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27 Gennaio 2021


La Cassazione ritorna sui limiti all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni nell’ambito del “medesimo procedimento”: una parola definitiva, ma non per il futuro

Cass. Sez. V, 17 dicembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021), n. 1757, Pres. Catena, Est. Morosini



1. Esattamente un anno fa, le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza “Cavallo[1], avevano tracciato i confini della previsione di cui all’art. 270, co. I, c.p.p., che – al netto delle (oggi assai ampie, come si dirà) eccezioni – pone il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello nel quale gli stessi sono stati ottenuti. Nel dirimere il contrasto interpretativo sorto sulla nozione di “procedimento diverso”, il massimo organo nomofilattico aveva affermato che questa preclusione non opera rispetto ai reati connessi ex art. 12 c.p.p. a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate, dal momento che in siffatta ipotesi si avrebbe a che fare con un “medesimo procedimento”. Oltre a ciò, la Cassazione aveva però precisato che l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l’accertamento dei reati connessi a quello per il quale sono state disposte non è senza limiti, potendo essere tollerata solo allorquando anche tali reati rientrino, a loro volta, fra quelli elencati dall’art. 266, co. I, c.p.p., cioè fra quelli per i quali il legislatore consente il ricorso a questo mezzo di ricerca della prova[2].

L’apposizione di questo argine all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni per l’accertamento di reati connessi a quello originariamente contestato (e dunque – nell’ottica della Corte – all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito di un unico procedimento) non ha riscosso il consenso della generalità degli interpreti e anzi, nei mesi successivi al deposito della motivazione, numerose sono state le critiche mosse da parte della dottrina[3] e della giurisprudenza[4] alle conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite.

Veicolate da un’articolata memoria del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, tali censure sono giunte fino alla quinta Sezione penale della Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza in epigrafe, ribadisce e difende oggi il principio di diritto elaborato un anno prima dal massimo consesso.

Gli articolati snodi motivazionali della pronuncia offrono peraltro interessanti considerazioni di ampio respiro che trascendono il tema dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Meritano infatti un’autonoma sottolineatura le riflessioni che i giudici di legittimità spendono, in generale, sulla valenza dei principi di diritto affermati dalle Sezioni unite e sulla facoltà di queste ultime di delimitarne gli esatti confini[5].

 

2. Gli argomenti con cui la Procura generale ha tentato di sollecitare un superamento del principio di diritto affermato nella sentenza “Cavallo”, domandando la rimessione della decisione alle Sezioni unite ex art. 618, co. 1-bis, c.p.p., sono essenzialmente quattro. Argomenti, questi, che peraltro si è già avuto occasione di illustrare sulle pagine di questa Rivista, quando si è dato notizia di un’ordinanza con cui il Tribunale di Milano aveva preso le distanze dal decisum del massimo organo nomofilattico[6].

2.1. Per prima cosa, si afferma che la limitazione dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per i soli reati connessi ex art. 12 c.p.p. sarebbe già da sola sufficiente a scongiurare il pericolo che l’esecuzione di intercettazioni risulti oggetto di una “autorizzazione in bianco”, pericolo che il legislatore ha inteso evitare proprio attraverso il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. In altri termini, la libertà e la segretezza delle comunicazioni risulterebbero adeguatamente tutelate per il solo fatto che, a monte, le captazioni debbano essere legittimamente autorizzate per un reato rientrante fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. e che, a valle, i relativi esiti possano essere impiegati non indiscriminatamente, ma soltanto per l’accertamento di reati connessi al primo.

2.2. In secondo luogo, si sostiene che il limite apposto «per via giurisprudenziale»[7] dalle Sezioni unite non sarebbe affatto imposto dalla Carta fondamentale, ma anzi si porrebbe in attrito con altri due principi costituzionali: il principio di non dispersione degli elementi di prova, da un lato, e il principio di uguaglianza, dall’altro lato. Quanto a quest’ultimo profilo, la Procura generale osserva che, differenziando il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno di uno stesso procedimento, non solo si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra i diversi indagati, ma, soprattutto, «si introdurrebbe una vera e propria intima contraddizione di carattere logico-giuridico nel sistema», in quanto «una medesima base probatoria sarebbe al contempo utilizzabile […] e inutilizzabile […] così da rendere il sistema auto-contraddittorio»[8].

