte di un soggetto, poi imputato del delitto di diffamazione ex art. 595 cod. pen., di alcuni post su Facebook, nei quali egli aveva accusato il vice Sindaco di un Comune, tra l’altro, di avere «rovinato un paese», di avere commesso svariate «malefatte» e di avere abusato della propria posizione di appartenente alla Guardia di Finanza per minacciare lo stesso autore della pubblicazione.

L’imputato, assolto in primo grado, era poi stato condannato in appello per diffamazione, e si era visto applicare la pena di quattro mesi di reclusione, con sospensione condizionale. Aveva quindi proposto ricorso per cassazione, deducendo vizi di motivazione (per avere il giudice d’appello riformato la precedente pronuncia assolutoria in difetto di rinnovazione di prove dichiarative decisive e di motivazione c.d. rafforzata) e violazione di legge, in relazione agli artt. 595 cod. pen. e 10 CEDU (per avere il giudice d’appello irrogato una pena detentiva, da ritenersi sproporzionata in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo).

 

3. La Corte di cassazione, disattesi i motivi di ricorso incentrati sui vizi di motivazione – sul rilievo che la riforma della sentenza assolutoria era in realtà fondata su una diversa valutazione degli elementi documentali relativi alla riferibilità dei post all’imputato, ed era adeguatamente motivata – ha accolto invece la censura di violazione di legge, ritenendo sproporzionata, al metro dell’art. 10 CEDU, l’irrogazione della pena detentiva per le condotte diffamatorie di cui si è appena detto.

Per giungere a tale esito, la Cassazione ha anzitutto richiamato la giurisprudenza della Corte EDU relativa alla libertà di espressione dei giornalisti[1], secondo cui, alla luce dell’essenziale funzione della stampa di “cane da guardia” della democrazia, la pur legittima punizione delle condotte diffamatorie poste in essere mediante la stampa deve rispettare il principio di proporzionalità, onde evitare un effetto dissuasivo (chilling effect) rispetto all’attività giornalistica; esigenza che si traduce nella tendenziale incompatibilità con l’art. 10 CEDU dell’applicazione della pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa o soggetta a grazia, salvo che in ipotesi di grave lesione di altri diritti fondamentali, quali i discorsi d’odio o l’incitamento alla violenza (la Corte di cassazione cita la sentenza 17 novembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania [GC], n. 33348/96, nonché le sentenze 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, n. 43612/10 e 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia, n. 22350/13[2]).

La Cassazione, dato conto degli orientamenti di legittimità, più[3] o meno[4] inclini a seguire questa giurisprudenza, ha poi rammentato che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 132 del 2020[5], ha differito al giugno 2021 la decisione di due questioni di legittimità aventi a oggetto gli artt. 595, terzo comma, cod. pen. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), censurati per contrasto gli artt. 117, primo comma, Cost. e 10 CEDU, in quanto comminano – rispettivamente per la diffamazione aggravata dell’uso di stampa, altri mezzi di pubblicità ovvero atto pubblico, e per la diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato – la pena detentiva, in via alternativa (nel primo caso) o cumulativa (nel secondo) rispetto alla pena pecuniaria.

Un provvedimento di rinvio – osserva la Corte di cassazione, citando ampi stralci dell’ordinanza n. 132 – motivato in base all’opportunità di consentire al legislatore un intervento di riforma organica della disciplina della diffamazione, che individui un rinnovato punto di bilanciamento tra libertà di espressione e tutela della reputazione individuale, alla luce sia della giurisprudenza della Corte EDU su diffamazione e pena detentiva, sia dell’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione.

 

4. A questo punto la Cassazione giunge al passaggio centrale della propria motivazione, affermando l’estensibilità della giurisprudenza della Corte EDU anche a condotte diffamatorie commesse «non con il mezzo della stampa, o comunque non nell’esercizio dell’attività giornalistica e del connesso diritto di cronaca e di critica»[6].

La Cassazione riconosce invero che la ratio alla base della ricordata giurisprudenza sovranazionale risiede nella considerazione del «ruolo eminente» della stampa nel funzionamento del sistema democratico. Purtuttavia, essa ritiene che possa predicarsi una generale incompatibilità dell’inflizione della pena detentiva con la libertà di espressione, esercitata anche in ambiti diversi dall’attività giornalistica, alla luce anzitutto di alcune pronunce della Corte EDU (segnatamente, le sentenze 23 aprile 2015, Morice c. Francia [GC] e 8 ottobre 2019, L.P. e Carvalho c. Portogallo) che hanno giudicato sproporzionate e quindi contrarie all’art. 10 CEDU le condanne per diffamazione di avvocati che avevano criticato l’operato di magistrati.

