Scheda  
15 Febbraio 2022


Matrimoni forzati e “prezzo della sposa”: la Cassazione ribadisce l’irrilevanza di tradizioni e culture lesive della libertà individuale


Giordana Pepè

Cass., Sez. V, sent. 13 maggio 2021 (dep. 4 agosto 2021), n. 30538, Pres. Vessichelli


1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi – e a ribadire le posizioni già espresse in numerose altre occasioni – in materia di reati culturalmente motivati. Oltre all’efficace sintesi degli orientamenti giurisprudenziali di legittimità su questo spinoso tema, a rendere interessante la decisione è la peculiarità del caso con cui la Suprema Corte si è confrontata, espressione di un fenomeno sommerso e ben poche volte giunto al suo esame[1], che fornisce anche l’occasione per soffermarsi su una norma di recente introduzione nel codice penale (l’art. 558-bis c.p., costrizione o induzione al matrimonio). Si trattava, invero, della “cessione” in matrimonio di una ragazza di etnia Rom minore di sedici anni, a fronte del c.d. “prezzo della sposa”[2].

 

2. Imputato era il padre della giovane, che – senza il consenso di lei – l’aveva promessa e data in sposa ad un uomo, ricevendo in cambio un beneficio economico da parte del “patriarca” della famiglia cui apparteneva lo sposo. In primo grado è stato ritenuto responsabile del reato di riduzione in schiavitù (ex art. 600, comma 1, prima parte c.p.), aggravato per essere la vittima minore degli anni sedici e l’autore del reato il suo ascendente (ex art. 602-ter, commi 5 e 6 c.p.); sentenza confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze, che ha tuttavia ritenuto applicabili le circostanze attenuanti generiche (con giudizio di equivalenza sulle predette aggravanti ed una conseguente rimodulazione della pena), in ragione “della particolare condizione subculturale” in cui versava il soggetto.

 

3. Contro la pronuncia di seconde cure hanno fatto ricorso in Cassazione sia l’imputato che il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze. Quest’ultimo in particolare ha contestato la concessione delle circostanze attenuanti generiche, poiché la valutazione sulla “condizione subculturale” dell’imputato risultava confliggente con le risultanze processuali – attestanti al contrario un suo risalente e stabile inserimento in Italia –, ed era in ogni caso inidonea a giustificare la diminuzione di pena. Tale censura è stata ritenuta inammissibile dai Giudici di ultima istanza, in quanto attinente al merito della decisione e non essendo la motivazione sul punto manifestamente illogica. La sentenza è stata invece annullata con rinvio limitatamente al solo trattamento sanzionatorio[3].

 

4. In due dei quattro motivi di ricorso proposti dalla difesa dell’imputato, invece, si è fatto leva soprattutto sulla sua diversa cultura e sul peculiare significato rivestito dalle tradizioni legate al matrimonio in uso presso il popolo Rom.

 

4.1. Da un lato, infatti, si è affermato che l’uomo non aveva agito aderendo ad una mera “tradizione” della comunità Rom cui apparteneva, bensì in modo conforme ad un vero e proprio “ordinamento giuridico” vigente in essa, nel quale la cessione di una sposa a fronte di un prezzo corrisponderebbe ad un istituto giuridico consolidato, avente funzione di “risarcire” la famiglia della sposa per la perdita di un proprio membro e non certo di compravendere un essere umano. Per tali ragioni, il ricorrente lamentava l’errata valutazione sulla configurabilità del reato contestato, che la Corte di secondo grado aveva ritenuto sussistente individuando lo sfruttamento della ragazza proprio nel vantaggio patrimoniale conseguito dal padre di quest’ultima, così ignorandone il predetto significato culturale (e senza peraltro specificare in quale delle due forme previste dall’art. 600, comma 1 c.p.[4] si era realizzato il reato).

