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16 Novembre 2021


Alle sezioni unite due questioni in tema di imparzialità del giudice della prevenzione. Un’altra tappa lungo il sentiero della ‘giurisdizionalizzazione’?

Cass., Sez. V, 5 ottobre 2021 (dep. 28 ottobre 2021), ord. n. 38902, Pres. Miccoli, rel. De Marzo, ric. Lapelosa



1. Sebbene il legislatore non abbia mancato, negli ultimi anni, di mettere mano alla disciplina del processo di prevenzione al fine di implementarne le garanzie[1], ancora oggi il quadro normativo di riferimento appare sovente lacunoso e foriero di dubbi interpretativi. Di qui i numerosi interventi, in subiecta materia, della Corte di cassazione, spesso chiamata a chiarire se e in quale misura alla laconicità del c.d. codice antimafia possa porsi rimedio rifacendosi ai principi accolti nel codice di procedura penale.

Le questioni oggi rimesse al massimo organo nomofilattico con l’ordinanza in epigrafe appaiono coerenti con questa tendenza evolutiva, dovendosi stabilire in quale misura la disciplina dettata in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione dagli artt. 34 ss. c.p.p. possa applicarsi al processo di prevenzione. In particolare, la quinta sezione della Corte di cassazione, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, ha chiesto alle Sezioni unite di chiarire, da un lato, «se la disciplina delle cause di incompatibilità del giudice contenuta nel codice di procedura penale è interamente applicabile, in quanto compatibile, anche al procedimento di prevenzione, attesa la natura giurisdizionale dello stesso, ovvero se, in ragione della tipologia e dell’oggetto del procedimento di prevenzione, non possono ritenersi applicabili le disposizioni dell’art. 34 c.p.p. diverse dal comma 1 pur richiamate dall’art. 36 alla lettera g), cod. proc. pen.», e, dall’altro lato, «se al procedimento di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. nel caso in cui il giudice abbia in precedenza espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale»[2].

 

2. I profili della vicenda procedimentale che qui interessano si lasciano riassumere in poche battute.

Il ricorrente si era visto applicare una misura di prevenzione in quanto ritenuto autore del delitto di trasferimento fraudolento di valori e aveva impugnato il decreto emesso dal tribunale di fronte alla Corte d’appello di Potenza. Parallelamente, lo stesso aveva appellato anche la sentenza di condanna che, in sede penale, lo aveva ritenuto colpevole del medesimo fatto. Tenuto conto di ciò, la sezione misure di prevenzione della Corte d’appello aveva rinviato la trattazione del ricorso al fine «di “acquisire la decisione nel merito della Corte d’appello”»[3].

Dopo che la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di condanna, il proposto aveva ricusato uno dei giudici chiamati a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione, in quanto lo stesso aveva concorso a pronunciare la sentenza penale di secondo grado. Tuttavia, la ricusazione era stata ritenuta inammissibile sull’assunto dell’inapplicabilità, nel procedimento di prevenzione, dell’art. 37, co. 1, cod. proc. pen. nella parte in cui – a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 283/2000 – prevede che possa essere ricusato il giudice che abbia espresso in altro procedimento una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto.

Criticando tale interpretazione del quadro normativo, il ricusante aveva quindi proposto ricorso per cassazione per violazione di legge.

 

3. L’orientamento giurisprudenziale cui si è appena fatto cenno è stato accolto, anche di recente, da diverse pronunce della Corte di cassazione in scenari tra loro differenti. In particolare, si è ritenuto non ricusabile ex art. 37, co. I, lett. b), c.p.p. il giudice della prevenzione che aveva precedentemente espresso una valutazione di merito sui medesimi fatti in un giudizio penale[4], o in sede cautelare quale giudice del riesame[5], o, ancora, in altro procedimento di prevenzione[6].

