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15 Marzo 2022


La Cassazione alle prese con le lesioni in ambito sportivo: l'eclissi della scriminante del rischio consentito?

Cass., Sez. IV, sent. 21 ottobre 2021 (dep. 31 gennaio 2022), n. 3284 Pres. Ciampi, Rel. Nardin, ric. Panzani



1. Con la sentenza in commento, recentemente depositata, la Cassazione si pronuncia in materia di lesioni cagionate nell’esercizio di attività sportiva.

La materia rappresenta un terreno da tempo battuto dal giudice di legittimità, che ha ormai consolidato un indirizzo teso a giustificare sul piano dogmatico la liceità, entro certi limiti, di condotte offensive di beni giuridici di primario rilievo, pur in assenza di cause di giustificazione codificate[1].

La sentenza resa dalla Suprema Corte è meritevole di particolare attenzione, ponendosi in discontinuità con approdi che sembravano ormai consolidati ed aprendo, sul piano delle categorie, ad un rilievo centrale dell’elemento della colpevolezza, superando la copiosa elaborazione giurisprudenziale relativa al c.d. “rischio consentito”.

 

2. Il caso all’esame del Collegio riguarda il ricorso per cassazione dell’imputato avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze, resa in data 21.1.2020, con la quale è stata data conferma alla pronuncia del Tribunale di Lucca che lo aveva condannato per il delitto di lesioni colpose, così riqualificata l’originaria imputazione di lesioni volontarie aggravate.

Oggetto di contestazione all’imputato era di avere cagionato lesioni personali ad un altro giocatore (nella specie, plurime fratture scomposte agli arti inferiori), nel corso di una partita amatoriale di calcio a cinque, essendo il primo intervenuto in scivolata sull’avversario nel corso di un’azione di contropiede, determinando una incapacità della persona offesa di attendere alle ordinarie occupazioni per una durata superiore ai quaranta giorni.

Avverso tale “doppia conforme” di condanna la difesa articola tre motivi di ricorso.

In disparte il secondo motivo (relativo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche) ed il terzo (pur di particolare interesse sotto il profilo civilistico, essendo dedotta la questione relativa alla compensatio lucri cum damno[2]), la questione centrale all’esame del Collegio è introdotta con il primo motivo, che denuncia la violazione di legge penale ex artt. 590 e 50 c.p. ed il vizio di motivazione.

Segnatamente, la difesa censura la sentenza impugnata lamentando che i giudici del merito (in prima battuta il Tribunale, le cui conclusioni sarebbero state integralmente avallate dal giudice di appello) avrebbero fatto discendere la responsabilità dell’imputato dalla intensità del danno provocato alla persona offesa, laddove al contrario a rilevare sarebbe soltanto la condotta dell'agente nell'ambito del contesto di gioco in cui si è verificata: in definitiva, ad avviso del ricorrente, la violazione delle norme sportive non è ex se idonea a configurare l'illecito penale, ove non sia volontaria, ma costituisca lo sviluppo fisiologico dell’azione di gioco. Del tutto irrilevante sarebbe, allora, il profilo relativo all’entità delle conseguenze cagionate: in tal senso, si afferma, mentre una violazione volontaria che procuri un danno lieve può costituire illecito penale, una violazione involontaria che procuri un danno grave, ma sia tuttavia dettata dalla concitazione dell'azione, rientrerebbe nel c.d. rischio consentito e dovrebbe pertanto andare esente da pena.

 

3. Il motivo è ritenuto fondato dalla Quarta Sezione, che annulla la sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, essendo il reato medio tempore estinto per intervenuta prescrizione.

Nel pervenire all’esito cassatorio, la Corte, in via preliminare, ricostruisce l’elaborazione giurisprudenziale in materia di scriminante sportiva, invocata dal ricorrente.

 

3.1. Si evidenzia, in particolare, come l’area di liceità del c.d. “rischio consentito” sia stata anzitutto individuata entro il perimetro fissato dalle regole di disciplina sportiva, tali da individuare “secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport”.