 

4.2. Dall’altro lato, si è sostenuta l’assenza dell’elemento psicologico del reato, data la mancata consapevolezza, da parte dell’imputato, del processo di “reificazione” cui stava sottoponendo la figlia, proprio alla luce delle sue influenze culturali e dell’ordinamento giuridico di riferimento, in conformità del quale era convinto di agire.

 

4.3. Su tali questioni si è incentrata principalmente la sentenza della Suprema Corte, che ha rigettato entrambe con un approfondito percorso argomentativo.

 

5. Dapprima, i Giudici di legittimità si sono soffermati sull’asserita omessa qualificazione giuridica dei fatti, ritenendola infondata in quanto la Corte d’Appello aveva considerato l’imputato responsabile, come descritto nel capo d’imputazione, della fattispecie sanzionata dalla prima parte dell’art. 600, comma 1 c.p.: “chiunque eserciti su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”. Invero, si è ravvisato l’esercizio, sulla minore, di un dominio equivalente a quello esercitabile su una cosa in virtù di un diritto dominicale.

 

5.1. Peraltro, valorizzando la lettera della legge (che richiede la mera “corrispondenza” tra i poteri di fatto esercitati e quelli del diritto di proprietà), la Corte di ultima istanza ne ha ribadito un’interpretazione atta ad includere “non solo la condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva da risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà”. Un processo di reificazione della persona, insomma, che ne comporta ex se lo sfruttamento e che ben poteva essere individuato, secondo i Giudici, nella percezione di un guadagno per la cessione della ragazza.

 

5.2. Questa argomentazione, come accennato, risulta in linea con l’interpretazione consolidata data dalla Cassazione più recente alla norma in questione[5]: in particolare, possono menzionarsi due casi simili a quello in commento (cfr. supra, nota 1), che sono stati oggetto di sentenze rispettivamente nel maggio 2016 e nel marzo 2019. Si era trattato, nel primo, di una minorenne kosovara condotta in un campo nomadi in Italia da una coppia, con la promessa di corrispondere alla sua famiglia 20.000 euro (in acconto dei quali erano stati versati 1.000 euro), per unirla in matrimonio con il loro figlio, anch’egli minorenne, nonostante il dissenso di lei. La giovane, tra l’altro, era stata costretta a svolgere prestazioni domestiche e sessuali nei confronti del marito, isolata, senza passaporto, in un nucleo di persone che non riconosceva come sua famiglia. La Corte aveva ritenuto sussistente il reato di riduzione in schiavitù (escluso invece in appello: v. infra, § 6.3.), affermando che “la riduzione della persona offesa ad oggetto di scambio commerciale, mediante la sottoposizione della stessa ad un atto di compravendita, integra di per sé una situazione di sfruttamento rilevante ai fini della configurabilità dei reati in esame, in quanto tale da rendere la vittima una res sulla quale esercitare diritti patrimoniali e da cui trarre utilità economiche[6]. Principio confermato nella successiva pronuncia, relativa ad una vicenda parzialmente diversa, in quanto tre uomini Rom avevano “acquistato” come spose tre donne (di cui una minorenne) provenienti dalla Romania, trattando e accordandosi con un terzo estraneo alle loro famiglie.

 

6. Più interessanti – per quanto anch’esse in linea, come si dirà, con l’orientamento ormai granitico della Suprema Corte sul punto specifico – risultano le considerazioni svolte sul tema delle motivazioni culturali. Dopo aver accuratamente definito[7] i c.d. “reati culturali” come la traduzione in termini giuridici del “conflitto che si determina tra ordinamenti di tipo consuetudinario tradizionale e ordinamenti di tipo statuale”, in presenza di un comportamento considerato illecito dall’ordinamento giuridico (espressione della cultura dominante) del luogo in cui viene tenuto, ma normale, approvato o addirittura incoraggiato dal gruppo culturale minoritario cui appartiene il soggetto che lo pone in essere, in quanto “conforme alle consuetudini ed alle tradizioni religiose o sociali costituenti la cifra identitaria del gruppo medesimo”, gli Ermellini hanno ripercorso puntualmente i loro orientamenti in materia.

