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  Scheda  
20 Maggio 2022


Like su Facebook ed hate crimes: note a margine di una recente sentenza della Cassazione

Cass., Sez. I, sent. 6 dicembre 2021(dep. 9 febbraio 2022), n. 4534, Pres. Zaza, est. Aliffi, ric. Governatori



1. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione si pronuncia sulla rilevanza penale della condotta di apposizione di un “mi piace” (o like) ad un post su Facebook, nel contesto dei c.d. “reati d’odio” commessi su internet. In particolare, i giudici di legittimità – facendo leva sugli effetti di “diffusione” tipici delle interazioni online – giungono ad affermare che mettere un like ad un post razzista altrui possa integrare il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale (art. 604-bis, co. 1, lett. a), nonché costituire un indice di partecipazione all’associazione finalizzata all'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (604-bis, co. 2, c.p.).

Pur nella sua laconicità, la pronuncia affronta alcune questioni cruciali in ordine al “significato” comunicativo da attribuire alle interazioni sui social network e ai confini tra mero gradimento e divulgazione attiva di contenuti illeciti, giungendo a conclusioni che, a parere di chi scrive, rischiano di entrare in frizione con i principi di offensività e colpevolezza. Lungi dall’essere circoscritta al settore degli hate crimes, d’altra parte, la posizione assunta dalla corte potrebbe trovare un seguito applicativo, da un lato, con riferimento a tutti quei reati che puniscono la diffusione di opinioni o idee offensive di beni giuridici (si pensi, ad esempio, alla diffamazione o alla apologia di delitti), e, dall’altro – per quanto concerne gli indici di partecipazione – in relazione alle associazioni a delinquere che operano online.

 

 

2. Vediamo, innanzitutto, i fatti all’origine della vicenda. Oggetto di ricorso è l’ordinanza del Tribunale di Roma che conferma l’applicazione di una misura cautelare nei confronti del ricorrente, in ordine ai reati di cui agli artt. 604-bis, co. 2, c.p. e 604-bis, co. 1, lett. a), c.p. In base alla prospettiva accusatoria, l’indagato avrebbe partecipato ad una community virtuale finalizzata alla propaganda di idee fondate sull’odio razziale, violando così l’art. 604-bis, co. 2, c.p.: la partecipazione dell’indagato veniva desunta dalla sua assidua frequentazione di membri del gruppo, nonché dall’inserimento di like ai post pubblicati dall’account del gruppo suprematista, che consentiva «il rilancio di “post” e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita». L’apposizione dei “mi piace”, inoltre, avrebbe integrato il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale (art. 604-bis, co. 1, lett. a, c.p.).

L’indagato ricorre per Cassazione deducendo, da un lato, che il contenuto dei post ai quali aveva messo “mi piace” non sfociava mai nell'antisemitismo e nel razzismo e, dall’altro, che i like non possono né essere indice di partecipazione all’associazione – costituendo il “mi piace”, tuttalpiù, un'espressione di gradimento, non di adesione al gruppo che pubblica il contenuto – né integrare la condotta di propaganda di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a), c.p., non essendo «idoneo ad influenzare il comportamento o la psicologia di un pubblico vasto e a raccogliere adesioni nei termini richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, ampiamente richiamata, che ritiene necessario per l'integrazione del reato il pericolo concreto di comportamenti discriminatori»[1].

 

 

2.1. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo, innanzitutto, che i contenuti ai quali l’indagato aveva messo like avevano un chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (viene citata, in particolare l’irrisione delle vittime dei campi di sterminio e l’identificazione degli ebrei con “il vero nemico”).