Di conseguenza, a fronte di un atto lesivo rispettoso del regolamento, chi lo subisce non può dolersene, trattandosi di evento previamente accettato, sia pure in astratto, prendendo parte alla competizione.

 

3.2. La Cassazione evidenzia poi la più delicata situazione che si verifica laddove la lesione sia cagionata in violazione della regola sportiva. In tal caso, la giurisprudenza ritiene che non vi sia corrispondenza tra illecito sportivo e penale, escludendo l’integrazione di fatti penalmente rilevanti a fronte di violazioni regolamentari involontarie, tali da rappresentare lo sviluppo fisiologico dell’azione, volta unicamente al conseguimento del risultato agonistico.

Una rilevanza penale dell’azione sportiva (e, quindi, il travalicamento dell’area del rischio consentito) sarebbe configurabile, allora, solo a fronte di violazioni delle “regole del gioco” volontarie, laddove cioè l’infrazione sportiva sia “deliberatamente piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla”: ciò che apre ad un duplice titolo di responsabilità, dolosa[3] o colposa, da ricostruire sulla base dei principi generali.

 

4. Operata tale premessa ricostruttiva, tuttavia, la sentenza in esame prende apertamente le distanze dall’orientamento consolidato: la Cassazione ricusa la scriminante del rischio consentito, alla luce della liceità tout court dell’attività sportiva (cui sarebbe pertanto estranea la logica sottesa alle cause di giustificazione), la partecipazione alla quale “comporta da parte dell'atleta l'accettazione della regola sportiva e del rischio ad essa connesso, ma non implica di per sé l'accettazione della lesione dell'integrità fisica che scaturisca dall'azione dolosa altrui, ancorché interna al gioco, o quella conseguente all'azione dell'antagonista che sia colposamente cagionata.

Con maggiore sforzo argomentativo, si afferma la diversità di piani (“diversi e solo parzialmente intersecanti”) sui quali insistono responsabilità sportiva e penale: la prima disciplinata dai regolamenti delle singole specialità sportive (i quali tracciano le “regole del gioco” cui i partecipanti aderiscono), la seconda dipendente da condotte dolose o colpose dell’agente.

Tale divaricazione comporta, ad avviso del Collegio, che possa darsi un’azione sportiva la quale, seppure conforme al regolamento, risulti ex ante pericolosa (e quindi colposa, ove sfoci in un evento lesivo, in violazione di una diversa regola cautelare); di converso, vi potrebbe essere un illecito sportivo il quale si ponga al di fuori della prevedibilità dell’evento, risultando pertanto penalmente irrilevante, del tutto a prescindere dalla gravità delle conseguenze che ne siano derivate.

Emerge allora, e ciò costituisce il cuore della pronuncia, un duplice binario: la regola cautelare la cui violazione può venire in rilievo ai fini di un rimprovero per colpa può infatti essere quella “in cui rientra la condotta prudente, perita, non negligente, così come quella osservante delle regole del gioco, specificamente volte ad evitare il pericolo di lesioni”.

In definitiva, chiarisce la Cassazione, la liceità sportiva “non copre integralmente la liceità penale, che impone, al di là della regola il limite della prudenza, della perizia, della diligenza, cioè della regolazione dell'azione finalizzata a non nuocere”: con la conseguenza, per il giudice, di verificare se l’azione rispettosa del regolamento sportivo “sia posta in essere nei limiti della prudenza, in modo da non cagionare, per l'eccesso nella gestione del gesto atletico o per l'eccessività ed inutilità al fine sportivo del contrasto opposto, un danno prevedibile all'altrui integrità fisica”.

Sulla base di tali premesse, coerentemente, la Corte annulla la sentenza impugnata, in quanto “non è l’entità del danno cagionato a discriminare l’azione illecita, ma la travalicazione della norma cautelare prestabilita che renda prevedibile l’evento, sia perché disapplicata, sia perché inutilmente trascesa, al fine del raggiungimento del risultato”.