2.3. Come terzo argomento si richiama l’attenzione su un recente intervento legislativo in questa materia, e segnatamente sul d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito dalla l. 28 febbraio 2020, n. 7, che ha ridotto la portata del divieto di cui all’art. 270, co. I, c.p.p. Nella sua nuova formulazione, la disposizione da ultimo richiamata prevede che i risultati delle intercettazioni possano essere utilizzati in procedimenti diversi da quello nel quale sono stati ottenuti non solo quando risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, come era prima previsto, ma anche quando «risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento […] dei reati di cui all’art. 266, comma 1». Di fronte al rinnovato quadro normativo, osserva la Procura generale, la soluzione accolta dalle Sezioni unite conduce a una interpretatio abrogans del divieto contenuto nell’art. 270 c.p.p., giacché «la portata della regola di piena utilizzabilità dei risultati all’interno del medesimo procedimento avrebbe la medesima estensione dell’eccezione posta al divieto di utilizzazione in procedimenti diversi, e quest’ultimo risulterebbe, in ultima analisi, privo di portata precettiva». Così ragionando, infatti, il limite della riconducibilità del reato fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. opererebbe «sia per i reati rientranti nel medesimo procedimento, sia per i reati afferenti a diversi procedimenti, con una inammissibile equiparazione di situazioni tra loro differenti»[9].

2.4. Infine, secondo la Procura generale, l’approdo raggiunto con la sentenza “Cavallo” meriterebbe una nuova, più meditata, considerazione anche in ragione dell’eccentricità della regola oggetto di censure rispetto alla questione originariamente rimessa al massimo organo nomofilattico. Le Sezioni unite, infatti, erano state chiamate a prendere posizione sulla nozione di “procedimento diverso” rilevante ex art. 270 c.p.p., ma, nel dirimere il contrasto interpretativo portato alla loro attenzione, avevano compiuto un passo ulteriore, esprimendosi «su una “questione” che non era stata loro devoluta, su un punto che non era rilevante ai fini della “decisione del ricorso”»[10]. Così facendo, il massimo consesso si sarebbe spinto in un territorio estraneo ai temi su cui si erano concentrate le attenzioni della Procura generale, finendo per creare esso stesso un nuovo contrasto interpretativo, posto che la necessaria riconducibilità di tutti i reati del medesimo procedimento fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. risultava perorata solo da isolati precedenti giurisprudenziali.

 

3. La Quinta Sezione della Corte di cassazione, con una motivazione chiara e articolata, replica a ciascuno dei suesposti argomenti, prendendo le mosse proprio dall’ultimo appena illustrato. Il quale, come si accennava (§1 e nota 5), ha fornito l’occasione per interessanti considerazioni di portata generale che travalicano la materia dell’utilizzabilità delle intercettazioni.

3.1. Secondo i giudici di legittimità, la regula juris individuata con la sentenza “Cavallo” e oggetto di censure non può essere considerata alla stregua di un mero obiter dictum – come pure è stato da taluni sostenuto – per almeno due ragioni: da un lato perché le Sezioni unite le hanno dedicato un ampio paragrafo del “considerato in diritto”; dall’altro perché la stessa si è fatta spazio nell’enunciazione del principio di diritto[11].

Tanto premesso, gli ermellini aggiungono che l’autorevolezza del principio di diritto non è inficiata dal fatto che lo sguardo del massimo organo nomofilattico si sia spinto oltre il significato più immediato della questione di diritto che era stata rimessa[12]. Ciò in quanto, come previsto dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), la Corte suprema di cassazione ha, quale precipua attribuzione, quella di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» e «l’unità del diritto oggettivo». L’uniformità della giurisprudenza è funzionale a garantire la prevedibilità delle decisioni future, che, in un’ottica convenzionale, «rappresenta un corollario fondamentale dello Stato di diritto»[13]. È alla luce di questi valori-guida che deve allora essere letta la previsione di cui all’art. 173, co. 3, disp. att. c.p.p., ai sensi del quale, «[q]uando il ricorso è stato rimesso alle sezioni unite, la sentenza enuncia sempre il principio di diritto sul quale si basa la decisione». Il compito di enunciare il principio di diritto, ad avviso dei giudici di legittimità, non può che implicare quello di «definirne gli esatti confini»[14]. Rispetto a questa incombenza, esigenze di certezza e prevedibilità delle future decisioni impongono che alle Sezioni unite sia riconosciuto «un ampio potere di ricostruire l’istituto oggetto di esame e di formulare “il principio di diritto” secondo un’ottica di razionalizzazione sistematica in funzione nomofilattica, sensibile alle varie connessioni e implicazioni»[15]. D’altra parte, le Sezioni unite «da sempre […] hanno interpretato il proprio ruolo nel senso di dare largo respiro alla loro analisi e al loro dictum»[16], tant’è vero che sono diverse, e peraltro note, le occasioni in cui hanno declinato la propria funzione nomofilattica anche al di fuori degli angusti recinti delle questioni portate alla loro attenzione[17]. La bontà di questo approccio metodologico, precisano i giudici di legittimità, resta ferma anche a seguito dell’introduzione del co. 1-bis all’art. 618 c.p.p., ai sensi del quale le Sezioni della Corte di cassazione che ritengano di non condividere un principio di diritto affermato dalle Sezioni unite devono rimettere loro la decisione del ricorso. L’affermazione del vincolo del precedente è una novità che non può indurre a intendere in maniera maggiormente restrittiva i limiti di intervento da riconoscersi alle Sezioni unite, anche perché si tratta di un vincolo non assoluto - operando solo all’interno della Cassazione - e sprovvisto di sanzione[18].