 

6.1. In particolare, hanno rilevato come la giurisprudenza di legittimità abbia espresso posizioni solo apparentemente eterogenee nell’attribuire o meno rilevanza ai fattori culturali, e nell’ancorarla eventualmente ai diversi profili della struttura del reato (tipicità ed offensività, antigiuridicità, colpevolezza, o commisurazione della pena), anche a seconda dei casi concreti e delle doglianze dei ricorrenti. Invero, l’evoluzione sul tema ha portato a riconoscere “che dal regime di pluralismo confessionale e culturale delineato dalla nostra Costituzione agli artt. 2 e 8”, nonché da numerose fonti internazionali, discende un “diritto del singolo alla tutela della propria identità culturale e religiosa”, il quale però non può avere prevalenza assoluta e indiscriminata e deve essere bilanciato con gli altri diritti e interessi in gioco.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha sempre ed omogeneamente “escluso la configurabilità di una ‘scriminante culturale’ in tutti quei casi in cui l’esercizio del diritto dell’agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduce nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale presidiati dalle norme penali violate”. Necessità sancita, del resto, dalle stesse fonti internazionali che pure riconoscono il “diritto alla cultura”[8], nonché, con specifico riferimento alle violenze contro le donne, dall’art. 42 della Convenzione di Istanbul[9].

 

6.2. Calando questa chiara (ri)affermazione di principio nel caso concretamente al suo esame, la Suprema Corte ha affermato l’impossibilità di attribuire, su un piano oggettivo, alcuna valenza scriminante alle regole ed alle consuetudini della cultura Rom, posto che il soggetto agente ha leso un bene giuridico di rango costituzionale, appartenente al nucleo irrinunciabile dei diritti fondamentali della persona umana: la libertà individuale tutelata dall’art. 600 c.p., intesa come status libertatis (“ossia, non una forma particolare di manifestazione della libertà individuale, bensì il complesso delle manifestazioni che si riassumono in tale stato e la cui negazione comporta l’annientamento della stessa personalità dell’individuo”). L’unico varco lasciato aperto al possibile riconoscimento di motivazioni culturali anche in presenza di condotte lesive di beni fondamentali è stato individuato in “altri elementi strutturali del reato” (che non incidano sull’oggettiva rilevanza penale della condotta), o nella commisurazione del trattamento sanzionatorio (sia entro la cornice edittale, sia tramite circostanze attenuanti): da qui il corretto operare del Giudice di secondo grado che aveva riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche (v. infra, § 7).

 

6.3. Anche in tali statuizioni, la Corte di legittimità si è dimostrata coerente con le due precedenti sentenze già citate. Nel primo caso (deciso nel 2016), a giudizio delle Corti di merito non erano ravvisabili né uno stato di soggezione continuativa, né uno sfruttamento sessuale o lavorativo (bensì “semplici mansioni domestiche”), mentre la corresponsione di una somma di denaro alla famiglia d’origine della giovane trovava le sue radici nella particolare cultura degli agenti (in cui i matrimoni combinati erano d’uso), e pertanto non poteva integrare il reato di riduzione in schiavitù. Come già anticipato (supra, § 5.2.), in ultima istanza si è invece riconosciuto il reato di cui all’art. 600 c.p., giudicando sufficiente a integrarlo la compravendita della ragazza, con riferimento alla quale si è affermato che “le motivazioni culturali o di costume che abbiano mosso il soggetto agente non incidono sulla rilevanza penale della condotta, nelle sue oggettive connotazioni, rispetto alle previsioni incriminatrici in tema di riduzione in schiavitù[10]. Quanto alla sentenza del 2019, questa ha confermato la sussistenza del dolo di riduzione in schiavitù, data l’impossibilità “di riconoscere valenza scriminante o di esclusione della punibilità alle peculiarità culturali ed alle tradizioni del popolo Rom, seppure certamente condivise dagli imputati[11], e valorizzando il fatto che in quel caso non si trattava neppure di un vero e proprio “matrimonio per compera” combinato tra famiglie secondo la cultura Rom.