 

5. Con la sentenza che si annota, la Cassazione “abbandona” quindi la scriminante del rischio consentito, attribuendo rilievo decisivo all’elemento della colpevolezza in sede di valutazione della liceità penale del fatto: in particolare, quanto ai fatti colposi, si individuano regole cautelari parallele e non scritte (recuperando la tradizionale dicotomia colpa generica/colpa specifica), e si pone accento decisivo sulla schermatura del rischio tipico e sulla prevedibilità in concreto dell’evento dannoso.

Orbene, si ritiene senz’altro condivisibile la decisione del caso concreto: la gravità delle conseguenze cagionate può, al più, indiziare la colpa dell’atleta, ma non può assorbire ogni altra valutazione, tanto ragionando entro l’ottica tradizionale, quanto sposando la tesi della Quarta Sezione[4].

 

5.1. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, l’impostazione seguita dalla Corte presenta taluni profili di criticità.

Al di là di talune affermazioni “impegnative” sotto il profilo dogmatico e di struttura del reato, meritevoli di più approfondite riflessioni, interessa in questa sede mettere a fuoco il profilo relativo al rapporto tra illecito sportivo ed illecito penale.

Al riguardo, la sentenza in commento apre ad una responsabilità penale (e civile) pur in assenza di illecito sportivo, potendo l’azione dell’atleta essere conforme al regolamento tecnico e, cionondimeno, risultare negligente, imprudente o imperita rispetto all’incolumità dell’avversario.

Il riferimento a standard cautelari generici, ulteriori rispetto a quelli posti dai regolamenti sportivi, costituisce in effetti affermazione non nuova in giurisprudenza[5], e tuttavia mai determinante in ordine alla decisione del caso concreto: come rilevato in una pronuncia di merito[6], “è vero infatti che alcune massime richiamano anche norme di prudenza e di diligenza per doppiare il generale riferimento al rispetto delle regole del gioco, ma d’altra parte non risultano pronunce che abbiano condannato l’imputato o il convenuto che si fosse attenuto alle regole del gioco”. In definitiva, tale ulteriore riferimento sembra fungere da “valvola di sicurezza per improbabili casi di manifesto contrasto fra ordinamento sportivo e ordinamento generale, ovvero per ipotesi di altrettanto improbabili lacune nelle regole del gioco”.  

Diversamente, la Cassazione sembra qui riscrivere l’area di liceità delle lesioni sportive attribuendo assoluta centralità al rispetto delle regole di colpa generica[7]: impostazione problematica in riferimento a talune tipologie di sport, probabilmente ultronea in ordine al gioco del calcio.

 

5.1.1. Dal primo punto di vista, risulta difficilmente ipotizzabile l’osservanza di standard di cautela ulteriori, rispetto a quelli fissati dal regolamento sportivo, in tutte le discipline a contatto istituzionalizzato (c.d. sport a violenza necessaria), nelle quali obbiettivo intrinseco dell’azione sportiva è la sottomissione fisica dell’avversario: non può realisticamente patrocinarsi, ad esempio, l’idea che il pugile debba prendere a pugni l’avversario, ma che si curi al contempo di farlo con cautela. Del resto, tutore dell’integrità fisica degli atleti è l’arbitro, garante dell’osservanza delle regole e della stessa incolumità fisica dei contendenti, essendo titolare di una vera e propria posizione di garanzia[8]: così, senza un suo specifico intervento di interruzione della contesa, la scelta dell’atleta di arrestare l’azione offensiva nei confronti dell’avversario, stremato dai colpi e non più in grado di difendersi, va relegata a mera opzione etica.

