ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
28 Ottobre 2021


Quando i maltrattamenti divengono anche tortura: la Cassazione riconosce il concorso tra 572 e 613-bis c.p. in un caso di violenze reiterate ai danni della partner

Cass., Sez. III, sent. 25 maggio 2021 (dep. 31 agosto 2021), n. 32380, Pres. Marini, est. Di Nicola



1. Quando i giudici di merito adottano decisioni destinate ad aprire la strada ad una lettura della violenza maschile sulle donne libera da pregiudizi e stereotipi di genere, di cui ancora tanta magistratura subisce l’influenza, la Corte di Cassazione sempre più spesso ne riconosce il valore e fornisce gli strumenti interpretativi che ci aspettiamo entrino e si diffondano nelle nostre aule di giustizia. Con la decisione in esame, la Suprema Corte ha confermato le decisioni di merito tra loro conformi nel riconoscere che la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. non esaurisce il disvalore delle condotte violente che talvolta travalicano i confini della violenza domestica per sfociare nella “inflizione brutale di sofferenze corporali” rilevanti ai sensi del più grave reato di tortura privata (art. 613-bis, comma 1, c.p.).  

 

2. La sentenza motiva le ragioni secondo le quali tra le due norme non sussiste un rapporto di continenza, dal momento che non vi è coincidenza tra gli elementi strutturali delle due fattispecie, essendo differente anche il bene giuridico tutelato. La Cassazione ci ricorda che il bene giuridico tutelato dall’art. 613-bis c.p. è la “dignità umana”, lesa da condotte che infliggono alla vittima sofferenze fisiche o psichiche tali da determinare un assoggettamento totale della vittima, che viene “trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento”. Nel caso concreto, peraltro, il concorso (materiale) tra le due figure di reato è stato giustificato anche per la non piena coincidenza temporale delle condotte che le hanno integrate.

 

3. Con riguardo poi al concorso tra il delitto di tortura e quello di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), la Corte, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997), ribadisce che “anche la violenza sessuale può assurgere a tortura”, laddove l’atto sessuale imposto alla vittima sia accompagnato dalla privazione della libertà e abbia causato “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”.

 

4. Il riconoscimento del delitto di tortura nel caso in esame appare del resto evidente, alla luce dei comportamenti nei quali si è tradotta la violenza inflitta alla donna dal suo fidanzato: alla serie di atti lesivi della sua integrità fisica e psichica, tali da rendere dolorosa e mortificante la relazione, sono seguiti nel tempo numerosi episodi di efferata violenza, tali da mettere a rischio la sua stessa vita, violenze sessuali ripetute, “immediatamente dopo che la vittima era stata violentemente percossa”,  fino ad arrivare al culmine della crudeltà, quando la donna è stata “marchiata sul fianco con una forchetta rovente” così come, in un’altra occasione, “costretta a rimanere nuda sotto la doccia fredda per circa un’ora, mentre l’imputato continuava a percuoterla con calci e corpi contundenti”.

 

5. La Cassazione coglie l’occasione per valorizzare la centralità processuale oltre che umana della persona offesa vittima di tali violenze, le cui dichiarazioni, ricorda la Corte, potrebbero anche da sole costituire prova della responsabilità dell’imputato. Allo stesso modo, rileva la sentenza, la prova delle “acute sofferenze fisiche” o della “insorgenza di un trauma psichico”, quali eventi alternativi richiesti dalla norma, non richiede necessariamente una perizia, ma può emergere nel processo dalle sole dichiarazioni e dai comportamenti della persona offesa. Infatti non è necessario che tali eventi sfocino in lesioni personali ai sensi dell’art. 582 c.p., come tali documentabili e oggetto di una specifica aggravante del delitto di tortura, né devono avere effetti durevoli ma devono poter essere verificabili nel processo e la verifica da parte del giudice deve necessariamente fondarsi su quanto la persona offesa dichiara.

 

6. Di fronte alla tendenza ricorrente della opinione pubblica e della politica a reclamare nuove norme, sempre più stringenti e più efficaci per contrastare la violenza maschile sulle donne, non resta che auspicare che decisioni come questa, fondate sulle norme già esistenti nel nostro ordinamento e provenienti dalla magistratura più autorevole, possano far capire a donne e uomini la gravità della violazione dei diritti umani che possono realizzarsi nelle relazioni intime, attraverso le più svariate forme di violenza, e portare così a un cambiamento culturale. La novità culturale di questa sentenza risiede proprio, oltreché nella capacità di aver riconosciuto gli estremi della tortura in una vicenda di violenza domestica, nella valorizzazione della donna, della sua sofferenza, della sua libertà e della sua parola.