 

7. Decisamente più sintetiche sono state, invece, nella pronuncia del 2021 in esame, le motivazioni in punto di elemento soggettivo. La Corte Suprema, infatti, si è limitata a rilevare che le decisioni di merito, pur senza negare che l’imputato avesse agito in aderenza a modelli comportamentali quantomeno tollerati nella sua cultura di riferimento, facevano emergere altresì la sua piena consapevolezza dell’illiceità, secondo l’ordinamento italiano, della condotta realizzata. Il che si poteva ricavare sia dalla risalente presenza dell’uomo nel nostro territorio, sia dalle conversazioni telefoniche intercettate con il fratello, che mostravano “il tentativo di concordare una versione di ‘comodo’ per gli inquirenti”. Pertanto, l’unico ambito in cui poteva ammettersi qualche riconoscimento della cultura dell’imputato era quello, correttamente individuato dalla Corte territoriale, delle circostanze attenuanti generiche.

* * *

8. Condivisibili paiono le conclusioni della Cassazione. Quanto al primo aspetto, sebbene la letteratura antropologica consideri il c.d. “prezzo della sposa” come un particolare “istituto” della cultura Rom, individuandone le funzioni sociali non solo in una sorta di compensazione per la “perdita” di un membro della casa familiare, ma altresì in una definizione dello status sociale dei figli nati dall’unione e, soprattutto, una “garanzia” contro eventuali maltrattamenti della moglie (secondo l’idea che più un uomo paga per sposarla, meno sarà portato a farle del male, per non perdere il denaro versato)[12], ciò comunque non elimina il disvalore del fatto nelle sue connotazioni oggettive. A maggior ragione considerando il dissenso della ragazza, che evidentemente non aderiva alla tradizione e la cui libertà è stata certamente lesa (tanto che è scappata e ha denunciato i fatti).

Con riferimento, invece, all’elemento soggettivo, alla luce delle predette peculiari connotazioni che assume il “prezzo della sposa” presso la cultura di riferimento – per quanto arcaiche ed evidentemente non condivise in primis dalla diretta protagonista –, di primo acchito ci si potrebbe chiedere se l’imputato avesse realmente il dolo di ridurre in schiavitù la figlia, ossia la consapevolezza e volontà di “reificarla”, trattandola come un mero bene materiale da cui trarre l’utilità costituita dal prezzo. Tuttavia, la risposta non può che essere affermativa. Infatti, come già chiarito (supra, § 5), la condotta costituente reato è quella di cui all’art. 600, comma 1, prima parte c.p., ossia la mera dazione della giovane a fronte di un prezzo, che costituisce di per sé reificazione. E – al di là della comprovata consapevolezza dell’illiceità del suo comportamento, evidenziata nella sentenza – è precisamente questo che l’imputato si è rappresentato ed ha voluto, cedendo sua figlia minorenne al futuro marito e ricevendone in cambio una somma di denaro. Pagamento il cui significato culturale può aver agito da spinta motivazionale, ma non elide l’elemento soggettivo. Invero, la condotta si è concretizzata pur sempre nel trattare la donna, inequivocabilmente, come un oggetto di scambio: e proprio tale scambio è stato perseguito e voluto, seppur attribuendogli particolari funzioni e connotazioni socio-culturali.

