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03 Giugno 2021


Malattie professionali da amianto: la Sezione III della Cassazione annulla le assoluzioni nel caso Montefibre-bis

Cass., Sez. III, sent. 7 ottobre 2020 (dep. 17 marzo 2021), n. 10209, Pres. Di Nicola, Est. Zunica



1. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha scritto una nuova pagina nella tormentata vicenda delle malattie amianto-correlate contratte, spesso con esito letale, da alcuni lavoratori della Montefibre di Verbania. Si tratta, più precisamente, del secondo intervento della Suprema Corte nell’ambito del procedimento Montefibre-bis, avente ad oggetto la responsabilità per omicidio colposo e lesioni personali colpose di undici soggetti che, tra gli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, avevano ricoperto posizioni datoriali o direttive negli stabilimenti piemontesi dove si produceva il nailon, e l’amianto era presente nei rivestimenti e nelle componenti degli impianti per le lavorazioni a caldo. Gli imputati, oggi rimasti in sei in ragione dei decessi intervenuti medio tempore, erano stati assolti in primo grado (Trib. Verbania, 19.7.2011) e successivamente condannati in appello in relazione ai casi di tumore polmonare e mesotelioma (App. Torino, 21.7.2015). Avevano tuttavia ottenuto l’annullamento delle condanne (Cass. 3.11.2016, n. 12175)[1] e successivamente l’assoluzione in sede di rinvio (App. Torino, 31.1.2019). Su ricorso della Procura della Repubblica e delle parti civili, gli ermellini (questa volta un collegio della Terza Sezione) sono tornati a pronunciarsi sulla vicenda con la sentenza in commento; la quale – a prima vista, sorprendentemente – ha annullato le assoluzioni rinviando nuovamente il fascicolo ai giudici torinesi per una nuova – la terza – valutazione nel merito.

La centralità delle questioni affrontate sul terreno della prova scientifica, accompagnata dall’altalenante andamento delle decisioni sinora intervenute, rendono il processo Montefibre-bis una delle vicende di riferimento per l’attuale dibattito sull’accertamento della causalità in materia di malattie da amianto (nonché di malattie professionali tout court). Una vicenda, dunque, che merita di essere seguita con attenzione, anche in ragione delle possibili ripercussioni che i suoi esiti potranno avere, mutatis mutandis, su un altro importante caso giudiziario che vede al centro le vittime dell’amianto, ossia il procedimento Eternit-bis, la cui fase dibattimentale prenderà avvio proprio nel mese di giugno del 2021.  

 

2. Come sistematicamente accade nella casistica sulle malattie professionali, oggetto del contendere processuale è l’imputazione causale degli eventi lesivi ai garanti-imputati. Non perché si dubiti del carattere tossico e cancerogeno dell’amianto per l’apparato respiratorio dei lavoratori esposti. Bensì perché – come ormai è ampiamente noto – risultano problematiche due ulteriori operazioni indispensabili ai fini di un accertamento eziologico fedele al paradigma della condicio sine qua non: la riconducibilità delle patologie contratte dalle persone offese proprio all’amianto, anziché a fattori causali alternativi all’amianto che abbiano operato in via esclusiva; la riconducibilità delle stesse patologie proprio alle esposizioni all’amianto avvenute nei segmenti temporali durante i quali gli imputati hanno rivestito la posizione di garanzia, anziché ad altre esposizioni all’amianto che abbiano operato in via esclusiva.