Quanto all’integrazione delle condotte di propaganda (art. 604-bis, co. 1, lett. a, c.p.) e di partecipazione ad associazione finalizzata alla discriminazione razziale (art. 604-bis, co. 2, c.p.), la Corte di Cassazione afferma che il Tribunale di Roma ha «logicamente desunto l'appartenenza [dell’indagato] alla comunità virtuale, avente gli scopi previsti dalla norma incriminatrice, non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp […] e, ai fini tanto dell'integrazione delle condotte di propaganda quanto della individuazione nell'incitamento all'odio quale scopo illecito perseguito del gruppo, ha considerato concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i "like”». Proprio a quest’ultimo proposito, la corte di legittimità – avvallando la tesi già sostenuta dal giudice del riesame – sostiene che «la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche "Facebook", già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. La funzionalità "newsfeed" ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L'algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal "mi piace" o "like"». Rilevando, infine, che vi siano ulteriori circostanze di fatto che inducono a ritenere che l’indagato appartenga all’associazione criminale (sostanzialmente, le dimostrate e assidue frequentazioni con membri della comunità virtuale), la Corte dichiara il ricorso inammissibile.

 

 

3. Le questioni sulle quali la Corte è stata chiamata a pronunciarsi – e sulle quali parrebbe aver dato una risposta positiva, pur con la laconicità tipica di un giudizio cautelare – sono le seguenti:

(i) se il like ad un post possa integrare la condotta di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico (art. 604-bis, co. 1, lett. a, c.p.);

(ii) se il like ad un post possa costituire un indice di partecipazione ad un’associazione finalizzata all'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (604-bis, co. 2, c.p.).

Sebbene la sede cautelare non abbia consentito una diffusa trattazione autonoma dei due interrogativi, chi scrive ritiene utile un esame distinto dei due capi di imputazione, stante soprattutto la differenza strutturale e di accertamento dei reati contestati. Nel primo caso, infatti, la questione problematica consiste nel verificare se un fatto concreto possa essere sussunto nella fattispecie incriminatrice; il secondo interrogativo, invece, attiene alla prova di un elemento tipico del fatto (la partecipazione, per l’appunto).

 

 

4. Quanto al reato di cui all’art. 604-bis, co.1, lett. a), c.p., la Cassazione afferma che il like apposto dall’indagato a post di matrice razzista costituisce propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, poiché rende concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, aumentando la circolazione del post. Già in un’altra occasione, la Suprema corte aveva ritenuto che l’inserimento di like a video inneggianti al martirio islamico potesse integrare il reato di apologia di delitti di terrorismo (art. 414, co. 4, c.p.)[2]: in quel caso, la Cassazione affermava che la circostanza che il video fosse stato diffuso con la sola opzione “mi piace” «non [fosse] certo idone[a] a ridurre la portata offensiva della condotta [dell’imputato], attesa la comunque immodificata funzione propalatrice svolta in tale contesto dal social network facebook»[3].

Il riconoscimento di un ruolo diffusivo al like – di per sé opinabile, stante l’opacità dell’algoritmo che regola il flusso dei contenuti sul feed di Facebook, che non consente di accertare l’impatto di ciascuna interazione sulla diffusione del contenuto – pare in ogni caso insufficiente, a parere di chi scrive, per ritenere integrato il reato di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a), c.p.

È opinione, unanime, infatti che la “propaganda” – nel rispetto del principio di offensività – consista in un quid pluris rispetto alla mera diffusione di idee, dovendosi concretizzare nella «divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni»[4]. D’altra parte, la sostituzione all’interno dell’art. 604-bis, co.1, lett. a), c.p. dell’originario lemma “diffusione” con la parola “propaganda” – effettuata dall’art. 13, l. 24 febbraio 2006, n. 856 – ha inteso, a parere della maggioranza dei commentatori, restringere l’area della punibilità, richiamando comportamenti dotati di una maggiore intensità offensiva[5].

Nonostante giurisprudenza e dottrina siano, in prevalenza, concordi nel ritenerlo un reato a dolo generico[6], l’art. 604-bis, co. 1, lett. a), c.p. punisce un’attività teleologicamente orientata: la mera “diffusione” di idee razziste e antisemite non integra dunque la fattispecie criminosa, ma è necessario che la condotta – per le sue modalità e per il contesto in cui viene svolta – sia diretta a raccogliere consensi e adesioni presso terzi[7].

 

 

4.1. Se si aderisce alla suddetta concezione restrittiva della nozione di “propaganda”, non basta – ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a), c.p. – constatare che il like abbia contribuito alla diffusione di un post propagandistico: la condotta di propaganda ha infatti un disvalore specifico, che non può essere appiattito sul disvalore delle idee oggetto di diffusione.