I sostenitori di questo filone interpretativo muovono dalla premessa secondo cui il procedimento di prevenzione, pur avendo intrapreso un «percorso di giurisdizionalizzazione», non può essere sovrapposto al processo penale, permanendo «una sensibile “diversità di oggetto e di scopo” che legittima, “sul piano dei valori, scelte diversificate in punto di conformazione normativa del diritto di difesa del soggetto proposto per l’applicazione della misura di prevenzione”»[7]. Nel garantire l’imparzialità del giudice della prevenzione – valore pur sempre da preservare, stante la natura giurisdizionale del rito – occorrerebbe pertanto «selezionare le norme applicabili», non potendosi ricorrere all’automatica «trasposizione dell’intera disciplina posta a presidio dell’imparzialità del giudice penale»[8]. Tale operazione, secondo questo indirizzo, condurrebbe a ritenere senz’altro applicabili nel procedimento di prevenzione le disposizioni di cui agli artt. 34 co. I, 35, 36 co. I lett. a), b), c), d), f), h) e 37 co. II, c.p.p., per via dell’«appannamento»[9] che la condizione di imparzialità del giudice subisce in queste ipotesi. Diversamente, il giudice che abbia espresso valutazioni di merito sui medesimi fatti in altro procedimento non potrebbe essere ricusato per via del fatto che l’art. 7, co. 9, cod. ant. opera un rinvio generale alle disposizioni contenute nell’art. 666 c.p.p., il quale «non solo non prevede la facoltà di ricusazione, ma addirittura valorizza il rapporto tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione»[10]. Allo stesso modo, risulterebbero altresì inapplicabili le disposizioni di cui all’art. 34 c.p.p. diverse dal primo comma, in ragione della «particolare conformazione del procedimento di prevenzione»[11].

Oltre a questi snodi motivazionali, ripercorsi puntualmente nell’ordinanza in esame, nel solco di questo primo orientamento giurisprudenziale è possibile rinvenire anche altri argomenti.

Talora si è perentoriamente affermato che «i casi di incompatibilità che possono dare luogo a legittime dichiarazioni di ricusazione hanno carattere eccezionale e tassativo»[12] e, pertanto, sfuggendo all’applicazione analogica, non potrebbero essere invocati in procedimenti diversi da quello penale[13].

Con specifico riferimento alla non ricusabilità del giudice che abbia espresso valutazioni pregiudicanti in altro procedimento, si è poi spesso valorizzata la diversità di oggetto tra il processo penale e quello di prevenzione. Il processo di prevenzione personale, infatti, è volto all’accertamento della pericolosità del proposto e la «componente ricostruttiva delle condotte» da questi tenute, possibile oggetto di altri procedimenti, «rappresenta solo una (sia pur rilevante) porzione del giudizio complessivo, per sua natura prognostico (ed in tal senso libero da precedenti valutazioni) e non diretto alla inflizione di una pena»[14]. L’eventuale pronuncia di condanna resa in altro procedimento entrerebbe così «nel giudizio di prevenzione come mero fatto (“un precedente penale”)», concorrendo all’accertamento della «propensione del soggetto ad infrangere la legge penale» insieme «a tutti gli altri elementi e situazioni indicati negli artt. 1 e 4 del d.lgs. 159/2011 (condotta, tenore di vita, frequentazioni, altri procedimenti penali o di polizia)»[15]. In una prospettiva simile si è poi osservato, con una considerazione che abbraccia anche il processo di prevenzione patrimoniale, che il giudizio retrospettivo effettuato dal giudice della prevenzione «non ricostruisce in quanto tale uno specifico fatto di reato ma realizza un aspetto cognitivo sulle condotte della persona in funzione della formulazione, positiva o negativa, di una prognosi di pericolosità attuale e/o di illecita accumulazione patrimoniale»[16].

Un ulteriore argomento che spesso affiora nelle sentenze di questo primo orientamento giurisprudenziale fa leva sulle peculiarità strutturali del rito preventivo. In particolare, si è sottolineato che «nel modello legale del procedimento di prevenzione non vi è separazione funzionale tra giudice della fase cautelare (in caso di sequestro dei beni, di emissione provvisoria del provvedimento di ritiro del passaporto ai sensi dell’art. 9 o di anticipazione dei divieti di cui all’art. 67 co. 3 d.lgs. del 2011) e giudice della decisione di primo grado, mentre il giudizio penale è connotato da una marcata differenziazione, derivante anche dal principio di separazione tra le fasi del procedimento»; ciò che rivelerebbe «la misura di come il legislatore […] abbia diversamente apprezzato – in modo non irragionevole – la necessità di tutela dell’apparenza di imparzialità», lasciando che nel procedimento di prevenzione il «contrasto della c.d. ‘forza pregiudicante’ della prima valutazione» sia affidato «al contraddittorio (davanti al medesimo giudice) e alla progressione istruttoria»[17]. Alla luce di ciò, «[n]on risulterebbe coerente […] una attribuzione alla parte del potere di ricusare il giudice della prevenzione – che può legittimamente esercitare il potere cautelare e poi decidere nel merito – lì dove la forza del pregiudizio risulti indubbiamente meno intensa (per valutazioni emesse in diverso procedimento)»[18].