 

3. Il primo problema (possibile incidenza in via esclusiva di fattori causali alternativi) emerge soprattutto con riferimento ai casi di tumore polmonare, trattandosi di patologia che, oltre all’amianto, presenta – appunto – numerosi e frequenti fattori di rischio alternativi. Nel procedimento in esame (avente ad oggetto otto casi di tumore polmonare, sette dei quali letali) la Corte d’appello di Torino, in sede in rinvio dopo il primo annullamento delle condanne avvenuto nel 2016, si era discostata dalla prospettazione dei periti da essa stessa nominati (che avevano concluso nel senso della sussistenza del nesso causale) ed aveva abbracciato quella dei consulenti della difesa, ritenendo in particolare che non si potesse escludere che i tumori fossero stati causati dall’abitudine al fumo di sigaretta ovvero (specie per l’unica persona offesa non tabagista) da altri fattori di rischio di tale tumore, notoriamente ubiquitari.

Come già anticipato, queste motivazioni non hanno retto al vaglio della Cassazione. Al di là dei vizi di logicità rinvenuti in singoli passaggi della motivazione d’appello (per le quali si rinvia alla motivazione della sentenza in commento, pp. 28-29), pare significativo evidenziare che i giudici di legittimità hanno censurato – sulla scorta dei criteri di selezione del sapere scientifico declinati dalla nota sentenza Cozzini (n. 43786/2010) – la mancanza tanto di “un riferimento alla maggiore o minore attendibilità degli studi che sostengono le tesi antagoniste” quanto di un richiamo al grado di indipendenza e autorevolezza degli esperti (p. 29). Meritevole di particolare attenzione, inoltre, è la censura relativa alla negazione del nesso causale in relazione all’unico caso di vittima non tabagista: “se è vero che l’origine multifattoriale del tumore polmonare è un dato acquisito pacificamente” – ha osservato il Collegio – è tuttavia altrettanto innegabile che la multifattorialità della malattia non è di per sé motivo sufficiente per eludere la prova del nesso causale”; posto infatti che “il ragionevole dubbio [in ordine alla sussistenza di un decorso causale alternativo] deve essere reale, fondato cioè su specifici elementi di fatto che lo avvalorino”, allora – chiosa la sentenza – non è sufficiente sostenere, rispetto all’unico lavoratore non tabagista, che questi si sarebbe potuto comunque ammalare di tumore al polmone per un’altra causa” senza “individuare una possibile origine alternativa della malattia(pp. 29-31).

 

4. I problemi appena esaminati si pongono il linea teorica anche per i casi di mesotelioma pleurico, ma sono facilmente risolvibili attesa la rarità e la facile individuazione dei decorsi alternativi di tale patologia. Rispetto ad essa emerge, tuttavia, il secondo ordine di problemi indicati (la possibile incidenza in via esclusiva di diverse esposizioni ad amianto), non essendo possibile individuare con precisione il momento in cui, a seguito della prolungata esposizione all’amianto, il processo di cancerogenesi entra in una fase di evoluzione irreversibile (c.d. latenza clinica), rispetto alla quale ulteriori esposizioni allo stesso fattore risultano irrilevanti. Sicché, ogniqualvolta l’esposizione ad amianto subìta dalla persona offesa si sia protratta nel tempo, all’interno della stessa o di diverse aziende, sorge il problema di stabilire quali tra le porzioni di esposizione riferibili ai diversi imputati abbiano avuto efficacia quanto meno concausale sull’evoluzione della cancerogenesi.

Anche su questo aspetto la Corte d’appello di Torino, pronunciandosi in sede in rinvio dopo il primo annullamento delle condanne avvenuto nel 2016, si era discostata dalle conclusioni dei propri periti, interrogati (anche) in ordine all’eziologia delle dieci morti per mesotelioma attribuite agli imputati.