D’altra parte, se fosse sufficiente la dimostrazione dell’efficacia diffusiva per ritenere sussistente il reato de quo, qualsiasi interazione sui social network potrebbe integrare la condotta tipica: per restare all’esempio di Facebook, alla propagazione dei contenuti contribuiscono non solo i repost e i like, ma anche le varie reazioni (Love, Ahah, Wow, Sigh…) e i commenti che possono essere apposti sotto ciascun contenuto.

Si pensi, allora, alla ricondivisione di un post razzista, accompagnata da un commento di critica nei confronti del contenuto del post. Prima ancora che sul piano dell’assenza del dolo di propaganda, chi scrive ritiene che la responsabilità penale dell’utente dovrebbe essere esclusa già sul piano del fatto tipico, non trattandosi di condotta di propaganda, intesa come diffusione finalizzata a raccogliere adesioni e consensi.

Ecco che, allora, più che verificare se il like abbia dato un contributo alla diffusione del post propagandistico, la questione parrebbe piuttosto quella di sondare se esso integri quella divulgazione qualificata, teleologicamente orientata, a cui abbiamo fatto riferimento nel precedente paragrafo.

A tal fine, è necessario comprendere il tipo di messaggio veicolato dal like.

Senza addentrarci in valutazioni di semiotica che di certo non ci competono, basterà qui rilevare che il “mi piace” è un segno e, come tale, un’associazione di significante e significato, che consente di trasmettere un messaggio non verbale da mittente a destinatario (in questo caso, gli utenti di Facebook).

Nella decodificazione del like, ha di certo importanza il significato attribuitogli dalla stessa piattaforma nell’apposita sezione informativa: «Cliccare Mi piace sotto a un post su Facebook è un modo per far sapere alle persone che quell'elemento ti piace senza lasciare un commento. Proprio come un commento, chiunque possa vedere il post potrà vedere che hai messo "Mi piace". Ad esempio, se clicchi su Mi piace sotto il video di un amico: le persone che possono visualizzare il video vedranno che hai messo "Mi piace"; la persona che ha pubblicato il video riceverà una notifica relativa al tuo "Mi piace". I tuoi "Mi piace" ci aiutano a capire quale tipo di contenuti possiamo mostrarti in base alle tue preferenze». Il like, in base al “codice” fornito da Facebook, è dunque un’espressione di apprezzamento o approvazione nei confronti di un determinato contenuto – proprio come il corrispondente pollice alzato nella vita reale – e non ha alcun connotato propagandistico, nell’accezione prima ricordata.

 

 

4.2. È ovvio, tuttavia, che oltre al significato attribuito dal sistema convenzionale, ciascun significante può assumere, a seconda del contesto, un significato ulteriore e differente: così, ad esempio, un like apposto ad un post di cordoglio esprime partecipazione emotiva, non certo giubilo. Non sembra, tuttavia, che il “mi piace”, nella prassi, abbia acquisito il significato di divulgazione attiva di contenuti (pur avendo, effettivamente, anche un effetto di divulgazione – la cui portata, come già accennato, non può tuttavia essere valutata con certezza). Indizi in questo senso si ricavano dal funzionamento e dall’interfaccia del social network.

Innanzitutto, il like – sulla base della citata descrizione fornita da Facebook – ha due destinatari principali: l’utente che ha condiviso il contenuto, che riceve un’apposita notifica, e il social network stesso, che acquisisce il dato e lo utilizza per affinare la profilazione. La percezione “social” del “mi piace” è primariamente legata a queste due funzioni immediate: da un lato, l’espressione di un consenso nei confronti dell’autore del post; dall’altro, la costruzione di un’esperienza sui social personalizzata, plasmata sugli interessi degli utenti. La diffusione del contenuto presso terzi è soltanto un effetto collaterale dell’apposizione del “mi piace”, che non è in grado di qualificare in senso teleologico la condotta di divulgazione. D’altra parte, il like – come tutte le altre reaction  – influenza più che altro l’ordine con il quale vengono mostrati i contenuti sul feed. Coloro che in ogni caso avrebbero potuto vedere il contenuto sul proprio feed – perché “amici” dell’utente o “seguaci” della pagina che ha pubblicato il post – avranno più probabilità di vederlo, se un altro “amico” mette un like[8].