Con particolare riferimento all’ipotesi in cui il giudice della prevenzione abbia precedentemente partecipato a un altro procedimento di prevenzione nei confronti dello stesso soggetto, si è poi osservato che «l’inoltro di una nuova domanda da parte dell’organo titolare dell’azione non può che derivare (a pena di improcedibilità, data la forza preclusiva del bis in idem anche in tale settore) da un novum (intendendosi per tale anche un fatto emerso ma non delibato) e ciò confina la precedente valutazione […] nel contenitore dei meri antecedenti storici»[19].

 

4. All’orientamento appena esaminato se ne contrappone un altro – che pure è stato accolto da recentissime pronunce della Corte di cassazione – secondo cui la causa di ricusazione introdotta dal giudice delle leggi con la sentenza n. 283/2000 mediante declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 37, co. II, c.p.p. dovrebbe operare anche nel procedimento di prevenzione. Come il primo, anche questo filone giurisprudenziale si è affermato in differenti scenari, essendo stato ritenuto ricusabile il giudice della prevenzione che aveva precedentemente espresso valutazioni pregiudicanti in un processo penale[20], o in altro procedimento di prevenzione[21], ovvero in sede cautelare nelle vesti di giudice per le indagini preliminari[22] o come membro del tribunale del riesame[23].

L’argomento che più viene valorizzato dai sostenitori di questo approccio interpretativo è rappresentato dalla natura giurisdizionale del processo di prevenzione, recentemente ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24/2019[24], che «impone l’osservanza delle garanzie del giusto processo, tra le quali rilievo primario va riconosciuto all’imparzialità del giudice»[25]. Tale natura imporrebbe di rifarsi, ancora una volta, alle garanzie messe a punto dal legislatore per il processo penale, come peraltro è già stato fatto in più occasioni lungo il percorso di giurisdizionalizzazione del rito preventivo[26].

Inoltre, si è osservato che l’estensione della causa di ricusazione in questione anche al rito preventivo risulta coerente con le considerazioni svolte dalla stessa Corte costituzionale, la quale è già stata chiamata a esprimersi sul punto[27]. Con una sentenza del 1997, il giudice delle leggi riconobbe infatti che le valutazioni espresse da un giudice penale nell’adozione di una misura cautelare personale fossero inevitabilmente “pregiudicanti” nell’ambito di un processo di prevenzione avente ad oggetto i medesimi fatti[28]. Ciononostante, la questione di legittimità costituzionale allora sollevata fu dichiarata inammissibile, in quanto il rimettente aveva censurato l’art. 34 c.p.p., che riguarda l’«incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento», anziché le disposizioni che regolano l’astensione e la ricusazione (artt. 36 e 37 c.p.p.). In breve, la Corte costituzionale osservò che la fattispecie portata alla sua attenzione non fosse in linea con la fisionomia comune alle incompatibilità previste dall’art. 34 c.p.p., tutte «interne all’articolazione del processo penale e […] tutte previste in modo da operare in astratto, non in concreto», cioè «tali da poter essere evitate preventivamente attraverso idonei atti di organizzazione dello svolgimento del processo»[29]. L’assenza di imparzialità legata a precedenti valutazioni espresse in altro procedimento può infatti essere valutata solo in concreto; pertanto, si sarebbe dovuto censurare l’illegittimità degli artt. 36 e 37 c.p.p., che disciplinano i casi di astensione e ricusazione[30]. Questa presa di posizione è stata peraltro successivamente riproposta proprio nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, co. II, c.p.p., ove si è ribadito che «il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi […] nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione» anche «quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari»[31].

È peraltro interessante segnalare che i sostenitori di questo orientamento non ignorano che spesso la proposta di applicazione di una misura di prevenzione verte anche su fatti diversi rispetto a quelli oggetto della valutazione “pregiudicante”; tuttavia, tale circostanza viene ritenuta irrilevante, l’imparzialità del giudice potendo essere compromessa in ogni caso in cui egli «si sia già espresso nel merito su circostanze che concorrono a definire la regiudicanda nel procedimento che si assume pregiudicato»[32].