Gli esperti avevano in particolare affermato che: i) nella comunità scientifica si registra un consenso generale intorno all’affermazione secondo cui le uniche esposizioni all’amianto non rilevanti sono, in media, quelle subite negli ultimi dieci anni prima della diagnosi della patologia; ii) esiste una relazione tra maggiore esposizione e aumento del rischio di mesotelioma e specularmente una relazione tra maggiore esposizione (in termini di durata o di intensità) e anticipazione nel tempo di insorgenza della patologia e dunque della morte; iii) rispetto ai singoli individui non è possibile individuare con precisione i momenti di iniziale e finale della fase di induzione, nella quale si collocano le esposizioni causalmente rilevanti. Sulla base di queste premesse, e constatato che nessuno degli imputati aveva ricoperto la carica negli ultimi dieci anni antecedenti alle diagnosi riportate dalle persone offese, i periti avevano concluso nel senso che ciascuno dei periodi di esposizione alle dipendenze degli imputati avesse quanto meno contribuito ad accelerare il decorso causale delle patologie.

I giudici d’appello, tuttavia, avevano ritenuto che l’impossibilità di fissare con certezza i confini temporali della fase di induzione – letta alla luce dei principi di diritto resi dalla Cassazione nella più volte richiamata sentenza di annullamento delle condanne, che aveva posto l’accento sulla necessità che il giudice fosse fruitore e non creatore del sapere scientifico – dovesse considerarsi determinante per giungere alla conclusione di segno opposto, ossia l’esclusione della prova della causalità individuale. Né a riempire il vuoto probatorio erano bastate le affermazioni dei consulenti dell’accusa, che avevano quantificato in termini percentuali il “peso” delle diverse esposizioni avvenute nei singoli periodi di carica degli imputati, trattandosi pur sempre – aveva osservato il collegio d’appello – di indicatori in ordine alla riduzione della probabilità di ammalarsi, e non in ordine al qualità di condicio sine qua non da attribuire alle singole esposizioni.

Sennonché, come già anticipato, la scure dei giudici di legittimità è caduta anche su queste statuizioni. Dopo avere ribadito che “il ruolo della Corte di Cassazione non è quello di prendere posizione sulla maggiore validità di una teoria scientifica rispetto all’altra, ma di verificare se, nel processo, risulta metodologicamente corretta la valutazione operata dal giudice di merito, ovvero se può ritenersi razionale la verifica del nesso causale”, il collegio ha illustrato come segue il vulnus di logicità ravvisato nelle motivazioni delle sentenza impugnata: “la Corte territoriale, una volta superata la ratio decidendi della pronuncia assolutoria di primo grado, affermando cioè, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, che hanno valenza causale ai fini della contrazione del mesotelioma tutte le esposizioni verificatesi nella fase di induzione, ovvero fino al decennio antecedente la diagnosi clinica, avrebbe dovuto illustrare le ragioni per cui le esposizioni avvenute nei periodi in cui gli imputati erano in carica erano eziologicamente irrilevanti, risultando generica e comunque non esauriente l’affermazione secondo cui ‘le esposizioni più remote assumono un peso maggiore nel determinismo della malattia’, non comprendendosi in che termini le esposizioni successive alle prima abbiano minore efficienza causale e dovendo in ogni caso tale postulato, da un lato, essere coordinato con il dato della lunghezza dei tempi di insorgenza della malattia e, dall’altro, essere calato nella dimensione specifica della storia clinica di ciascun lavoratore e della durata dei periodi di responsabilità, non potendosi sottacere che i relativi dati non sono tra loro omogenei” (pp. 38 s.).

 

* * *

 

