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12 Aprile 2022


Pronunciandosi per la prima volta nel merito sull'art. 613-bis c.p., la Cassazione aderisce alla tesi della tortura c.d. di Stato come fattispecie automa di reato

Cass., Sez. III, sent. 25 maggio 2021 (dep. 31 agosto 2021), n. 32380, Pres. Marini, est. Di Nicola, ric. R.C.C.



1. La recente pubblicazione delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sui fatti di Santa Maria Capua Vetere[1], annotata per questa Rivista da Silvia Bernardi[2], e l’altrettanto recente epilogo della vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi suggeriscono di dare il giusto risalto a Cass., sez. III, sent. 25 maggio 2021 (dep. 31 agosto 2021), n. 32380, ric. R.C.C. già pubblicata in questa Rivista con il commento di Francesca Romana Garisto[3].

Si tratta, a quel che consta, della prima pronuncia in cui i giudici di legittimità si sono confrontati con la fattispecie di cui all’art. 613 bis c.p.p. in un giudizio di merito, rigettando il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che aveva, a sua volta, confermato la sentenza di condanna resa in rito abbreviato dal G.U.P. di Santa Maria Capua Vetere.

Sebbene il caso concreto sottoposto all’attenzione del collegio fosse un caso di tortura cd. comune – per la cui ricostruzione si rimanda, appunto, al commento di Francesca Romana Garisto – nell’approfondita motivazione l’autorevole collegio non si è sottratto ad una più ampia disamina dell’art. 613 bis c.p., fornendo all’interprete le chiavi ermeneutiche per affrontare molti dei profili problematici che si erano evidenziati in sede di prima applicazione, anche (e soprattutto) in riferimento alle ipotesi di tortura cd. di Stato.

 

2. Tra le numerose affermazioni di principio rese dalla terza sezione, con l’ambizione di contribuire a plasmare il diritto vivente in conformità con gli obblighi sovranazionali di tutela penale, conviene cominciare da quella più dirompente: ad avviso del collegio, la l. n. 110/2017 ha introdotto all’art. 613-bis c.p. “due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato”, ovverosia la “tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria)”, disciplinata dal co. 1, e “la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria)”, che si configura “se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’articolo 613 bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio” (e che, pertanto, è disciplinata dal combinato disposto dei co. 1 e 2).

La scelta del legislatore è stata, dunque, quella di “ampliare il raggio dell’incriminazione rispetto alla soglia minima richiesta, come ius cogens, dal diritto internazionale, riconoscendo la configurabilità del reato anche nelle relazioni private, fermo restando che la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, cin diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’articolo 613 bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali” (cfr. il par. 3.2 della motivazione).

Il riferimento è alla fattispecie di criminalizzazione delineata dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984 contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, che “ha fissato una soglia minima di punibilità della tortura, privilegiando quelle forme in cui la struttura del reato richiede il dolo specifico (…)  e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici” (par. 3.1. della motivazione).

 

3. Fondamentale anche la puntualizzazione in ordine al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in parola, stante la lacunosità dei lavori preparatori[4]. Il Collegio ha infatti chiarito che, se la collocazione sistematica dell’art. 613 bis c.p. “induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche”, “l’oggettività giuridica criminosa “specifica” abbia un contenuto più pregnante, e si identifichi nientemeno che con la dignità umana: la tortura si caratterizza infatti per la “conclamata e terribile attitudine (…) di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento”, e si traduce dunque “nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili” (par. 3.2. della motivazione).

 

4. Quanto alla struttura dell’incriminazione, i giudici della terza sezione hanno ribadito che “il delitto di cui all'art. 613-bis c.p., comma 1, è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta – ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime - è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall'art. 1 della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo)” (par. 3.3. della motivazione).

 

5. A proposito del presupposto della condotta che consiste nella preventiva privazione della libertà personale, la Corte ha chiarito – anche in questo recependo gli auspici della dottrina maggioritaria - che “la fattispecie incriminatrice ex art. 613-bis c.p., non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale, con la conseguenza che la norma trova applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall'autore del reato” e, ancora, che “La privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all'interesse giuridicamente tutelato dall'incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento, in linea con il dettato di cui all'art. 13 Cost., nella parte in cui la disposizione si riferisce, oltre alla detenzione, a qualsiasi altra restrizione della libertà personale, dovendosi invece escludere che ogni forma di limitazione della libertà in senso lato (di fare o di non fare) rientri nell'oggettività giuridica criminosa della fattispecie in esame” (par. 3.3. della motivazione).