 

 

4.3. In ogni caso, se anche si ritenesse che il like possa integrare la condotta tipica descritta dalla fattispecie, un ostacolo al riconoscimento della responsabilità penale ai sensi dell’art. 604-bis, co. 1, lett. a, c.p. parrebbe provenire dal difficile accertamento del “dolo di propaganda” in capo all’utente. Se, infatti, il like è utilizzato come strumento per manifestare gradimento – e così è presentato dalla stessa piattaforma – non si vede come si possa provare al di là di ogni ragionevole dubbio che l’indagato si sia rappresentato e abbia voluto la propaganda del contenuto. Il confronto con un altro tool offerto da Facebook – la condivisione di un post altrui (c.d. repost) – può inoltre essere utile per comprendere, a contrario, la funzione del like all’interno del social network e il prevedibile contegno psicologico degli utenti che lo utilizzano.

 Se, come abbiamo già accennato, il “mi piace” ha un impatto perlopiù sull’ordine con il quale vengono visualizzati i post nel feed, il repost, al contrario, consente agli utenti di mostrare sul feed dei propri “amici” un contenuto che essi – in assenza di collegamento con l’utente del post originale – non avrebbero visto. La condivisione, insomma, serve ad allargare l’audience del post. Inoltre, l’utente che effettua un repost – pur rinviando ad un altro contenuto – diventa autore di un’autonoma pubblicazione, con la conseguenza che il post sarà accessibile sulla sua bacheca e che gli “amici”, sul feed, vedranno il contenuto come pubblicato a suo nome.

Il concreto funzionamento di Facebook, dunque, induce a ritenere che il post e il repost siano concepiti e utilizzati come strumenti attivi di diffusione di contenuti[9] e che il like, al contrario, mantenga una mera funzione di apprezzamento (o meglio, di espressione di un interesse): potrebbe dunque risultare complesso provare che un utente abbia apposto un like rappresentandosi e volendo la propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale, dal momento che tale risultato è più efficacemente conseguibile attraverso strumenti maggiormente adatti allo scopo, quali il post e il repost.

 

 

4.4. Recentemente, tra l’altro, anche la Corte Edu, nel caso Melike c. Turchia (2021)[10], ha riconosciuto che il like non esprime una volontà attiva di diffusione. Oggetto del ricorso, in quel caso, era il licenziamento subito da una dipendente pubblica per il solo fatto di avere messo “mi piace” ad alcuni post che contestavano la politica repressiva del Governo; in base alla posizione delle autorità turche, il like avrebbe violato una norma del contratto collettivo di lavoro che sanzionava la perturbazione a fini ideologici e politici della pace, della tranquillità e dell’ordine pubblico sul luogo di lavoro[11]. I giudici di Strasburgo, nel riconoscere la violazione dell’art. 10 Cedu, che sancisce il diritto alla libertà di espressione, stabilivano che l’utilizzo del like «ne peut être considéré comme portant le même poids qu’un partage de contenu sur les réseaux sociaux, dans la mesure où une mention «J’aime» exprime seulement une sympathie à l’égard d’un contenu publié, et non pas une volonté active de sa diffusion» (§ 51). Sebbene sia stata resa nell’ambito di un contenzioso disciplinare, tale affermazione parrebbe avere portata generale, non circoscritta alla specifica vicenda controversa.

 

 

4.5. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se possa comunque residuare una responsabilità concorsuale in capo all’autore del like, per aver contribuito, con la sua condotta atipica, alla diffusione del post originario, integrante gli estremi del reato di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a).

Anche volendo tralasciare le già accennate difficoltà probatorie in ordine all’accertamento dell’elemento soggettivo, la risposta, a parere di chi scrive, deve essere in ogni caso negativa.