Lo sforzo chiarificatore apportato dalle Sezioni unite con la sentenza “Cavallo” è allora parso alla quinta Sezione non solo opportuno, ma anche coerente con le coordinate interpretative appena esposte. Si fa peraltro notare come, in realtà, la decisione delle Sezioni unite non fosse arrivata “a sorpresa”, neanche nella parte oggetto di censure, in quanto già l’ordinanza di rimessione si era interrogata sull’operatività dei limiti posti dall’art. 266 c.p.p. per tutti i reati rientranti nel “medesimo procedimento”[19]. Il prendere posizione anche su tale aspetto – su cui pure si registrava un contrasto giurisprudenziale[20] – era allora strettamente funzionale alla definizione degli esatti confini del principio di diritto, in un’ottica di salvaguardia della certezza e della prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali[21].

3.2. Nel merito, secondo i giudici di legittimità, il limite all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni indicato dalle Sezioni unite “Cavallo” non può dirsi frutto di una creazione giurisprudenziale praeter o contra legem. Anzi, riprendendo le parole di autorevole dottrina[22], si afferma che escludere l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per reati non ricompresi fra quelli che ammettono il ricorso a questo mezzo di ricerca della prova rappresenta «una “piana applicazione” della legge, considerato che l’art. 266 cod. proc. pen. vieta l’impiego delle intercettazioni per i reati che non superino una soglia minima di gravità e per quelli tassativamente indicati»[23]. Ragionando diversamente, si aggiunge, si consentirebbe un «surrettizio, inevitabile aggiramento» dei limiti posti dalla legge, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione»[24].

3.3. Neppure il richiamo ai principi di “non dispersione della prova” e di uguaglianza persuade la quinta Sezione della Corte di cassazione, che reputa manifestamente infondati tali dubbi di legittimità costituzionale[25]. Quanto al principio di “non dispersione della prova” si ricorda che, come più volte ha evidenziato la Corte costituzionale, l’interesse a prevenire e reprimere i reati deve necessariamente essere bilanciato con quello alla libertà e segretezza delle comunicazioni; e le Sezioni unite, con la sentenza “Cavallo”, si sono rifatte proprio al «criterio del “bilanciamento” tra valori costituzionali contrastanti»[26]. Quanto, invece, al principio di uguaglianza, si ricorda che esso si correla a quello di “ragionevolezza”, in base al quale «la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse»[27]. In quest’ottica, la soluzione individuata dalle Sezioni unite – che differenzia l’utilizzabilità delle intercettazioni in base alla riconducibilità dei reati fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. – appare ragionevole, tenuto anche conto dell’ampia discrezionalità che la Corte costituzionale tende a riconoscere al legislatore in tema di processo penale[28]. Del resto, il codice di rito conosce anche altre situazioni «nelle quali le prove seguono regimi di utilizzabilità diversi all’interno del medesimo procedimento e addirittura per il medesimo reato»[29], senza che ciò possa dirsi di per sé foriero di irragionevoli disparità di trattamento.

3.4. Infine, rispetto alla nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p., i giudici di legittimità, dopo aver ricordato che «la novella si applica ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020»[30], si limitano a osservare che «[l]e scelte operate dal legislatore con la legge n. 7 del 2020 […] formeranno oggetto di meditazione nell’ambito dei procedimenti ai quali si applicheranno ratione temporis, ma non sono in grado di fornire una chiave interpretativa della norma previgente» e che «la norma nuova, successiva alla decisione delle Sezioni Unite Cavallo», non «può fornire uno strumento per invalidare una ermeneusi necessariamente calibrata su un panorama normativo poi mutato»[31].

***

4. Recentemente, proprio sulle pagine di questa Rivista, avevamo avuto modo di segnalare un’ordinanza con cui il Tribunale di Milano aveva preso le distanze dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”[32]. Il provvedimento ci era parso di interesse perché il relativo apparato argomentativo, supportato anche da richiami dottrinali, sembrava destinato a riaprire un dibattito giurisprudenziale sopito pochi mesi prima dall’intervento del massimo organo nomofilattico. Le medesime argomentazioni che erano state addotte dai giudici milanesi sono state oggi evocate dalla Procura generale presso la Corte di cassazione, che le ha sottoposte al vaglio della quinta Sezione al fine di sollecitare un nuovo intervento delle Sezioni unite. Ciò che, però, non è avvenuto.