Ad avviso della Corte di cassazione, anche la Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 132 del 2020, avrebbe auspicato una riforma della disciplina della diffamazione non limitata ai profili riconducibili all’attività giornalistica, come si trarrebbe dalla considerazione riservata dal giudice costituzionale al dato della rapidità e permanenza nel tempo della diffusione e amplificazione degli addebiti diffamatori, resa possibile da social networks e motori di ricerca.

Si imporrebbe dunque un’interpretazione convenzionalmente conforme dell’art. 595 cod. pen., volta a escludere l’irrogazione della pena detentiva – ancorché sospesa – in relazione al reato di diffamazione «connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commesso nell’esercizio dell’attività giornalistica», tranne che nei casi di grave lesione di altri diritti fondamentali, quali, ad esempio, i discorsi d’odio o di istigazione alla violenza.

Del resto – osserva conclusivamente la Cassazione – «escludere la pena detentiva – riservandola soltanto ai c.d. discorsi d'odio - alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell'attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell'esercizio dell'attività giornalistica), e, dall'altro, il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell'esercizio dell'attività giornalistica».

Sulla base di questa motivazione, il giudice di legittimità ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, limitatamente all’applicazione della reclusione quale pena per le condotte diffamatorie in specie verificatesi.

 

* * *

 

5. La sentenza n. 13993 del 2021 si inserisce nel filone delle pronunce di legittimità che, in forza di un’interpretazione “convenzionalmente orientata” degli artt. 595 cod. pen. e 13 l. n. 47 del 1948, hanno ritenuto sproporzionata l’irrogazione della pena detentiva per condotte di diffamazione a mezzo stampa, in difetto di circostanze eccezionali, identificate con i discorsi d’odio e l’istigazione alla violenza[7]; essa però estende questo orientamento alle condotte ai delitti di diffamazione «conness[i] ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commess[i] nell’esercizio dell’attività giornalistica».

L’estensione avviene sulla base di tre argomenti: il richiamo alle sentenze Morice c. Francia e L.P. e Carvalho c. Portogallo, in cui la Corte EDU avrebbe affermato i principi della giurisprudenza Cumpănă e Mazăre anche al di fuori dell’attività giornalistica; le indicazioni contenute nell’ordinanza n. 132 del 2020 della Corte costituzionale; la possibile contrarietà all’art. 3 Cost. di un’interpretazione che in sostanza escluda l’applicazione della pena detentiva per le condotte diffamatorie dei giornalisti, ma non per quelle degli altri cittadini.

 

5.1. Quanto al primo argomento, va osservato che la sentenza Morice c. Francia concerne la condanna al pagamento di una pena pecuniaria di un avvocato accusato di diffamazione per avere presentato un esposto al Ministro della giustizia, nel quale criticava in maniera veemente l’operato di due magistrati incaricati dell’istruzione del processo sull’affaire Borrel, nel quale egli era difensore della parte civile. Ivi la Corte EDU ha sottolineato il ruolo cruciale degli avvocati nel funzionamento della giustizia e l’importanza di preservarne l’indipendenza, cui è correlata una particolare tutela della libertà di espressione e ha insistito sulla riconducibilità delle dichiarazioni incriminate a un dibattito pubblico d’interesse generale. È stata inoltre ritenuta sproporzionata non solo l’inflizione della pena (peraltro pecuniaria e non detentiva)[8], ma anche la stessa affermazione di responsabilità penale del ricorrente.

Anche la sentenza L.P. e Carvalho c. Portogallo riguarda la condanna di due avvocati al pagamento di pene pecuniarie, irrogate per diffamazione dei giudici incaricati dell’istruzione di procedimenti nei quali essi svolgevano il ruolo di difensori. Di nuovo, la Corte EDU ha ritenuto sproporzionata non solo l’inflizione della pena pecuniaria ma anche la stessa affermazione di responsabilità dei ricorrenti, e ha inoltre considerato l’effetto dissuasivo delle sanzioni «per la professione di avvocato nel suo insieme».