 

6. Quanto agli “eventi tipici del reato, tra di loro alternativi, ossia le "acute sofferenze fisiche" o l'insorgenza di "un verificabile trauma psichico" non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito. Neppure è previsto che il trauma psichico sia durevole, sicché nella nozione vi rientrano anche quelli a carattere transeunte, ma deve essere "verificabile", nel senso che deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico. Allo stesso modo del "grave e perdurante stato di ansia e di paura", di cui al reato di atti persecutori, l'accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (par. 3.3. della motivazione). Anche sotto tale profilo, dunque, la Cassazione ha realizzato gli auspici della dottrina, secondo la quale tanto le acute sofferenze fisiche quanto il verificabile trauma psichico dovevano intendersi come un quid minus rispetto alla nozione cd. funzionalistica di malattia che la identifica in un “processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno grave compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo”[5].

* * *

7. Il commento già ospitato in questa Rivista ha ben messo in luce il profilo dei rapporti tra la fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. e quella di cui all’art. 572 c.p., che, come condivisibilmente argomentato dalla sentenza annotata, possono certamente concorrere[6].

Il caso concreto oggetto della pronuncia della Corte è emblematico del peculiare disvalore dei fatti di tortura cd. privata commessi in ambito familiare, che travalica quello dei semplici maltrattamenti e non dà ragione a quanti avevano criticato la formulazione dell’art. 613-bis co. 1 c.p. ritenendo che lo stesso andasse a sovrapporsi ad altre fattispecie codicistiche, e in particolare a quella di cui all’art. 572 c.p.[7]

 

8. L’unica affermazione problematica della sentenza – ad avviso di chi scrive, condizionata dalla fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del collegio – riguarda il requisito della reiterazione delle condotte, richiesto dalla norma incriminatrice laddove non sia ravvisabile un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si legge, sempre al par. 3.3 della motivazione: “il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l'integrazione della fattispecie la commissione di un'unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all'evento”.

In relazione all’affermazione apodittica secondo cui il fatto di reato “deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente)”, deve in primo luogo evidenziarsi che una simile soluzione interpretativa, non imposta dalla lettera dell’art. 613 bis co. 1 c.p.p., andrebbe a restringere indebitamente l’ambito di applicazione della fattispecie in parola, con ciò ponendosi in aperta violazione degli obblighi costituzionali e sovranazionali di criminalizzazione della tortura che il collegio giudicante ha, viceversa, dimostrato di tenere in adeguata considerazione nel complesso della motivazione.

La ragione di questa “sbavatura di penna” va, forse, ricercata nelle peculiarità del caso oggetto del ricorso: al par. 3.4 della motivazione, dedicato per l’appunto alla disamina della fattispecie concreta da cui era scaturita la vicenda processuale, l’estensore ha evidenziato come “tutto ciò [fosse] stato compiuto attraverso gravi minacce e altrettanto gravi e inaudite violenze, ponendo la vittima in una condizione di completo assoggettamento e sconforto, realizzando atti tipici di inflizione della sofferenza corporale attraverso una pluralità di condotte reiterate e cronologicamente consistenti in quanto non limitate ed esaurite in un unico contesto spazio-temporale, mostrando particolare efferatezza, insensibilità, gratuità e ponendo in essere comportamenti, oltre che di grande sofferenza fisica, anche umilianti”.

Alla luce del complessivo tenore della motivazione, è dunque verosimile ritenere che il Collegio non intendesse realmente affermare che, per assumere rilievo penale ai sensi dell’art. 613 bis c.p., le violenze e le minacce gravi non possono esaurirsi in un unico contesto spazio-temporale, ma che si sia semplicemente limitato a rilevare, sul piano meramente descrittivo, come nel caso concreto tali condotte fossero state reiterate in un arco temporale di circa due mesi.

Va, a tal proposito, ricordato che Cass., sez. V, sent. n. 50208 dell’11.10.2019 – dalla quale la sentenza in commento non si è apertamente discostata aveva già avuto modo di affermare che, “Ai fini dell'integrazione del delitto di tortura di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione "mediante più condotte" va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”: per l’integrazione del delitto di tortura nella sua forma abituale devono, dunque, ritenersi sufficienti due condotte, reiterate anche in un minimo lasso temporale; e tali sono state in effetti ritenute dalla Suprema Corte, nella vicenda delle vessazioni perpetrate da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile di Manduria oggetto della pronuncia ora citata (già pubblicata, a suo tempo, su questa Rivista)[8], in relazione alla posizione di un imputato che asseriva di essersi recato una sola volta presso l’abitazione della vittima, dal momento che il video acquisito agli atti consentiva di attribuire al medesimo la perpetrazione di più condotte violente, ancorché poste in essere nello stesso contesto cronologico.

Tale principio è stato, ancor più di recente, ribadito dalla sentenza della quinta sezione sulle vicende dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che si è menzionata in incipit, ancorché, nel caso di specie, si trattasse di un caso di tortura cd. di Stato e le (plurime) condotte penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 613-bis c.p. non si fossero esaurite nel pomeriggio del 6 aprile 2020 ma fossero proseguite con ulteriori vessazioni anche nei giorni successivi[9].