 

5. La sentenza in commento si lascia apprezzare non solo per la chiarezza dei singoli passaggi motivazionali, ma anche per l’ampiezza dell’analisi svolta. Particolarmente interessanti, come già si è segnalato (supra, §1), appaiono le riflessioni dedicate al ruolo svolto dalle Sezioni unite attraverso l’enunciazione dei principi di diritto e, in specie, all’ampiezza di analisi che deve essere loro riconosciuta al fine di garantire, il più possibile, la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali. In effetti, raramente gli istituti – sostanziali e processuali – si presentano come isole indipendenti le une dalle altre. Spesso, al contrario, si può cogliere a pieno la ratio di una certa disposizione solo volgendo lo sguardo anche verso ciò che le sta intorno. Del resto, uno dei criteri cui il giudice deve fare riferimento per interpretare la legge è rappresentato, come noto, dall’interpretazione sistematica, consistente nel coordinamento tra più disposizioni. Appare evidente, allora, come la risoluzione di un certo contrasto giurisprudenziale possa logicamente riverberarsi sul significato che gli interpreti sono portati ad attribuire a istituti formalmente estranei al primo, ma a esso intimamente connessi. Di qui, l’opportunità che le Sezioni unite tengano conto, per quanto possibile, delle implicazioni delle proprie decisioni, al fine di evitare che la risoluzione di una questione controversa finisca per generare altri, e magari più complessi, dubbi interpretativi.

 

6. Condivisibilmente la Corte di cassazione ha respinto le censure che puntavano a svalutare la portata del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”. Come avevamo già avuto modo di osservare[33], apparivano davvero poco convincenti i tentativi di etichettare quale mero obiter dictum il limite della necessaria riconducibilità di ogni reato connesso fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. Meno soddisfacente, invece, risulta lo spazio riservato all’argomento che fa leva sulla nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p., argomento che, più degli altri, ci era parso connotato da una certa suggestività e in grado di giustificare il disorientamento degli interpreti[34].

Come si è detto, il legislatore ha da poco ampliato le eccezioni al divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui gli stessi sono stati ottenuti. Mentre prima veniva in rilievo solo il caso in cui essi fossero «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza», oggi è altresì contemplata l’ipotesi in cui si debba accertare uno qualsiasi dei delitti di cui all’art. 266 c.p.p. Richiamando quanto già abbiamo avuto modo di osservare in altra sede, «l’attuale disciplina può così essere sintetizzata: i) l’art. 270 c.p.p. pone il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali le stesse sono state disposte; ii) a questo divieto è stata recentemente apposta un’eccezione assai ampia, concernente i casi in cui si debba accertare uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p.; iii) dall’ambito applicativo del divieto si ricava, a contrario, che nel nostro ordinamento vige la regola secondo cui i risultati delle intercettazioni possono essere liberamente utilizzati all’interno del medesimo procedimento in cui sono stati ottenuti; iv) per le Sezioni unite, però, anche quando ci si trovi all’interno del medesimo procedimento è necessario che i reati da accertare rientrino tra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. A fronte di queste coordinate […], continuando a rifarsi all’approdo ermeneutico proposto dalle Sezioni unite […] si darebbe vita a una sorta di interpretatio abrogans del divieto posto dall’art. 270 c.p.p.: poiché la portata della regola di piena utilizzabilità dei risultati all’interno del medesimo procedimento avrebbe la medesima estensione dell’eccezione posta al divieto utilizzazione in procedimenti diversi, quest’ultimo risulterebbe, in ultima analisi, privo di portata precettiva»[35].

Di fronte a queste considerazioni, riproposte in termini simili dalla Procura generale presso la Corte di cassazione (cfr. supra, §2.3), la quinta Sezione – sembra utile ribadirlo – si è limitata a replicare che «[l]e scelte operate dal legislatore con la legge n. 7 del 2020 in sede di conversione del d.l. n. 161 del 2019 formeranno oggetto di meditazione nell’ambito dei procedimenti ai quali si applicheranno ratione temporis», i.e. quelli iscritti successivamente al 31 agosto 2020, «ma non sono in grado di fornire una chiave interpretativa della norma previgente» e che «la norma nuova, successiva alla decisione delle Sezioni Unite Cavallo, [non] può fornire uno strumento per invalidare una ermeneusi necessariamente calibrata su un panorama normativo poi mutato»[36]. L’impressione, allora, è che i giudici di legittimità non si siano espressi sulla presa di questo argomento, e sulla sua possibile capacità di sollecitare un cambio di rotta per il futuro, semplicemente perché la nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p. non trovava applicazione nel procedimento portato alla loro attenzione. Conseguentemente, la novella non avrebbe dovuto intaccare in alcun modo l’interpretazione del previgente assetto normativo. Questa impressione trova conferma nel fatto che, nel ribadire il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, la Cassazione ha precisato che esso si riferisce alla «disciplina applicabile ai procedimenti penali iscritti fino al 31 agosto 2020, antecedente alla riforma introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70»[37].