 

9. Merita attenzione, infine, l’ultimo motivo di ricorso dell’imputato[13], con il quale si è preso in considerazione (per la prima volta in Cassazione e, per quanto è dato ad oggi sapere, nella giurisprudenza in generale) il reato di costrizione o induzione al matrimonio, ex art. 558-bis c.p. (introdotto recentemente nel codice penale, con Legge n. 69/2019, c.d. “Codice Rosso”). Era stata dedotta la mancata riqualificazione dei fatti contestati (di riduzione in schiavitù) nella nuova ipotesi di reato, in quanto sopravvenuta e più favorevole. I Giudici, però, hanno ritenuto inammissibile la doglianza, per due ordini di ragioni.

 

9.1. Preliminarmente, hanno sostenuto l’incoerenza insita nella prospettazione della difesa, non potendosi sostenere un fenomeno di successione tra due disposizioni e al tempo stesso affermare l’irrilevanza penale del fatto ai sensi di quella vigente sin dalla sua commissione (l’art. 600 c.p.) e la sua tipicità solo ai sensi di quella entrata in vigore in seguito (art. 558-bis c.p.).

Oltre a tale rilievo attinente al caso concreto, hanno altresì chiarito che l’introduzione del nuovo reato non ha realizzato una successione di leggi penali incriminatrici con riferimento al già vigente art. 600 c.p., in quanto i fatti tipizzati dalle due disposizioni non presentano elementi di contatto, rivolgendosi l’art. 558-bis c.p. ad un fenomeno – quello dei matrimoni forzati e/o precoci – di nuova incriminazione, non sussumibile in precedenza nell’art. 600 c.p. Nell’affermare ciò, hanno applicato il criterio di confronto strutturale tra le fattispecie (o “doppia incriminabilità in astratto”), ritenendo che “violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione di schiavitù, configurabile perfino quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato”, bensì di quello di riduzione o mantenimento in servitù, e che, prima dell’introduzione dell’art. 558-bis c.p., mai si era “ipotizzato che il ‘matrimonio forzato e/o precoce’ (sintetizzando quella che in realtà è la più composita tipologia di fatti ora incriminati dalla disposizione citata) integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600 c.p., comma 1”.

 

9.2. La ricostruzione della Cassazione sul punto è pienamente condivisibile. Va detto, in realtà, che le modalità di condotta tipizzate dal nuovo reato non si riducono alle sole violenza e minaccia (indicate al primo comma, che incrimina la costrizione vera e propria), poiché il secondo comma, prevedendo l’ipotesi della induzione, ne specifica anche altre. È pur vero però, come ricordato dalla Corte stessa, che tali diverse modalità si riscontrano nella fattispecie di riduzione o mantenimento in servitù, che non rilevava nel caso de quo.

Inoltre, il fenomeno dei matrimoni forzati[14] presenta elementi di contatto con quello della schiavitù o servitù, tanto da potersi considerare in taluni casi come loro forma moderna[15], poiché la condizione di assoggettamento in cui vengono a trovarsi le ragazze costrette o indotte a contrarre un’unione non desiderata ben può essere equiparata a quell’asservimento necessario a integrare l’art. 600 c.p. Ma, tralasciando in questa sede le difficoltà interpretative di simile equiparazione, in presenza di una sovrapposizione tra le due situazioni potrà configurarsi tutt’al più un concorso fra i detti reati, che tutelano momenti e aspetti diversi dell’esercizio della propria autodeterminazione e non si pongono in rapporto di specialità.

 