5. La sentenza merita di essere segnalata, anzitutto, per i condivisibili richiami ai criteri di selezione delle teorie scientifiche antagoniste, effettuati con riguardo all’accertamento dell’eziologia dei tumori polmonari nei lavoratori tabagisti. La Terza Sezione mostra qui di recepire i principi che da oltre dieci anni si rinvengono nelle pronunce della Quarta Sezione, di regola competente nella materia in esame, a loro volta scolpiti nel 2010 dalla già richiamata sentenza Cozzini: il ruolo del peritus peritorum al quale sono chiamati i giudici di merito deve essere esercitato attraverso l’applicazione di criteri avente carattere sia oggettivo (attinenti cioè all’attendibilità della legge scientifica, sotto il profilo metodologico e del dibattito scientifico che l’accompagna), sia soggettivo (attinenti cioè all’attendibilità degli esperti che veicolano la legge scientifica nel processo, i quali devono essere dotati di autorevolezza e imparzialità). Il difetto di uno o entrambi questi accertamenti comporta che il giudice si arroghi il ruolo di creatore, anziché mero utilizzatore, del sapere scientifico, sostituendo il sapere esperto con il proprio arbitrio[2]: il conseguente vulnus motivazionale è censurabile in sede di legittimità, come appunto accaduto nel caso di specie; fermo restando che la funzione nomofilattica non può estendersi fino ad indicare quale delle teorie antagoniste risponda ai ricordati criteri di attendibilità. Non potrà dunque affermarsi che la Cassazione, con la sentenza in commento, abbia riconosciuto il nesso causale tra l’esposizione ad amianto delle persone offese ed i tumori polmonari; potrà invece affermarsi che la stessa sentenza abbia censurato, per difetto di logicità, le motivazioni rese dalla Corte d’appello a sostegno dell’assenza di tale nesso causale.

 

6. Parimenti condivisibile appare il richiamo operato dal collegio di legittimità alla corretta applicazione dei principi declinati dalla sentenza Franzese, segnatamente con riguardo all’esclusione dei decorsi causali alternativi rispetto all’unica persona offesa non fumatrice tra quelle colpite da tumore polmonare. Invero, fermo restando l’onere della prova in ordine alla sussistenza del fatto in capo all’accusa, il concetto di decorso causale alternativo non può non essere allacciato alla regola di giudizio della quale rappresenta il riflesso sul piano probatorio-sostanziale, vale a dire l’oltre ogni ragionevole dubbio: dovendo appunto risultare ragionevole, il decorso alternativo non può essere prospettato dalla difesa in maniera apodittica, del tutto sganciata da un sostrato fattuale di cui risulti quanto meno plausibile la ricorrenza nel caso di specie[3]. Pertanto, malgrado in effetti il tumore polmonare risulti ampiamente diffuso anche nella popolazione generale (ossia in assenza di esposizioni note a fattori professionali o ambientali), nondimeno tale constatazione non può essere elevata ad argomento capace di inficiare un’ipotesi basata – al contrario – su solide evidenze di carattere fattuale (nel caso di specie, l’esposizione professionale ad amianto), sussumibili all’interno di una valida legge scientifica di copertura (il carattere cancerogeno dell’amianto per il polmone). Se così fosse, la regola del ragionevole dubbio lascerebbe spazio alla regola del dubbio tout court, che oltre a non trovare fondamento positivo nel nostro ordinamento, finirebbe per rendere praticamente inapplicabili le fattispecie d’evento al di fuori delle ipotesi nelle quali il nesso di causalità appare ictu oculi sussistente.

Si tratta di principi che, pur essendo stati qui ricordati a proposito di un caso di tumore polmonare, acquistano particolare rilevanza anche nei casi di mesotelioma pleurico. Trattandosi infatti di patologia ricollegabile anche a basse o bassissime esposizioni ad amianto (è questa, del resto, la ragione per cui la legge 257/1992 ha vietato tout court l’estrazione e l’utilizzo del nocivo minerale), esposizioni che possono verificarsi in molteplici occasioni di vita professionale ed extraprofessionale (atteso l’ampio utilizzo che è stato fatto dell’amianto nel corso di tutto il ‘900), è stato avanzato in alcuni procedimenti l’argomento difensivo secondo cui, pur in assenza di accertate esposizioni diverse da quelle riconducibili all’imputato, non si potrebbe escludere l’intervento di altre esposizioni, magari minime e per questo mai accertate, che abbiano avuto efficacia causale in via esclusiva. Ebbene, questo argomento non richiede di addentrarsi nella spinosa questione scientifica (di cui si dirà appresso) in ordine rilievo eventualmente concausale di plurime esposizioni, giacché può essere scartato, a monte, proprio attraverso una previa selezione dei decorsi causali alternativi dotati di un sostrato scientifico-fattuale sufficiente a renderli quanto meno plausibili.