 

7. Alla luce di quanto appena detto, ci sembra allora che il complesso tema dei limiti all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni nell’ambito del medesimo procedimento non abbia ricevuto, oggi, una parola definitiva, quantomeno non per il futuro. Pare infatti a questo punto inevitabile che altri operatori del diritto si interroghino sull’opportunità di sposare una soluzione diversa da quella oggi ribadita dalla Cassazione, in relazione alle notizie di reato iscritte successivamente al 31 agosto 2020. 

Tuttavia, confrontarsi con la nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p. non equivale, ad avviso di chi scrive, a dover necessariamente giungere a un superamento del principio di diritto formulato dalle Sezioni unite “Cavallo”. Invero, l’antinomia, sopra brevemente illustrata, determinata dal combinarsi tra il recente arresto e la novità legislativa potrebbe essere sciolta anche per un’altra via, e cioè mettendo in discussione proprio quest’ultima. In altri termini, il corpo estraneo da espellere, o quantomeno da rimodulare, per restituire coerenza al sistema potrebbe essere ravvisato non nell’approdo del massimo organo nomofilattico, bensì nella nuova eccezione che è stata apposta al divieto di utilizzazione degli esiti delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono stati ottenuti[38].

Ci spieghiamo meglio. Il divieto di utilizzazione di cui all’art. 270 c.p.p. ha una precisa ratio, che è quella di raggiungere un equilibrio fra due principi costituzionali tra loro confliggenti: la libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l’esigenza di repressione dei reati, dall’altro. Come evidenziato con estrema chiarezza dalla Corte costituzionale, «l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 della Costituzione in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza»[39]. Così, lo stesso giudice delle leggi ha affermato che ogni eccezione al divieto di utilizzazione in altro procedimento deve necessariamente risultare «diretta al soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» e «circoscritta alle operazioni strettamente necessarie alla tutela di quell’interesse»[40]. L’eccezione individuata dall’originaria formulazione dell’art. 270 c.p.p. - che si appunta sui delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza - può senz’altro dirsi idonea a superare un vaglio così restrittivo, venendo in gioco l’«interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità» e trattandosi di fattispecie «presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale»[41]. Lo stesso giudizio positivo non sembra invece possa essere riservato alla nuova eccezione che abbraccia tutti i reati di cui all’art. 266 c.p.p., anche perché non sempre il legislatore seleziona i reati per cui è ammesso il ricorso al più invasivo tra i mezzi di ricerca della prova sulla base della gravità: talora «si ammettono intercettazioni per reati meno gravi […] che si consumano con attività in relazione alle quali l’intercettazione si rivela uno strumento di indagine particolarmente utile, come la minaccia»[42]. Ribadendo un’impressione già esternata, ci sembra dunque che il nuovo art. 270 c.p.p. abbia «travalicato i limiti entro i quali l’ordinamento è disposto a tollerare compressioni alla libertà e segretezza delle comunicazioni da parte di “autorizzazioni in bianco”»[43]. Facendo coincidere il ventaglio dei reati per i quali i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati senza una previa autorizzazione a monte con quello dei reati per il quale il giudice potrebbe autorizzare le intercettazioni, si è finiti per rendere omogenee due classi di fattispecie che invece sarebbero tra loro «diverse ed eterogenee»[44]. L’effetto ultimo è che, ad oggi, l’autorizzazione a disporre intercettazioni per uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. rappresenta, di fatto, un’autorizzazione (in bianco) a disporre intercettazioni per qualsiasi reato che in astratto ammette il ricorso alle intercettazioni. Di qui, i seri dubbi sulla legittimità costituzionale della nuova, troppo ampia, eccezione apposta al divieto di cui all’art. 270 c.p.p.[45]

 

8. Vi è, infine, un ultimo aspetto che merita le attenzioni del lettore.

Nelle battute finali della sentenza, i giudici di legittimità dedicano un breve paragrafo a due «precisazioni»[46]. In particolare, da un lato affermano che, nella vicenda portata alla loro attenzione, non viene in rilievo il «tema della diversa qualificazione giuridica del fatto», essendo piuttosto emersi «due accadimenti storici completamente diversi»[47]; dall’altro lato osservano che le comunicazioni intercettate non esaurivano, in sé considerate, la condotta criminosa, e pertanto non potevano essere acquisite come “corpo del reato”, secondo quanto stabilito da un altro noto arresto delle Sezioni unite[48].

Il senso di queste precisazioni, ad avviso di chi scrive, sembra chiaro e così sintetizzabile: la soluzione raggiunta dalle Sezioni unite “Cavallo” in ordine alla necessaria operatività dei limiti di cui all’art. 266 c.p.p., oggi ribadita, non pregiudica le conclusioni che debbono essere tratte in presenza di questi altri, diversi, scenari.