9.3. Il riferimento alle nuove fattispecie previste dall’art. 558-bis c.p., tuttavia, risulta utile proprio per riflettere su un ulteriore aspetto del fenomeno dei matrimoni contratti previo pagamento e più in generale presso il popolo Rom. Questi, come già emerso nel corso dell’analisi, quasi sempre sono organizzati dalle famiglie dei due sposi indipendentemente dal loro consenso, e in particolare dal consenso delle donne, peraltro molto spesso minorenni[16]. E anche nel caso in esame, al di là della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù, l’imputato ha certamente voluto le nozze di sua figlia a fronte del “prezzo della sposa” a prescindere dal consenso di lei: una condotta astrattamente riferibile, sia oggettivamente che quanto all’elemento soggettivo, al nuovo reato di induzione al matrimonio (ai sensi del comma 2 del predetto articolo), che però non era ancora in vigore all’epoca dei fatti. Risulta pertanto evidente l’utilità della sua introduzione, posto che ha attribuito rilevanza penale a quelle particolari situazioni di matrimonio senza consenso che, pur presentando un oggettivo disvalore, non sempre potevano essere ricondotte ad altre ipotesi di reato (come invece accaduto nel caso in questione), per la difficoltà di ravvisarne tutti gli elementi (specialmente laddove non fossero connotate dalla dazione di un prezzo).

 

10. Concludendo brevemente, la sentenza esaminata ha il merito di aver ribadito anche in via di principio l’irrilevanza, rispetto all’oggettivo disvalore di fatti lesivi di diritti fondamentali, di motivazioni legate a tradizioni e cultura, con un’argomentazione approfondita e un excursus completo sui suoi orientamenti. Di conseguenza, con riferimento al caso concreto, convincono sia la riconduzione del “matrimonio dietro pagamento” alla fattispecie tipica di riduzione in schiavitù, sia la riconosciuta sussistenza del dolo del reato, non potendosi valorizzare il significato culturale del rito nemmeno per escludere l’elemento soggettivo. In altri termini: perpetuare una tradizione che, di fatto, tratta un essere umano (nel caso di specie, le donne) come un oggetto di scambio, non elide certo la consapevolezza e volontà di tale trattamento solo perché di tradizione si tratta.

In ogni caso, la condotta posta in essere dall’imputato e il suo elemento psicologico paiono oggi sussumibili anche nell’ipotesi di cui all’art. 558-bis, comma 2 c.p., entrato in vigore solo successivamente alla commissione dei fatti. Ciò rende più tangibili l’utilità e la portata del reato di costrizione o induzione al matrimonio, in casi in cui l’applicazione di altre norme sarebbe impossibile o comporterebbe una forzatura di alcuni elementi del reato. Anche perché le nuove fattispecie, nominando in modo chiaro e più aderente alla realtà il fenomeno che incriminano, possono far risultare più comprensibile l’intervento penale allo stesso “agente culturalmente motivato”, e dunque soddisfare meglio altresì le funzioni di rieducazione e risocializzazione della pena.

 

 

[1] Tra i pochissimi precedenti, interessanti sono quelli oggetto di Cass. V, 05/05/2016 (dep. 31/05/2016), n. 23052 in Leggi d’Italia.it, e Cass. V, 08/03/2019 (dep. 06/09/2019), n. 37315, in Leggi d’Italia.it, su cui v. amplius infra, § 5.2., 6.3.

[2] Per un approfondimento su tale tradizione dal punto di vista antropologico, con particolare riferimento ai gruppi Rom bulgari, cfr. A. Pamporov, Sold like a donkey? Bride-price among the Bulgarian Roma, in The Journal of the Royal Anthropological Institute, Vol. 13, n. 2, 2007, pp. 471-476. Il contributo evidenziava le precipue funzioni sociali assunte dalla consuetudine di versare un pagamento alla famiglia della ragazza che contrae matrimonio (cfr. infra, § 8). Lo stesso Autore, tuttavia, riconosceva già nel 2007 il sottile confine tra l’accordo della donna e la violenza, nonché il necessario – per quanto delicato – contemperamento tra il rispetto di consuetudini culturali (peraltro in continua evoluzione) e la tutela delle donne da violazioni dei diritti umani. Per una diversa riflessione sui matrimoni presso le comunità Rom, cfr. L. Mancini, Il matrimonio invisibile e i diritti del minore. Riflessioni a partire da una recente sentenza, in L.E. Ríos Vega, I. Ruggiu, I. Spigno (a cura di), Theory and practice concerning the use of culture in courtrooms, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020.