Si trattava quindi di casi relativi a soggetti appartenenti a una particolare categoria professionale (quella degli avvocati), di cui occorre salvaguardare l’indipendenza, che potrebbe essere compromessa da un effetto dissuasivo sulla libertà di espressione derivante dall’inflizione della pena detentiva per condotte diffamatorie poste in essere nell’esercizio della professione, o comunque nell’ambito di un dibattito di interesse generale sul funzionamento della giustizia. Casi che sembrano diversi da quello oggetto della sentenza n. 13993 della Corte di cassazione, ove l’autore delle condotte diffamatorie era – per quanto è dato cogliere dalla motivazione – un privato cittadino, o comunque una persona che non stava esercitando la professione di avvocato né si poneva in rapporto con un magistrato. Sicché può in realtà dubitarsi che le evocate sentenze della Corte EDU siano pienamente in termini.

 

5.2. Parrebbe poi controvertibile il secondo argomento speso dalla Corte di cassazione a favore dell’applicazione estensiva della giurisprudenza Cumpănă e Mazăre, ossia che la Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 132 del 2020, avrebbe auspicato una rimeditazione dell’uso della pena detentiva in relazione non solo alla diffamazione a mezzo stampa, ma anche alla diffamazione avvenuta mediante social networks.

L’ordinanza n. 132 riguarda, infatti, la compatibilità con gli artt. 117, primo comma, Cost. e 10 CEDU della previsione della pena detentiva per la diffamazione aggravata all’uso della stampa (artt. 595, terzo comma, cod. pen. e 13 l. n. 47 del 1948); la necessità ivi affermata di una complessiva rimeditazione, da parte del legislatore, del bilanciamento tra libertà di espressione e tutela della reputazione individuale muove dalla considerazione del ruolo centrale riconosciuto alla stampa tanto dalla giurisprudenza costituzionale[9], quanto da quella europea[10].

Il riferimento, contenuto nell’ordinanza n. 132, agli «effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet» sembra poi spingere non tanto nella direzione dell’estensione della giurisprudenza Cumpănă e Mazăre della Corte EDU a fattispecie non connesse all’esercizio della professione giornalistica, quanto, all’opposto, verso un’attenta considerazione delle rinnovate e più pregnanti esigenze di tutela della reputazione individuale nell’era dei social networks. Il tutto nel contesto di una pronuncia ove, anzi, il riferimento al «contesto nazionale», alla necessità di proteggere la reputazione individuale da «maliziose» aggressioni, ai «concreti pregiudizi alla […] vita privata, familiare, sociale, professionale, politica» causati dalla diffamazione, sembra lasciare spazio alla possibilità del ricorso alla pena detentiva non solo per sanzionare la condotta diffamatoria che si risolva in un discorso d’odio o un’istigazione alla violenza, ma anche per colpire quelle ipotesi particolarmente gravi di sistematica diffusione di notizie non rispondenti al vero, attuata nella consapevolezza della loro falsità e con il preciso intento di delegittimare una determinata persona assunta a bersaglio[11].

 

5.3. Maggiore consistenza sembra invece rivestire il terzo argomento speso dalla Corte di cassazione a sostegno della propria soluzione “estensiva”, ossia che limitare il ricorso alla pena detentiva alle sole condotte diffamatorie che integrino discorsi d’odio o istigazione alla violenza, ma esclusivamente in relazione a chi esercita l’attività giornalistica, potrebbe porre questioni di compatibilità con l’art. 3 Cost., tanto sotto il profilo della disparità di trattamento, quanto sotto quello della ragionevolezza, in quanto si finirebbe per punire meno gravemente una fattispecie (la diffamazione aggravata dall’uso della stampa) caratterizzata da una maggiore offensività rispetto a quella di diffamazione non commessa con l’uso della stampa.

Si potrebbe in effetti sostenere che l’applicazione di un regime sanzionatorio più favorevole per la diffamazione a mezzo stampa, rispetto alla diffamazione non aggravata, o aggravata da altre circostanze, non sia giustificabile sul piano dell’art. 3 Cost.: da un lato, l’ordinamento riconnette all’uso della stampa una «maggiore pericolosità» delle condotte diffamatorie, testimoniata dalla previsione, oltre che dell’aggravante di cui al terzo comma dell’art. 595 cod. pen., di un’apposita aggravante a effetto speciale, all’art. 13 l. n. 47 del 1948, e riconosciuta dalla stessa giurisprudenza costituzionale, sia pure risalente (sentenza n. 168 del 1982); dall’altro lato il giornalista, per la natura della propria attività e i connessi doveri di deontologia professionale, è un soggetto qualificato, da cui può pretendersi un grado di diligenza maggiore rispetto a quello del quivis de populo nell’esercitare la propria libertà di espressione senza ledere l’onore e la reputazione altrui.