Con la sentenza “Floris”, le Sezioni unite hanno affermato che «la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato allorché essa integra di per sé la fattispecie criminosa, e, in quanto tale, è utilizzabile nel processo penale»[49]; e tale utilizzo, si badi, prescinde dalla riconducibilità del reato fra quelli che ammettono il ricorso alle intercettazioni ex art. 266 c.p.p. L’aver affiancato a questa ipotesi quella della diversa qualificazione giuridica del fatto sembra sottintendere che anche in quest’altro caso non entri in gioco il limite individuato dalle Sezioni unite nella sentenza “Cavallo”. Quest’ultima pronuncia aveva in effetti ad oggetto i limiti all’utilizzabilità delle intercettazioni in relazione a fatti di reato diversi da quello per cui le stesse erano state autorizzate. Fattispecie, questa, contigua, ma comunque distinta, rispetto a quella in cui il fatto originariamente addebitato subisca un «mero cambiamento di nomen juris»[50].

Viene però da chiedersi se davvero il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, e oggi ribadito, non interessi anche il caso della riqualificazione giuridica del fatto, come sembra intendere la quinta Sezione della Cassazione.

Anzitutto, giova ricordare che sul tema la dottrina appare divisa.

Da un lato vi è chi ritiene che «[l]’inutilizzabilità operante a posteriori per effetto della variazione del nomen juris contrasterebbe con lo scopo dell’intercettazione come mezzo indispensabile per proseguire le indagini su un fatto (di reato), che deve indefettibilmente sussistere ma la cui qualificazione può fisiologicamente variare con la prosecuzione delle investigazioni e finanche mercé le risultanze della captazione»[51].

Vi è però anche chi ha autorevolmente affermato che l’ammissibilità delle intercettazioni «costituisce una variabile legata al nomen delicti» e che «risulta determinante la qualificazione recepita nella sentenza, quali che fossero i termini in iure dell’accusa»[52].

Dal canto suo, la giurisprudenza ha in più occasioni ritenuto «utilizzabili i risultati di intercettazioni effettuate in base a un titolo di reato per il quale le operazioni sono consentite pur quando esso, a seguito di diversa qualificazione giuridica, venga mutato in altro per il quale l’acquisizione non sarebbe stata consentita»[53].

Senza poter in questa sede entrare nel merito del contrasto interpretativo, a chi scrive sembra che la soluzione da tempo accolta in giurisprudenza, condivisibile o meno, fatichi oggi ad armonizzarsi con il principio di diritto recentemente affermato dalle Sezioni unite “Cavallo” e adesso ribadito, quanto meno per il passato, dai giudici di legittimità[54]. A ben vedere, infatti, gli argomenti portati a sostegno dell’operatività dei limiti di cui all’art. 266 c.p.p. anche per i reati connessi emersi ex post sono di ampio respiro e si prestano a essere spesi anche in relazione al caso della diversa qualificazione giuridica. Nella sentenza in epigrafe, si sostiene che l’art. 266 c.p.p. vieta «l’impiego» - e non l’esecuzione - «delle intercettazioni per i reati che non superino una soglia minima di gravità»[55]. Immediatamente dopo, poi, richiamando la giurisprudenza precedente nonché le stesse Sezioni unite “Cavallo”, si afferma che «[a]mmettere l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe “nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 c.p.p. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione”»[56]. Se così stanno le cose, allora, la medesima soluzione sembrerebbe dover valere anche in relazione all’ipotesi della diversa qualificazione giuridica. Insomma: quando ci si trova all’interno del medesimo procedimento, dovrebbe operare la medesima disciplina sia in presenza di fatti connessi, sia in presenza di una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto. Introdurre maggiori garanzie solo per il fatto connesso significa dare vita a una zona grigia, ai confini con il diverso procedimento, non prevista dalla legge; e significa anche incrinare, se non contraddire, l’affermazione delle Sezioni unite secondo cui il fatto connesso rientrerebbe a pieno titolo nel “medesimo procedimento”, al pari del fatto originariamente addebitato.

Quanto appena osservato testimonia, una volta di più, lo stretto legame che può avvincere le diverse sfaccettature di un medesimo istituto, e come qualsiasi operazione ermeneutica possa sottoporre a sollecitazioni anche tematiche contigue. L’auspicio, allora, è che presto ci sia l’occasione, per i giudici di legittimità, di confrontarsi con gli interrogativi che oggi ci si pone, al fine di restituire coerenza a una materia che impatta fortemente sui diritti fondamentali dell’individuo.

 

[1] Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), imp. Cavallo, n. 51, pubblicata con nota di G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in questa Rivista, 30 gennaio 2020.

[2] Per comodità del lettore si riporta il principio di diritto formulato nella sentenza “Cavallo”: «il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge».