 

7. Senza dubbio gli argomenti di maggiore interesse rinvenibili nella pronuncia in commento sono quelli che hanno indotto il collegio di legittimità a censurare le statuizioni d’appello in ordine al difetto di causalità individuale nei casi di mesotelioma[4]. Il riferimento, in particolare, è al passaggio in cui la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello, una volta riconosciuta validità scientifica alla teoria che assegna efficacia concausale a tutte le esposizioni avvenute nella fase di induzione, ed una volta altresì riconosciuto che gli imputati avevano ricoperto le cariche proprio nei periodi in cui i mesoteliomi sviluppati dalle persone offese attraversavano detta fase, avrebbe dovuto meglio esplicitare le ragioni in forza delle quali aveva giudicato tali periodi di esposizione causalmente irrilevanti.

In effetti, là dove aveva preso posizione sulla collocazione temporale dei periodi di induzione (ricavabili sottraendo dieci anni dalla data della diagnosi per ciascuna persona offesa), nonché sulla loro corrispondenza con l’esercizio delle funzioni da parte degli imputati, la Corte d’appello sembrava avere risolto, in senso favorevole alla sussistenza del nesso causale, le principali criticità messe in luce dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento delle condanne intervenuta nel 2016. E lo aveva fatto – si noti – non già sulla scorta di una propria rivalutazione in ordine alla validità delle informazioni veicolate dagli esperti nel dibattimento, bensì alla luce delle risposte fornite dal collegio peritale appositamente nominato. La ragione alla base della scelta dei giudici torinesi di discostarsi da tali conclusioni non sembra discendere – alla luce della analitica ricostruzione offerta dalla sentenza di legittimità in commento – da un giudizio di inattendibilità della perizia; bensì dalla circostanza che le informazioni fornite dagli esperti si fossero mantenute sul piano della causalità generale, dimostrando cioè una relazione di (mero) aumento del rischio di accelerazione della patologia, ancorché declinata rispetto ai singoli periodi in cui gli imputati avevano rivestito l’incarico.

Da questo angolo visuale, i principi di diritto sui quali poggia la sentenza in commento non paiono contrastanti né con quelli declinati dalla sentenza della Quarta Sezione del 2016; né con quelli ricavabili dai più recenti arresti di legittimità in materia (cfr. Cass. 29.10.2020, n. 34341, caso Broni; Cass. 13.6.2019, 45935, caso Ilva; Cass. 16.1.2019, n. 25532, caso Fincantieri Monfalcone-bis), malgrado anche questi ultimi siano pervenuti all’annullamento di condanne. Invero, il comune denominatore di tali pronunce è pur sempre il richiamo alla necessità di un’attenta selezione del sapere scientifico attendibile sul quale fondare l’ipotesi causale; seguita da una rigorosa valutazione della causalità individuale, anch’essa da condursi sulla scorta di criteri scientificamente fondati. La circostanza, poi, che l’applicazione di tali principi conduca a sbocchi processuali divergenti, può discendere ora dalle peculiarità del fatto concreto, ora dal rigore motivazionale delle sentenze di merito oggetto di sindacato di legittimità; ma sotto entrambi i profili appare un’eventualità del tutto fisiologica. Ci troviamo, in altre parole, dinanzi ad un contrasto giurisprudenziale meramente apparente[5], appunto perché non radicato su principi giuridici contrastanti, bensì su fattori di carattere contingente, attinenti alla vicenda sub judice ovvero alla qualità della sentenza impugnata.