A ben vedere, però, l’argomento potrebbe anche essere rovesciato. Come già ricordato, la giurisprudenza tanto europea, quanto costituzionale[12] riconosce alla stampa un ruolo fondamentale nell’ordinamento democratico: quello di informare e “formare” l’opinione pubblica. Nel settore della stampa, l’importanza della libertà di espressione si collega non solo al diritto di chi esercita la professione giornalistica a informare, ma anche al diritto dei consociati a essere informati, affinché «la […] democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti», per riprendere le parole dell’ordinanza n. 132. Una finalità (contribuire all’informazione dell’opinione pubblica) che risulta grandemente diminuita rispetto ad esternazioni poste in essere da soggetti privati sui social networks. Potrebbe dunque sostenersi che, alla luce del particolare ruolo della stampa nell’ordinamento democratico, l’esigenza di evitare un chilling effect della libertà di espressione, conseguente all’applicazione di pene detentive, si ponga con maggiore pregnanza nei confronti di chi esercita la professione giornalistica, rispetto a chi tale professione non svolge.

L’argomento fondato sull’art. 3 Cost., dunque, è un argomento “bifronte”, sicché resta l’incertezza se sussista un obbligo convenzionale e costituzionale di abolire la pena detentiva per ogni ipotesi di diffamazione, anche realizzata senza l’uso della stampa.

Quel che sembra certo, all’opposto, è l’insussistenza di in obbligo costituzionale di prevedere la pena detentiva (tanto per la diffamazione a mezzo stampa, quanto per le altre forme di diffamazione), in ipotesi diverse dalla propalazione di discorsi d’odio o dall’incitamento alla violenza. Il diritto all’onore e alla reputazione è certo un bene riconducibile al novero dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), ma non pare potersi ricavare dalla Costituzione un obbligo di tutela attraverso la sanzione detentiva. Nella sentenza n. 37 del 2019 – che ha ritenuto legittima la depenalizzazione del reato di ingiuria– la Corte costituzionale ha anzi sostenuto che il diritto all’onore è un «diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale».

Del resto, è un dato di fatto che i vari progetti di legge pendenti in Parlamento e relativi alla riforma della disciplina della diffamazione prevedano l’abolizione della pena detentiva tanto per la diffamazione a mezzo stampa, quanto per le altre ipotesi di diffamazione, anche aggravata.

 

 

 

[1] Su cui v. per tutti A. Gullo, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, Aracne, p. 57 ss.; Id, Art. 595, in T. Padovani (a cura di), Codice penale, Milano, 2019, Giuffrè Francis Lefevre, pp. 3907-3940.

[2] Le altre due pronunce citate (le decisioni di inammissibilità 16 novembre 2004, Norwood c. Regno Unito, n. 23131/03, e 20 febbraio 2007, Pavel Ivanov v. Russia, n. 35222/04) riguardano il diverso tema dei discorsi islamofobi o antisemiti.

[3] Cfr. Cass. pen., Sez. 5, sentenza n. 12203 dell’11/12/2013 – 13/3/2014, relativa alla responsabilità del direttore per omesso controllo sul contenuto di una pubblicazione diffamatoria (art. 57 cod. pen.), secondo cui non si giustifica, al metro della CEDU, l’applicazione della pena detentiva, nemmeno in caso di pubblicazione di una notizia falsa; Cass. pen., Sez. 5, sentenza n. 4298 del 19/11/2015 – 2/2/2016, secondo cui l’esclusione della particolare tenuità del fatto non osta all’applicazione della sola pena pecuniaria, dal momento che, in relazione alle condotte di diffamazione a mezzo stampa, la pena detentiva può essere applicata solo in circostanze eccezionali; Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 38721 del 10/7/2019 – 19/9/2019, che, in fattispecie di diffamazione a mezzo stampa aggravata ex art. 13 l. n. 47 del 1948, ha ritenuto fondato un motivo di ricorso incentrato sull’eccessività della sanzione inflitta (tre mesi di reclusione, pena sospesa), in base alla giurisprudenza della Corte EDU, poi procedendo però alla declaratoria assorbente di estinzione del reato per prescrizione; Cass. Sez. 5, sentenza n. 26509 del 09/7/2020 – 22/9/2020, che richiama l’ordinanza n. 132 del 2020 della Corte costituzionale per affermare che, in relazione al delitto di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena detentiva può essere irrogata solo a fronte di condotte che implicano una istigazione alla violenza ovvero convogliano messaggi d’odio (su quest’ultima pronuncia v. F. Oriana, Diffamazione e pena detentiva: in attesa del legislatore, dalla Cassazione nuovi spunti sul difficile equilibrio fra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione, in questa Rivista, n. 1/2021, pp. 99-111).