[3] Cfr. ad esempio A. Innocenti, Le Sezioni unite limitano l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per la prova di reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte, in Dir. pen. proc. 2020, VII, p. 993 ss.; F. Vanorio, Il permanente problema dell’utilizzo delle intercettazioni per reati diversi tra l’intervento delle Sezioni unite e la riforma del 2020, in questa Rivista, 6/2020, p. 180 ss.

[4] Cfr. Trib. Milano, Sez. riesame, ord. 2 novembre 2020, Pres. Rizzardi, est. Alonge, pubblicata con nota di D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito del “medesimo procedimento”: il Tribunale di Milano prende le distanze dalle Sezioni unite “Cavallo”, in questa Rivista, 1 dicembre 2020.

 

[5] Sul sito della Corte di cassazione è stata data notizia della sentenza in epigrafe con la seguente segnalazione: «[l]a Quinta Sezione ha affermato che, anche dopo l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 618 cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, rimane invariato, in capo alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, il potere di enunciare il principio di diritto ex art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., delineandone i confini e, in funzione nomofilattica e di razionalizzazione del sistema, analizzandone le possibili connessioni ed implicazioni anche in relazione a profili non specificamente devoluti, così che la regola enucleata possa essere esauriente e fungere da guida per orientare in maniera certa e, quindi, prevedibile, le future decisioni».

[7] Cfr. p. 13 della sentenza in commento.

[8] Per questa e la precedente citazione cfr. pp. 13-14 della sentenza in commento.

[9] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 14 della sentenza in commento.

[10] Così nel passaggio della memoria della Procura generale riportato a p. 14 della sentenza.

[11] Cfr. p. 15 della sentenza. Avevamo avuto modo di svolgere la medesima considerazione in D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…, cit., §7.

[12] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019, cit., §1 del “considerato in diritto”, che sintetizza in questi termini la questione di diritto esaminata: «se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all'art. 270 cod. proc. pen., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione».

[13] Cfr. p. 15 della sentenza.

[14] Cfr. p. 16 della sentenza.

[15] Cfr. p. 16 della sentenza.

[16] Cfr. p. 15 della sentenza.

[17] Cfr. p. 16 della sentenza, ove vengono richiamate, a titolo esemplificativo, le ampie analisi svolte da Cass. pen. Sez. un., 12.07.2005 (dep. 20.09.2005), imp. Mannino, n. 33748; Cass. pen. Sez. un., 17.07.2014 (dep. 03.09.2014), imp. Burba, n. 36848; Cass. pen. Sez. un., 28.04.2016 (dep. 06.07.2016), imp. Dasgupta, n. 27620.

[18] Cfr. p. 17 della sentenza.

[19] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13.02.2019 (dep. 13.03.2019), n. 11160, §19 dei “motivi della decisione”.

[20] Cfr. p. 19 della sentenza per i riferimenti ai due opposti orientamenti.

[21] Cfr. p. 18 della sentenza.

[22] Cfr. G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi…, cit., §3, il quale, nel commentare la pronuncia delle Sezioni unite, aveva osservato che la seconda parte del principio di diritto enunciato rappresenta «una piana applicazione della legge, senza che nemmeno si debba scomodare l’art. 15 Cost., posto che l’art. 266 c.p.p. vieta l’impiego di questo mezzo di indagine per i reati che non superino una soglia minima di gravità».

[23] Cfr. p. 19 della sentenza.

[24] Cfr. p. 20 della sentenza, che richiama Cass. pen. Sez. VI, 15.01.2004 (dep. 06.02.2004), imp. Kolakowska, n. 4942.

[25] Cfr. p. 20 della sentenza.

[26] Cfr. p. 20 della sentenza.

[27] Cfr. p. 21 della sentenza.

[28] Cfr. p. 22 della sentenza.

[29] Cfr. p. 23 della sentenza ove vengono evocate, a titolo esemplificativo, l’utilizzabilità dei verbali di prove di altri procedimenti ex art. 238 co. 4 c.p.p. e la disciplina sulla lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare ex art. 513 c.p.p.

[30] Cfr. p. 10 della sentenza.

[31] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 24 della sentenza.

[34] Sulle possibili interpretazioni della nuova eccezione introdotta all’art. 270 c.p.p. cfr. l’attenta analisi di K. Natali, Sezioni unite e “legge Bonafede”: nuove regole per l’uso trasversale delle intercettazioni, in Cass. pen., 2020, V, p. 1893 ss., §10. In questa sede si farà esclusivo riferimento all’interpretazione che assegna alla “e” che compare all’art. 270 c.p.p. un valore disgiuntivo, sia perché è quella perorata dalla Procura generale e con cui si è confrontata – sia pure brevemente – la sentenza in esame, sia perché, come riconosce anche l’Autrice, appare l’univa davvero fedele alla littera legis.

[35] Cfr. D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…, cit., §8. Sul punto cfr. anche le ficcanti osservazioni di K. Natali, Sezioni unite e “legge Bonafede”: nuove regole…, cit., §10, che parla di «conseguenze alquanto stravaganti».