[3] In accoglimento del terzo motivo di ricorso del Procuratore Generale, riguardante il bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti, avvenuto in violazione dell’art. 602-ter, comma 10 c.p.

[4] Una, enucleata nella prima parte del comma, di mera condotta (riduzione o mantenimento in stato di schiavitù) e l’altra, di cui alla seconda parte dello stesso, con evento (riduzione o mantenimento in stato di servitù).

[5] Pur non essendo mancati arresti di segno contrario, in linea con la dottrina per cui alla mercificazione della persona (attuata mediante atti tipici del diritto di proprietà, quali la compravendita o la cessione a titolo gratuito), dev’essere ontologicamente correlato anche uno stato effettivo di sottomissione e sfruttamento della vittima. Sul punto, cfr. C. Paravani, Commento all’art. 600 c.p., in A. Cadoppi, S. Canestrari, P. Veneziani (a cura di), Codice penale commentato con dottrina e giurisprudenza, Giappichelli, Torino, 2018, p. 2377. La stessa ricostruzione è operata da Viganò, che riporta due pronunce della Cassazione secondo cui non ricorre lo sfruttamento solo perché un soggetto si proponga di inserire, sebbene illegalmente, un neonato compravenduto in una famiglia diversa da quella d’origine: cfr. F. Viganò, Commento all’art. 600 c.p., in G. Marinucci, E. Dolcini, G. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, tomo III, IV ed., IPSOA, Milano, 2015, p. 190.

[6] Cass. V, 05/05/2016 (dep. 31/05/2016), n. 23052, in Leggi d’Italia.it, pag. 3.

[7] Sulla scorta della fortunata definizione di J. Van Broeck, Cultural defence and culturally motivated crimes (cultural offences), in European journal of crime, criminal law and criminal justice, vol. 9, n. 1, 2001, pp. 1-32.

[8] Per esempio, l’art. 2 della Convenzione ONU di Parigi del 2005 sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali (ratificata dall’Italia con Legge n. 19/2017) stabilisce che le disposizioni della stessa non possono essere invocate per pregiudicare i diritti umani e le libertà fondamentali consacrati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo o garantiti dal diritto internazionale, né per limitarne la portata.

[9]Parties shall take the necessary legislative or other measures to ensure that, in criminal proceedings initiated following the commission of any of the acts of violence covered by the scope of this Convention, culture, custom, religion, tradition or so-called honour shall not be regarded as justification for such acts. This covers, in particular, claims that the victim has transgressed cultural, religious, social or traditional norms or customs of appropriate behaviour.

[10] Cass. V, 05/05/2016 (dep. 31/05/2016), n. 23052, in Leggi d’Italia.it, pag. 3.

[11] Cass. V, 08/03/2019 (dep. 06/09/2019), n. 37315, in Leggi d’Italia.it, pag. 3.

[12] A. Pamporov, op. cit.

[13] Meno rilevante invece il motivo con cui si lamentava una presunta inattendibilità della donna, che è stato ritenuto inammissibile avendo il suo racconto trovato plurimi riscontri nel complesso delle risultanze processuali.

[15] Come sancito da molteplici normative internazionali, prima fra tutte la Convenzione supplementare di Ginevra (ONU) del 1956 sull’abolizione della schiavitù, della tratta di schiavi e delle pratiche analoghe alla schiavitù (ratificata dall’Italia nel 1958), il cui art. 1 annovera tra le condizioni simili alla schiavitù anche forme di matrimonio dietro corrispettivo, o altri tipi di cessione di una donna ad altri senza il suo consenso, assimilabili a matrimoni forzati.

[16] Per un’interessante indagine sui matrimoni precoci Rom nel contesto delle baraccopoli romane, v. Associazione 21 luglio Onlus, Non ho l’età. I matrimoni precoci nelle baraccopoli della città di Roma, 2017.