 

5. Di fronte a questo frastagliato panorama interpretativo, i giudici della quinta sezione della Corte di cassazione, ravvisando «un contrasto sufficientemente consolidato», e non una mera «riflessione giurisprudenziale in progressivo affinamento»[33], hanno rimesso il ricorso alle sezioni unite ex art. 618, co. I, c.p.p.

 

* * *

 

6. Sebbene il contrasto giurisprudenziale sopra sintetizzato si sia essenzialmente concentrato sul tema dell’imparzialità del giudice della prevenzione che abbia reso valutazioni ‘pregiudicanti’ in altro procedimento, i giudici di legittimità, come si è già segnalato[34], hanno sottoposto al massimo organo nomofilattico due diverse questioni. Con la prima di esse, di ampio respiro, si chiede alle sezioni unite di chiarire «[s]e la disciplina delle cause di incompatibilità del giudice contenuta nel codice di procedura penale è interamente applicabile, in quanto compatibile, anche al procedimento di prevenzione, attesa la natura giurisdizionale dello stesso, ovvero se, in ragione della tipologia e dell’oggetto del procedimento di prevenzione, non possono ritenersi applicabili le disposizioni dell’art. 34 c.p.p. diverse dal comma 1, pur richiamate dall’art. 36 alla lettera g), cod. proc. pen.».

Ora, posto che l’art. 34 c.p.p. disciplina i casi di incompatibilità del giudice determinata da atti dallo stesso compiuti nel medesimo procedimento, ad avviso di chi scrive non sembra potersi dubitare del fatto che la maggior parte delle norme in esso contenute non si lascino ‘modellare’ e ‘adattare’ alla fisionomia del rito preventivo. E ciò, per il semplice fatto che il processo di prevenzione non conosce un giudice per le indagini preliminare (e più in generale una divisione in fasi del rito), né sono previsti procedimenti speciali. Di qui la strutturale impossibilità che il giudice chiamato ad applicare una misura di prevenzione abbia adottato, nel medesimo procedimento, atti assimilabili a quelli presi in considerazione dell’art. 34 c.p.p., come modificato dai numerosi interventi della Corte costituzionale.

Difficile, invece, comprendere perché, secondo la formulazione del suddetto quesito, sarebbe possibile dubitare dell’applicabilità nel processo di prevenzione della disposizione di cui al comma 3 dell’art. 34 c.p.p., secondo cui non può assumere le vesti di giudice «[c]hi ha esercitato funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria o ha prestato ufficio di difensore, di procuratore speciale, di curatore di una parte ovvero di testimone, perito, consulente tecnico o ha proposto denuncia, querela, istanza o richiesta o ha deliberato o ha concorso a deliberare l’autorizzazione a procedere». Invero, non si vede come le peculiarità del procedimento possano giustificare il venir meno di tale garanzia, espressione del principio di separazione delle funzioni processuali[35]; sicché sarebbe stato forse opportuno collocare tale previsione sullo stesso piano dell’art. 34, co. I, c.p.p., della cui applicabilità al processo di prevenzione non sembra oggi dubitarsi.

 

7. Una più accentuata rilevanza pratica deriverà invece dalla soluzione del secondo – e maggiormente controverso – quesito sottoposto alle Sezioni unite, su cui sia consentito svolgere qualche breve considerazione in attesa della decisione del massimo organo nomofilattico.

L’orientamento che nega la ricusabilità del giudice della prevenzione che abbia espresso valutazioni ‘pregiudicanti’ in altro procedimento non può certo essere considerato una sorta di retaggio della tradizionale reticenza a riconoscere la natura pienamente giurisdizionale del procedimento di prevenzione. Al contrario, esso si è fatto strada in recentissime pronunce pienamente consapevoli del percorso di ‘giurisdizionalizzazione’ intrapreso dal rito preventivo ed è sorretto da articolate riflessioni. Tuttavia, ad avviso di chi scrive gli argomenti proposti da questo filone giurisprudenziale non possono dirsi condivisibili.