[36] Cfr. p. 24 della sentenza.

[37] Cfr. p. 24 della sentenza.

[38] In questa sede si ripropongono le brevi considerazioni già svolte in D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…, cit., §9.

[39] Cfr. Corte cost., 11 luglio 1991 (dep. 23 luglio 1991), n. 366, §3 del “considerato in diritto”.

[40] Cfr. Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §3 del “considerato in diritto”.

[41] Per questa e la precedente citazione cfr. Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §3 del “considerato in diritto”.

[42] Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, XX ed., Giuffrè, Milano, 2019, p. 403.

[44] Così si legge in Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §4 del “considerato in diritto”.

[45] Sul punto cfr. l’ampia analisi di F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni e la riformulazione dell’art. 270 c.p.p.: l’incerto pendolarismo tra regola ed eccezione, in questa Rivista, 5/2020, pp. 240 ss. Cfr. anche G. Pecchioli, Intercettazioni e “diverso procedimento”: le Sezioni unite sull’annoso nodo gordiano, in Giur. it., 2020, 6, pp. 1513-1514.

[46] Cfr. p. 24 della sentenza.

[47] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 24 della sentenza.

[48] Cfr. Cass. pen. Sez. Un., 26.06.2014 (dep. 23.07.2014), imp. Floris, n. 32697.

[49] Cfr. Cass. pen. Sez. Un., 26.06.2014, cit., §12 del “considerato in diritto”.

[50] Cfr. N. Galantini, L’inutilizzabilità dei risultati, in Aa. Vv., L’intercettazione di comunicazioni, T. Bene (a cura di), Cacucci Editore, Bari, 2018, p. 229, la quale osserva che le due fattispecie in parola si intersecano tra loro.

[51] Così, da ultimo, F. Cassibba, In difesa dell’art. 15 Cost.: illegittima la circolazione delle intercettazioni per la prova di reati diversi, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6, nota 39. Cfr. anche F. Ruggieri, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 2001, p. 97: «[q]ualora sulla base di quei dati fosse stato corretto ritenere la sussistenza di un reato per cui le intercettazioni sono consentite, egli non può, infatti, dichiarare la inutilizzabilità delle intercettazioni solo perché, successivamente, sono emersi altri e diversi elementi che inducono a qualificare diversamente la fattispecie per cui si procede. Viceversa, allorché emerga che il reato originariamente ritenuto, sin dal principio, non avrebbe potuto rientrare nelle fattispecie per le quali è possibile ricorrere alle intercettazioni, le relative risultanze devono ritenersi senz’altro inutilizzabili perché assunte in violazione di un divieto stabilito dalla legge». Nello stesso senso anche A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale. Tra garanzie e prospettive di riforma, Cedam, Milano, 2011, pp. 195-196.

[52] Per questa e la precedente citazione cfr. F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 851. In termini simili si esprime L. Filippi, Commento sub art. 271, in Codice di procedura penale commentato, I, V ed., A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Wolters Kluwer, 2017, p. 2745. Il medesimo Autore critica l’opposto orientamento anche in L. Filippi, Riforme attuate, riforme fallite e riforme mancate degli ultimi 30 anni. Le intercettazioni, in Arch. Pen. (web) 2019, n. 3, p. 17. In relazione alla disciplina dettata dal codice di rito del 1930 cfr. G. Illuminati, La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, Milano, 1983, p. 77: «l’intercettazione, pur legittimamente autorizzata, diverrebbe inammissibile (e i suoi risultati non potrebbero essere più utilizzati) se l’indagine dovesse rivelare un reato non compreso tra quelli previsti dall’art. 226-bis comma 1° c.p.p.».

[53] Cfr. Cass. pen. Sez. I, 20.02.2009 (dep. 11.05.2009), n. 19852; nello stesso senso cfr. Cass. pen. Sez. VI, 20.10.2009 (dep. 31.12.2009), n.  50072; Cass. pen. Sez. VI, 24.06.2005 (dep. 21.09.2005) n. 33751; Cass. pen. Sez. III, 28.02.1994 (dep. 06.05.1994), n. 5331. Sui rischi connessi a questo orientamento giurisprudenziale cfr. le considerazioni di O. Mazza, Introduzione, in Aa. Vv., Le nuove intercettazioni, O. Mazza (a cura di), Giappichelli, Torino, 2018, pp. XV-XVI.

[54] In dottrina cfr. le condivisibili considerazioni di K. Natali, Sezioni unite e “legge Bonafede”…, cit., §9, secondo cui la soluzione adottata dalla giurisprudenza in tema di diversa qualificazione giuridica «sembra destinata a una difficile convivenza con il principio affermato dalle Sezioni unite».

[55] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 19 della sentenza.

[56] Cfr. p. 20 della sentenza (corsivo aggiunto).