 

5.1.2. Con riferimento al calcio e più in generale agli sport a violenza eventuale[9], invece, sembra a chi scrive che la Corte abbia sottovalutato l’ampiezza precettiva dei regolamenti sportivi, che nella disciplina dell’azione prevedono standard cautelari piuttosto stringenti[10], talvolta richiamando le stesse nozioni penalistiche di colpa generica: ad esempio, nel calcio professionistico, guardando proprio agli interventi in scivolata, il regolamento federale prevede che costituisca infrazione (e quindi, anzitutto, illecito sportivo) l’effettuazione di un tackle in un modo considerato dall’arbitro negligente o imprudente, o con vigoria sproporzionata[11]. Ciò che sembra emergere in questo caso, allora, è che non si affianchino alle regole del gioco (traccianti il perimetro dell’illecito sportivo) delle regole cautelari ulteriori, volte a tutelare l’incolumità fisica dell’avversario (la cui violazione aprirebbe ad una responsabilità per colpa, del tutto a prescindere dalla liceità sportiva dell’azione): piuttosto, le seconde integrano le prime, nel senso che una condotta è “fallosa” (e quindi contraria al regolamento e fonte di responsabilità, anzitutto, sportiva) quando posta in essere con leggerezza, noncuranza per l’integrità fisica dell’altro giocatore o eccesso nei mezzi[12].

Ciò confermerebbe, in definitiva, che la responsabilità penale presupponga un illecito sportivo, senza che possa darsi un’azione lecita a norma del regolamento che integri reato; di converso, resta impregiudicato che non ogni illecito sportivo costituisca fatto penalmente rilevante[13], dovendosi valutare la volontarietà o meno della violazione (a monte), oltre ovviamente alla verificazione dell’evento ed alla sua prevedibilità in concreto (a valle)[14].

 

6. In conclusione, la sentenza in commento, condivisibile in ordine alla soluzione fornita al caso di specie, fornisce interessanti spunti sul terreno dogmatico, con riferimento alla natura dell’attività sportiva e alla perdurante validità dell’elaborazione giurisprudenziale sul “rischio consentito”, qui posta in seria discussione.

Qualche perplessità suscita tuttavia l’affermata indipendenza reciproca tra illiceità sportiva e penale, lettura forse condizionata dal contesto amatoriale in rilievo nel caso di specie.

Tale affermazione, ove generalizzata, oltre a trascurare le peculiarità di taluni sport, rischia di minimizzare la rilevanza dei regolamenti sportivi e la loro intrinseca (ed esauriente) vocazione non soltanto regolatoria, ma anche cautelare: il rischio, nel sovrapporre a tali prescrizioni delle regole di colpa non codificate, è quello di generare incertezze applicative e di scoraggiare la pratica sportiva da parte della popolazione.

 

 

[1] Non potendo operare, tra le cause di giustificazione tipiche, né il consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), alla luce della regola di ordine pubblico di indisponibilità ex art. 5 c.c.; né l’esercizio di una facoltà legittima (art. 51 c.p.), potendo tale scriminante operare solo nella misura in cui non siano violati i regolamenti sportivi.

[2] Segnatamente, si lamenta violazione dell’art. 1223 c.c. avendo la Corte di appello operato il cumulo del risarcimento da fatto illecito con quello già ottenuto dal danneggiato, titolare di una polizza contro gli infortuni. Si può rammentare in questa sede che le “sentenze sorelle” delle Sezioni Unite civili del 2018 hanno individuato, per i rapporti trilaterali, nella previsione di un meccanismo legale di surroga (quale, nella specie, quello previsto dall’art. 1916 c.c.) lo strumento attraverso il quale traslare il pregiudizio patrimoniale dall’assicuratore al danneggiante, impedendo al contempo che il danneggiato possa trarre un arricchimento ingiustificato dall’illecito subito, duplicando le richieste risarcitorie.

[3] A fortiori configurabile laddove la circostanza di gioco sia assunta a mero pretesto per cagionare lesioni all’avversario: si pensi, nel calcio, al colpo inferto a gioco fermo, o lontano dallo sviluppo dell’azione.