Neppure persuade la qualificazione del trattamento inumano e degradante per la dignità della persona alla stregua di un ulteriore elemento costitutivo del reato proposta dalla sentenza in commento (e segnatamente, come sembra di poter implicitamente dedurre, quale ulteriore evento, accanto a quelli “tipici” delle acute sofferenze fisiche o del verificabile trauma psichico).

L’espressione utilizzata dall’art. 613-bis co. 1 c.p. – “se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona” – non pare, infatti, in alcun modo sottintendere un riferimento al nesso di causalità (che dovrebbe necessariamente legare la condotta all’evento, laddove si qualificasse come tale l’elemento costitutivo “trattamento inumano o degradante”).

Come si è sostenuto in altre occasioni, è verosimile ritenere che il legislatore abbia introdotto quest’espressione nel tentativo di ottemperare all’obbligo di incriminazione espresso anche in riferimento ai trattamenti inumani e degradanti dalla Corte EDU nelle sentenze sul G8 di Genova del 2001, senza considerare che, per la giurisprudenza di Strasburgo, fra le tre categorie di mistreatments vietate dall’art. 3 Cedu vi è un rapporto di continenza e di progressione scalare, sicché non può esservi tortura senza che vi sia, al tempo stesso un trattamento inumano e degradante[10]. Si tratta, dunque, di una locuzione di fatto priva di una reale capacità selettiva.

 

9. Al di là dei profili problematici sui quali ci si è appena soffermati, è senz’altro auspicabile che le soluzioni interpretative adottate dalla sentenza in commento vengano recepite dalla giurisprudenza successiva, di merito e di legittimità.

Dopo l’introduzione dell’art. 613-bis c.p. ad opera della l. n. 110 del 2017, la partita dell’ottemperanza dello Stato italiano agli obblighi positivi discendenti dall’art. 3 Cedu si è infatti spostata sul fronte dell’interpretazione. Sebbene la fattispecie di tortura oggi prevista dal codice penale sia caratterizzata da vistose ambiguità e ridondanze, le prime applicazioni nei rapporti verticali hanno dimostrato come la stessa sia, in astratto, idonea a reprimere fatti analoghi a quelli oggetto delle sentenze della Corte EDU che hanno dato un fondamentale impulso alla sua introduzione; ciò, ovviamente, a patto che i giudici nazionali – di merito e di legittimità – facciano un corretto uso degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, in particolare evitando, nei limiti in cui il dato letterale lo consenta, interpretazioni restrittive dell’art. 613-bis c.p. che ne circoscrivano indebitamente l’ambito applicativo, e che in quanto tali si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cedu, con l’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura e con le altre norme sovranazionali rilevanti in materia.

Il grado di approfondimento e la chiarezza della motivazione della sentenza in commento e, soprattutto, il fatto che la pronuncia sia stata resa dalla terza sezione in un giudizio di merito, e non in fase cautelare, autorizzano un cauto ottimismo.

 

 

[1] Cass., sez. V, sent. 9 novembre 2021 (dep. 16 marzo 2022), n. 8973, ric. M.G.

[4] Si consenta, anche per la rassegna delle tesi dottrinali sul punto, il riferimento ad A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1957-1960.

[5][5] Cfr. ancora una volta, anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, A. Colella, sub Art. 613-bis, cit., pp. 1971-1973. La definizione di malattia menzionata nel testo è quella adottata dalle Sezioni Unite nella celebre sentenza Giulini del 18 dicembre 2008.

[6] La sentenza in commento pare aver sul punto recepito l’orientamento dottrinale che individuava il criterio di differenziazione tra i due reati sul crinale della distinzione tra reato abituale cd. proprio e improprio: mentre valgono ad integrare l’elemento oggettivo dell’art. 572 c.p. anche fatti privi di rilevanza penale (quali le ingiurie, ormai depenalizzate) o comunque non gravi, ai fini della configurabilità dell’art. 613 bis c.p. vanno invece considerati solo i fatti che costituiscono di per sé reato e che si caratterizzano per la loro gravità e per la loro inidoneità a cagionare in capo al soggetto passivo acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, superando una “soglia minima di gravità” che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. Ancora una volta sia consentito il rinvio ad A. Colella, sub Art. 613-bis, cit., p. 1989.

[7] Cfr. A. Colella, sub Art. 613-bis, cit., p. 1962.

[9] Ad avviso di chi scrive, la fattispecie di tortura cd. di Stato di cui al combinato disposto dei co. 1 e 2 dell’art. 613-bis c.p. è un reato necessariamente abituale, alla luce dell’espressione “Se i fatti di cui al primo comma” che figura all’inizio del co. 2.

[10] Cfr. ancora, anche per i necessari riferimenti giurisprudenziali, A. Colella, sub Art. 613-bis, cit., pp. 1969-1970.