[4] Si vedano Cass. Pen., Sez. 5, sentenze n. 41249 del 26/9/2012 – 23/10/2012 e n. 39195 del 26/1/2015 – 28/9/2015 secondo cui non è contraria all’art. 10 CEDU l’inflizione della pena detentiva in caso di diffamazione commessa mediante pubblicazione di una notizia non rispondente al vero, nella piena consapevolezza della sua falsità, configurandosi in tal caso una delle ipotesi eccezionali che legittimano, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il ricorso a tale tipologia di sanzione. In senso analogo Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 6333 del 10/2/2017, secondo cui la giurisprudenza della Corte EDU consentirebbe l’irrogazione della pena detentiva per le condotte diffamatorie denotate da maggiore gravità, desumibile dalla reiterazione di condotte diffamatorie, dalla diffusività della divulgazione, dal tenore delle espressioni usate, dal rilevante danno all’immagine subito dalle persone offese.

[5] Su cui v. M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, in Osservatorio AIC, n. 5/2020, pp 121-139; G. L. Gatta, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo 'schema-Cappato' e passa la palla al Parlamento, rinviando l'udienza di un anno, in questa Rivista, 10 giugno 2020, G.L. Gatta, Corte costituzionale e carcere per i giornalisti; A. Mazzola, Decide che deciderà: la Corte costituzionale torna a adoperare la tecnica inaugurata con il “caso Cappato”, in Consulta online, 3/2020, pp. 545-554; R. Pinardi, La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale inaugurata col caso Cappato, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2020, pp. 103-107; A. Ruggeri, Replicato, seppur in modo più cauto e accorto, alla Consulta lo schema della doppia pronuncia inaugurato in Cappato (nota minima a margine di Corte cost. n. 132 del 2020), in Consulta Online, n. 2/2020, pp. 406-407; M.C. Ubiali, Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva: la Corte costituzionale dà un anno di tempo al Parlamento per trovare un punto di equilibrio tra libertà di espressione e tutela della reputazione individuale, in linea con i principi costituzionali e convenzionali, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 3/2020, pp. 1475-1500.

[6] Da rammentare che la giurisprudenza di legittimità, sulla base di un’interpretazione “evolutiva” della nozione di «stampa» di cui all’art. 1 l. n. 47 del 1948, ha ritenuto applicabili le disposizioni di detta legge anche alle testate giornalistiche telematiche, ma non ad altri mezzi informatici di manifestazione del pensiero quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook: v. Cass. Pen., Sez. U, sentenza n. 31022 del 29/1/2015 – 17/07/2015; Sez. 5, sentenza n. 1275 del 23/10/2018 – 11/1/2019; v. altresì in tema di artt. 595, terzo comma, e 57 cod. pen., Cass. pen., Sez. 5, sentenze n. 16751 del 19/02/2018 – 16/4/2018; n. 12546 del 08/11/2018 – 20/03/2019; n.7220 del 12/1/2021 – 24/2/2021.

[7] V. supra, nota n. 3.

[8] Si tratta di un dato non secondario, in quanto, nella giurisprudenza della Corte EDU, l’imposizione della pena (non detentiva ma) pecuniaria non è considerata ex se illegittima, ma è soggetta a un sindacato di proporzionalità, il cui esito appare sostanzialmente dipendente dalla valutazione della Corte circa la legittimità, al metro della Convenzione, dell’affermazione di responsabilità del giornalista: v. volendo L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione nell'orizzonte della tutela integrata dei diritti fondamentali, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 4/2020, p. 56 ss., a p. 60.

[9] Si legge nell’ordinanza n. 132: «la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico (sentenza n. 1 del 1981), nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: un diritto quest’ultimo «qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti (sentenza n. 112 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 155 del 2002)» (sentenza n. 206 del 2019). Non v’è dubbio pertanto che l’attività giornalistica meriti di essere «salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta» (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere».

[10] Sempre nell’ordinanza n. 132 si rammenta che l’insegnamento della Corte EDU secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia (sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito, paragrafo 39), così che la punizione di condotte lesive dell’altrui reputazione deve avvenire «in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri» (sentenza Cumpănă e Mazăre cit., paragrafo 113).

[11] Sul punto volendo v. L. Tomasi, op. cit., p. 65.

[12] V. supra, note n. 9 e 10.