[4] La prima scrimina qualsiasi conseguenza lesiva cagionata, se risulti rispettato il regolamento o se l’infrazione sia stata involontaria; la seconda esclude la colpevolezza dell’agente laddove l’evento, quantunque di elevata gravità, non fosse in concreto prevedibile ed evitabile, o non concretizzasse il rischio tipico coperto dalla norma violata.

[5] In tal senso già Cass. Pen., Sez. II, 9 ottobre 1950, in Giust. Pen., 1951, II, 232: “alla generica o comune prudenza e diligenza del cittadino verso il cittadino e alla normale osservanza di leggi e regolamenti preventivi di carattere generale, vengano ad associarsi, nel momento agonistico sportivo, quella specifica prudenza, diligenza ed osservanza di leggi e di regolamenti che si impongono all’atleta, onde deriva uno specifico comportamento di quest’ultimo caratterizzato dalla necessaria osservanza delle regole di una data attività sportiva, controllata però in ogni momento (…) dal senso vigile ed umanitario del rispetto della integrità fisica e della vita sia dell’avversario sia dei terzi. È possibile pertanto che possa essere ritenuto responsabile di colpa penale l’atleta il quale, nella lotta contro il suo avversario, non mantenga siffatto controllo sulla propria azione, pur seguendo fedelmente tutte le regole stabilite per una data attività sportiva”.

[6] Trib. Piacenza, 1 giugno 2010, n. 404.

[7] Significativa, in tal senso, l’affermazione per cui la regola sportiva sarebbe destinata “a disciplinare l'azione”, quella penale “ad evitare l'evento”: cfr. punto 10 della motivazione.

[8] Alla fonte, di natura contrattuale, fanno riscontro specifici poteri impeditivi: in particolare, la possibilità di ordinare l’interruzione dell’incontro in ogni momento, laddove il suo sviluppo metta in serio pericolo la salute di uno dei due contendenti.

[9] Discipline nelle quali obiettivo finale non è la sottomissione fisica dell’avversario, ma il conseguimento di un diverso risultato, pur essendo immanente al gioco stesso che i partecipanti entrino in contrasto e possano procurarsi lesioni.

[10] Ad esempio, nella definizione di fallo personale, il regolamento federale della pallacanestro dispone che «Un giocatore non deve trattenere, bloccare, spingere, caricare, sgambettare o impedire l'avanzare di un avversario estendendo la sua mano, braccio, gomito, spalla, fianco, gamba, ginocchio o piede, né piegando il suo corpo in una posizione ‘non naturale’ (fuori dal suo cilindro), né praticare un gioco duro o violento».

[11] Le medesime regole sono previste per il calcio a 5: https://www.aia-figc.it/download/regolamenti/reg_2021_c5.pdf.

[12] Ciò vale non solo con riferimento agli interventi in scivolata, ma anche in relazione ad ogni altra condotta tipica del gioco del calcio: segnatamente, la regola federale fa riferimento anche al caricare, saltare addosso, dare o tentare di dare un calcio, spingere, colpire o tentare di colpire, effettuare un contrasto, sgambettare o tentare di sgambettare.

[13] In termini Cass. pen. Sez. V, 13 febbraio 2009, n. 17923: “l'infrazione integra sicuramente illecito sportivo, ma non tutti gli illeciti sportivi, anche se causativi di danni alla persona, configurano ipotesi di reato”.

[14] In tal senso la sentenza da ultimo citata distingue, lungo una scala ascendente, tre diverse situazioni: “a) la violazione involontaria delle regole di gioco integra illecito sportivo non penale; b) la violazione volontaria che si traduca in condotta violenta compatibile con il tipo di disciplina sportiva ed il contesto agonistico di riferimento, dà luogo ad illecito penale colposo; c) la violazione volontaria con condotta violenta del tutto avulsa dalla dinamica agonistica integra illecito penale doloso”.