Anzitutto, non convince il riferimento alla «diversità di oggetto e di scopo» che intercorre tra il processo penale e il processo di prevenzione e che legittimerebbe, «sul piano dei valori, scelte diversificate in punto di conformazione normativa del diritto di difesa»[36]. Invero, la sottolineatura dell’autonomia dei due processi non sembra di per sé in grado di giustificare una diversa declinazione del principio di imparzialità del giudice, e, come è stato osservato in dottrina, si ha la sensazione di avere a che fare con un «pregiudizio […] ermeneutico», che peraltro a lungo ha ostacolato l’adeguamento del processo di prevenzione ai canoni dell’art. 111 Cost.[37]

Neppure dirimente ci sembra il riferimento al rinvio che l’art. 7, co. 9, cod. ant. effettua alle disposizioni che disciplinano il procedimento di esecuzione. Ad avviso di chi scrive, la scelta – effettuata già dalla legge Tambroni del 1956 – di modellare il procedimento di prevenzione sugli artt. 636-637 c.p.p. 1930, prima, e sull’art. 666 c.p.p. 1988, poi, rappresenta il ‘peccato originale’ del rito preventivo. Questo, infatti, costruito su un paradigma pensato per attività da compiersi post rem judicatam, si è a lungo trovato sfornito degli strumenti necessari per assolvere alla funzione cognitiva che gli è demandata. Tuttavia, non si può dire che il legislatore degli ultimi anni sia rimasto inerte, e oggi il richiamo alle disposizioni del procedimento di esecuzione – che peraltro possono essere applicate solo «in quanto compatibili» – gioca un ruolo del tutto marginale. Questa considerazione è peraltro emersa con forza nella più recente elaborazione giurisprudenziale. In particolare, merita di essere segnalata una pronuncia in cui, all’esito di un acuto e articolato incedere argomentativo, la Corte di cassazione ha escluso che il giudice della prevenzione debba effettuare un vaglio di ammissibilità della proposta in applicazione dell’art. 666, co. II, c.p.p.[38] Per giungere a tale conclusione, i giudici di legittimità hanno valorizzato la «siderale distanza ‘sistematica’ tra le procedure di tipo esecutivo (governate, in via generale, dall’articolo 666 cod.proc.pen.) e il ‘giudizio’ di prevenzione, avente […] natura cognitiva»[39]. Tale prospettiva ci sembra debba essere adottata anche in questa sede, per escludere che il rinvio all’art. 666 c.p.p. rappresenti un faro affidabile nella soluzione della questione de qua.

Eccessivamente formalistica sembra poi l’affermazione della natura eccezionale e tassativa dei motivi che possono giustificare la ricusazione del giudice. Ora, se si volesse portare alle estreme conseguenze questa presa di posizione, si dovrebbe giungere all’improbabile conclusione di non ritenere ricusabile neppure il giudice che si sia pronunciato in un precedente grado di giudizio, dal momento che tutto l’art. 37 c.p.p. è pur sempre riferito alla ricusazione del giudice del processo penale. Ma, a parte ciò, si deve purtroppo constatare che le lacune del tessuto normativo che regola il processo di prevenzione hanno già in altre occasioni costretto i giudici di legittimità ad avallare soluzioni interpretative non in linea con il dato normativo. Emblematica, da questo punto di vista, la recente sentenza in materia di controllo giudiziario con cui le Sezioni unite hanno fatto prevalere il canone dell’uguaglianza sul principio di tassatività dei mezzi di impugnazione[40].

Ancora, non sembra risolutivo neppure il fatto che il processo di prevenzione personale sia volto all’accertamento della pericolosità del proposto, e che a tal fine vengano prese in considerazione un pluralità di elementi, come la condotta, il tenore di vita, le frequentazioni e gli altri procedimenti penali o di polizia. A quanto messo in luce dai sostenitori dell’opposto orientamento giurisprudenziale[41], si può aggiungere che tale osservazione – che comunque non risulta spendibile per il procedimento volto all’applicazione della confisca – non sembra tenere conto del fatto che anche in sede penale vengono talora espresse prognosi sulla pericolosità dell’imputato che potrebbero risultare pregiudicanti in sede preventiva. Si consideri il caso in cui venga applicata una misura cautelare personale per neutralizzare il pericolo che l’imputato commetta determinati delitti. Qui, a ben vedere, il giudice penale effettua una prognosi sul futuro comportamento del soggetto non molto distante da quella demandata al giudice della prevenzione[42], tenendo in considerazione non solo le «specifiche modalità e circostanze del fatto», ma anche la sua personalità, «desunta da comportamenti o atti concreti, o dai suoi precedenti penali» (art. 274, co. 1, lett. c, c.p.p.). Volendo, si potrebbe inoltre osservare che anche in sede di commisurazione della pena il giudice penale spinge il suo sguardo ben oltre la condotta oggetto dell’imputazione. L’art. 133, co. 2, c.p. vuole infatti che la pena sia commisurata tenendo conto anche della «capacità a delinquere del colpevole», da desumersi in base a numerosi fattori, quali i motivi a delinquere, il carattere del reo, i suoi precedenti penali e giudiziari, la sua condotta antecedente e susseguente al reato, le sue condizioni di vita individuale, famigliare e sociale[43].