Certo, resta problematico il fatto che la stessa teoria scientifica (come ad esempio l’individuazione della durata della fase di induzione del mesotelioma) possa ricevere il sigillo di attendibilità in un procedimento ed essere invece scartata come inattendibile in un altro di poco successivo (o viceversa), senza che vi siano state medio tempore significative evoluzioni nel sapere scientifico disponibile. Si tratta, in effetti, di un possibile effetto collaterale dell’esercizio della funzione di peritus peritorum affidata al giudice, che come è noto può determinare pericolosi scivolamenti dal libero convincimento al mero arbitrio. Una soluzione per ridurre al minimo tale eventualità – a nostro avviso – è proprio quella praticata dalla Corte d’appello di Torino nel caso in esame, e consiste nel nominare un collegio peritale d’ufficio, incaricandolo di fare chiarezza sui profili rimasti controversi all’esito del confronto tra le posizioni di consulenti tecnici di parte. Non si tratta – conviene chiarirlo – di conferire alla perizia un peso equivalente a quello di una inammissibile “prova legale”, né di assegnarle l'illusorio crisma di “prova neutra”[6]; si tratta, invece, di prendere lucidamente coscienza delle difficoltà che il giudice incontra nell’orientarsi tra teorie scientifiche contrastanti estremamente sofisticate, incoraggiandolo ad avvalersi dell’unica figura di esperto sul quale grava l’obbligo giuridico, penalmente sanzionato, di far conoscere la verità (ex artt. 373 c.p. e 226, co. 1 c.p.p.)[7]. Resta fermo, beninteso, il dovere in capo al giudice di sottoporre al vaglio di attendibilità, sempre sulla scorta del “vademecum Cozzini”, le conclusioni rassegnate da tutti gli esperti intervenuti, inclusi quelli nominati d’ufficio[8].

 

[1] Cfr. S.Tordini Cagli, Morti d’amianto: la Cassazione ancora una volta annulla con rinvio le condanne inflitte in secondo grado, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 1/2018, p. 178 ss.; nonché, volendo, S. Zirulia, Amianto: la Cassazione annulla le condanne nel processo Montefibre-bis, sulla scia del precedente Cozzini, in Dir. pen. cont., fasc. n. 5/2017, p. 372 ss.

[2] V. per tutti F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale: il nesso di condizionamento fra azione ed evento, Giuffrè, 1975, p. 77-88, 153-156.

[3] In tal senso, per un’interpretazione “autentica” della sentenza Franzese, v. G. Canzio, La motivazione della sentenza e la prova scientifica: reasoning by probabilities, in G. Canzio, L. Lupária (a cura di), Prova scientifica e processo penale, Wolters Kluwer-CEDAM, 2018, p. 15-16.

[4] Per un’aggiornata panoramica delle problematiche sollevate dall’accertamento della responsabilità penale nei casi di mesotelioma, v. da ultimo la ricca analisi critica offerta da S. Finocchiaro, La responsabilità penale per mesotelioma pleurico causato dall’esposizione ad amianto: una patologia di sistema, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2021

[5] Per il compiuto sviluppo della distinzione tra contrasti giurisprudenziali reali e meramente apparenti nella materia in esame, sia consentito rinviare a Zirulia, Contrasti reali e contrasti apparenti nella giurisprudenza post-Cozzini su causalità e amianto, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1289 ss.

[6] Sul punto v., di recente, P. Rivello, Perizia e consulenza tecnica, in G. Canzio, L. Lupária (a cura di), Prova scientifica e processo penale, cit., p. 301 ss.

[7] Per ulteriori approfondimenti sul punto, v. ancora S. Zirulia, Contrasti reali e contrasti apparenti nella giurisprudenza post-Cozzini su causalità e amianto, in Riv. ir. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1318 ss.

[8] Per un espresso richiamo al dovere del giudice di sottoporre a vaglio critico di attendibilità anche le conclusioni rassegnate dai periti, cfr. Cass. 13 giugno 2019, n. 45935, cit., in questa Rivista.