Specularmente, non sembra neppure corretto escludere in radice che il giudice della prevenzione possa, in taluni casi, limitarsi alla ricostruzione di un singolo, specifico fatto di reato, dal momento che sempre più spesso le fattispecie preventive non sono altro che l’«ombra»[44] di altrettante fattispecie incriminatrici. Si pensi, ad esempio, al caso in cui venga presentata una proposta nei confronti di un soggetto indiziato del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 4, lett. i-bis, cod. ant.): in tal caso, un’unica condotta penalmente rilevante ben potrebbe sorreggere l’applicazione di una misura di prevenzione, e nel caso della confisca non vi sarebbe neppure motivo di ricostruire i precedenti giudiziari del proposto, non dovendosi effettuare alcuna prognosi di pericolosità.

Neppure il fatto che il giudice della prevenzione possa adottare taluni provvedimenti cautelari nel corso del procedimento sembra offrire significativo sostegno alla tesi in esame. Del resto, anche il giudice penale può applicare una misura cautelare nel corso del dibattimento senza che ciò lo renda incompatibile, in quanto, per dirlo con le parole della Corte costituzionale, un simile «provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato»[45]. Si può allora semplicemente ritenere, come peraltro è stato fatto da una parte della giurisprudenza, che l’architettura del processo di prevenzione, non conoscendo una pluralità di fasi, demanda l’adozione dei provvedimenti cautelari «all’unico giudice funzionalmente designato per il grado»[46].

Infine, non sembra neppure del tutto condivisibile l’affermazione secondo cui, nei rapporti tra più procedimenti di prevenzione, non vi sarebbe mai spazio per l’esistenza di un pre-giudizio rispetto alla res iudicanda. Questa riflessione, come si è accennato, riposa sull’assunto per cui la presentazione di una nuova proposta richiede sempre l’emersione di un novum (fattuale o probatorio) che varrebbe a confinare la prima valutazione «nel contenitore dei meri antecedenti storici»[47]. Tuttavia, ad avviso di chi scrive non è sempre vero che l’emersione di nuovi elementi in grado di giustificare l’instaurazione di un secondo procedimento sia di per sé sufficiente a determinare un significativo mutamento dell’oggetto del decidere. Emblematico ci sembra lo scenario in cui, in un primo momento, venga applicata una misura di prevenzione personale e, successivamente, con una distinta proposta, si chieda al giudice di disporre la confisca di determinati beni[48]. In tal caso, il novum che sorregge la seconda proposta potrebbe essere rappresentato semplicemente dalla sopravvenuta scoperta di beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta dal proposto; per il resto, invece, la riconducibilità di quest’ultimo a una delle fattispecie preventive di cui all’art. 4 cod. ant. potrebbe fondarsi sui medesimi elementi già valutati ai fini dell’applicazione della misura personale, con sostanziale coincidenza, nei due procedimenti, dell’accertamento di tipo “constatativo” e “retrospettivo”.

 

8. Alla luce delle brevi considerazioni appena svolte, ci sembra auspicabile che il massimo organo nomofilattico sposi il secondo degli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati[49], che peraltro si è allineato alla posizione esplicitamente assunta dalla Corte costituzionale sul finire degli anni Novanta[50]. Vero è che il processo penale e il processo di prevenzione rispondono a differenti statuti garantistici; tuttavia, non si intravedono ragioni convincenti per adottare soluzioni differenziate sotto il profilo dell’imparzialità del giudice, pietra angolare di qualsiasi giusto processo, «in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato»[51].

 

9. I quesiti oggi sottoposti alle Sezioni unite – che potrebbero segnare un’ulteriore tappa lungo il lento, ma inesorabile, percorso di giurisdizionalizzazione intrapreso dal rito preventivo – mettono peraltro in luce, una volta di più, quanto risulti sacrificato, in subiecta materia, il principio di legalità processuale, che pretenderebbe il «primato della legge nel momento del procedere»[52]. Troppe volte, infatti, la giurisprudenza è stata chiamata a risolvere contrasti interpretativi sorti – su questioni tutt’altro che secondarie – a causa delle carenze del dettato legislativo. A dieci anni dall’approvazione del c.d. codice antimafia – che, nonostante gli innegabili meriti, ancora oggi si presenta come un «cantiere aperto»[53] – sembra allora legittimo auspicare che sia il legislatore a dare risposta ai numerosi interrogativi che tuttora sorgono nell’interpretazione del quadro normativo.

 

 

[1] Come ricorda F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, II ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 28, la l. 17 ottobre 2017, n. 161 ha da ultimo rappresentato un significativo intervento di novellazione del codice antimafia, anche sul versante processuale.

[2] Cfr. p. 8 dell’ordinanza.

[3] Cfr. p. 2 dell’ordinanza.

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2018 (dep. 25 maggio 2018), n. 23629.

[5] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2019 (dep. 4 settembre 2019), n. 37060.

[6] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13 settembre 2018 (dep. 15 novembre 2018), n. 51793; Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081; Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2008 (dep. 9 giugno 2008), n. 22960. 

[7] Cfr. §4 del “considerato in diritto” dell’ordinanza in esame, che richiama Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §2 del “considerato in diritto”.

[8] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 4 dell’ordinanza.

[9] Così Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”.

[10] Cfr. p. 4 dell’ordinanza.

[11] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”.

[12] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2008 (dep. 9 giugno 2008), n. 22960.

[13] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 19 marzo 2009 (dep. 15 aprile 2009), n. 15834.

[14] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2019 (dep. 4 settembre 2019), n. 37060.

[15] Per le citazioni riportate nel testo cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2018 (dep. 25 maggio 2018), n. 23629, §3 del “considerato in diritto”.

[16] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2019 (dep. 4 settembre 2019), n. 37060, §5 del “considerato in diritto”; Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”. Invero, il riferimento a una “prognosi” anche per indicare l’accertamento - interamente retrospettivo - dell’illecita accumulazione patrimoniale che giustifica la confisca di prevenzione si presenta fuorviante. Cionondimeno, il senso di questo passaggio motivazionale sembra comunque chiaro nella misura in cui pone l’accento sul fatto che nel rito preventivo non si accerti la commissione di un singolo fatto, ma si tenda a effettuare una più ampia ricostruzione delle condotte tenute dal proposto.

[17] Per questa e le precedenti citazioni cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2019 (dep. 4 settembre 2019), n. 37060, §5 del “considerato in diritto”. V. anche Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2018 (dep. 25 maggio 2018), n. 23629, §2 del “considerato in diritto”.

[18] Così Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”.

[19] Così Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”. V. anche Cass. pen., Sez. VI, 13 settembre 2018 (dep. 15 novembre 2018), n. 51793, §6 del “considerato in diritto”.

[20] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2008 (dep. 23 gennaio 2009), n. 3278.

[21] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 10 dicembre 2020 (dep. 3 febbraio 2021), n. 4330; Cass. pen., Sez. I, 10 luglio 2015 (dep. 23 luglio 2015), n. 32492.

[22] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 28 giugno 2019 (dep. 6 giugno 2019), n. 37296.

[23] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2014 (dep. 21 luglio 2014), n. 32077.

[24] Cfr. Corte cost., 24 gennaio 2019 (dep. 27 febbraio 2019), n. 24.

[25] Cfr. p. 6 dell’ordinanza. V. Cass. pen., Sez. I, 10 dicembre 2020 (dep. 3 febbraio 2021), §3 del “considerato in diritto”.

[26] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 2 aprile 2019 (dep. 11 ottobre 2019), n. 41975, §5 del “considerato in diritto”, che richiama gli approdi giurisprudenziali relativi all’obbligo di rimessione degli atti a sezione diversa da quella che ha emesso il decreto annullato ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., all’applicazione del principio di correlazione tra contestazione e pronuncia previsto dall’art. 521 c.p.p., all’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito nell’avviso di convocazione, alla pubblicità dell’udienza ove una parte ne faccia richiesta. V. anche Cass. pen., Sez. VI, 8 marzo 2016 (dep. 18 aprile 2016), n. 15979, §2 del “considerato in diritto”; Cass. pen., Sez. I, 10 luglio 2015 (dep. 23 luglio 2015), n. 32492, §1 del “considerato in diritto”.

[27] V. Cass. pen., Sez. I, 10 dicembre 2020 (dep. 3 febbraio 2021), n. 4330, §3 del “considerato in diritto”; Cass. pen., Sez. VI, 2 aprile 2019 (dep. 11 ottobre 2019), n. 41975, §9 del “considerato in diritto”; Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2014 (dep. 21 luglio 2014), n. 32077, §2.4 del “considerato in diritto”; Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2008 (dep. 23 gennaio 2009), n. 3278.

[28] Cfr. Corte cost., 29 settembre 1997 (dep. 1° novembre 1997), n. 306.

[29] Cfr. Corte cost., 29 settembre 1997 (dep. 1° novembre 1997), n. 306, §2.2 del “considerato in diritto”.

[30] Cfr. Corte cost., 29 settembre 1997 (dep. 1° novembre 1997), n. 306, §2.3 del “considerato in diritto”.

[31] Cfr. Corte cost., 6 luglio 2000 (dep. 14 luglio 2000), n. 283.

[32] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2014 (dep. 21 luglio 2014), n. 32077, §3.2 del “considerato in diritto”.

[33] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 7 dell’ordinanza.

[34] V. supra, §1.

[35] Cfr. P. Tonini – C. Conti, Manuale di procedura penale, XXII ed., Giuffrè, Milano, 2021, p. 93.

[36] Per questa e la precedente citazione cfr. §4 del “considerato in diritto” dell’ordinanza in esame, che richiama Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §2 del “considerato in diritto”.

[38] Così Cass. pen., Sez. I, 19 dicembre 2018 (dep. 17 gennaio 2019), n. 2154, §3.3.

[39] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 19 dicembre 2018 (dep. 17 gennaio 2019), n. 2154, §3.3.

[40] Cfr. Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2019 (dep. 19 novembre 2019), n. 46898, in questa Rivista, con nota di D. Albanese, Le Sezioni unite ridisegnano il volto del controllo giudiziario “volontario” (art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011) e ne disciplinano i mezzi di impugnazione, 28 novembre 2019.

[41] Cfr. supra, §4.

[42] Per una recente e puntuale ricostruzione del dibattito sviluppatosi intorno al concetto di pericolosità rilevante ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, ricca di riferimenti bibliografici, cfr. F. Basile, Esiste una nozione ontologicamente unitaria di pericolosità sociale? Spunti di riflessione, con particolare riguardo alle misure di sicurezza e alle misure di prevenzione, in Aa. Vv., La pena, ancora. Fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, C. E. Paliero – F. Viganò – F. Basile – G.L. Gatta (a cura di), Giuffrè, Milano, 2018, p. 955

[43] Tra le diverse letture che sono state fornite, sembra condivisibile quell’autorevole interpretazione dottrinale secondo cui «il giudizio di capacità a delinquere si proietta nel futuro, e quindi tutti gli indici legislativi […] devono essere utilizzati dal giudice ai fini di una prognosi sui futuri comportamenti dell’agente», cfr. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Giuffrè, Milano, p. 771. In tal senso si è espressa anche una parte della giurisprudenza, cfr. Cass. pen., Sez. III, 15 dicembre 1992 (dep. 28 gennaio 1993), n. 2280; Cass. pen., Sez. I, 11 novembre 1998 (12 gennaio 1999), n. 5555.

[44] Così C. Valentini, Motivazione della pronuncia e controlli sul giudizio per le misure di prevenzione, Cedam, Padova, 2008, p. 96.

[45] Cfr. Corte cost., 27 maggio 1996, n. 177, §3 del “considerato in diritto”. Per alcune acute considerazioni critiche rispetto al tessuto motivazionale di questa sentenza cfr. O. Mazza, La proliferazione delle incompatibilità è giunta al capolinea?, in Dir. pen. proc., 1996, VIII, p. 975 ss.

[46] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 10 dicembre 2020 (dep. 3 febbraio 2021), n. 4330, §3 del “considerato in diritto”.

[47] Così Cass. pen., Sez. I, 27 maggio 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 43081, §3 del “considerato in diritto”.

[48] Tale scenario risulta possibile in quanto, ai sensi dell’art. 18, co. I, cod. ant., «[l]e misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente».

[49] Cfr. supra, §4.

[50] Cfr. in particolare Corte cost., 29 settembre 1997 (dep. 1° novembre 1997), n. 306.

[51] Cfr. Corte cost., 29 settembre 1997 (dep. 1° novembre 1997), n. 306, §2.1 del “considerato in diritto”.

[52] Così N. Galantini, Considerazioni sul principio di legalità processuale, in Cass. pen., 1999, VI, p. 1989 ss., §1.