La propaganda di idee suprematiste è infatti considerato un reato di mera condotta e istantaneo, che si consuma nel momento in cui avviene la diffusione “pericolosa”[12]. Una volta pubblicato online il post di propaganda, le successive interazioni con esso potranno dunque essere punite, qualora ve ne siano i presupposti, a titolo autonomo[13] (si pensi, per l’appunto, alla ricondivisione di un post razzista).

 

 

5. Quanto al secondo capo di imputazione, la Cassazione riconosce, in capo all’indagato, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di partecipazione ad un’«organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» (art. 604-bis, co. 2, c.p.).

Se non vi sono dubbi che un’associazione a delinquere possa operare anche esclusivamente sul web[14] – tanto che la qualificazione della community virtuale ai sensi dell’art. 604-bis, co. 2, c.p. non è oggetto di contestazione da parte del ricorrente – più complesso è comprendere quale contributo del singolo possa assurgere al ruolo di partecipazione al gruppo criminale, individuando, a tal fine, i relativi indicatori sintomatici. Nel caso di specie, in particolare, l’indagato contesta che il Tribunale di Roma abbia valorizzato, tra gli indici di partecipazione, l’apposizione di like ad alcuni post razzisti pubblicati dalla pagina Facebook riconducibile al gruppo neofascista[15].

 

 

5.1. Rileviamo, innanzitutto, come nelle motivazioni della Corte non sia esplicitato il ragionamento logico induttivo che consentirebbe di inferire dall’apposizione del like l’appartenenza all’associazione. È noto come il deficit di tipicità delle fattispecie associative, sotto il profilo della condotta di partecipazione, abbia determinato la necessità, per la giurisprudenza, di individuare indici sintomatici di ricorrenza dell’elemento tipico, sulla base di massime di esperienza. Questa pur opportuna opera di raccordo tra tipicità ed elementi probatori non deve, tuttavia, essere equivocata[16]: oggetto di dimostrazione probatoria, al di là di ogni ragionevole dubbio, dovrà pur sempre essere la “partecipazione” – da intendersi, nel rispetto del principio di offensività, come contributo materiale al mantenimento dell’associazione e al raggiungimento dei suoi scopi, non certo come semplice affectio societatis o mera adesione psicologica[17].

Se la nozione astratta di “partecipazione” può considerarsi comune a tutte le fattispecie associative, sono invece le modalità concrete di adesione a differire da un reato all’altro, a seconda della struttura organizzativa e delle finalità dell’associazione[18]; di conseguenza, anche gli indicatori fattuali di partecipazione potranno essere differenti.

Così, in relazione alle associazioni mafiose – in cui l’archetipo organizzativo è ancora sostanzialmente di tipo familistico-patriarcale e la partecipazione avviene attraverso l’assenso preventivo a prestare la propria attività nell'interesse dell'associazione (c.d. "messa a disposizione") – sono considerati indici di partecipazione «i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di "uomo d'onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi "facta concludentia"»[19].

Al contrario, la partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jihadista (270-bis, co. 3, c.p.) «può manifestarsi anche attraverso modalità di adesione aperte e spontaneistiche, che non implicano l'accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi»[20], tanto che non è considerato necessario verificare se all'adesione abbia corrisposto un'accettazione ad opera dei vertici associativi[21]. Così, più che l'assunzione di un ruolo concreto nell'organigramma criminale, è stato ritenuto indice di partecipazione all’associazione di cui all’art. 270-bis, co. 3, c.p. lo svolgimento di attività preparatorie o strumentali rispetto all’esecuzione del programma criminale (si pensi alla falsificazione di documenti, alla raccolta di fondi, alla propaganda svolta online o in centri culturali[22]).

 

 

5.2. Quanto all’associazione di cui all’art. 604-bis, co. 2, c.p., non pare, in giurisprudenza, che si sia proceduto all’identificazione delle caratteristiche socio-criminologiche di questi gruppi criminali[23]. D’altra parte, il riferimento, nella norma, alle ipotesi di “organizzazione”, “movimento” o “gruppo” – oltre a quella tradizionale di “associazione” – sembrerebbe escludere la necessità di una struttura consolidata e gerarchica[24].

In ogni caso, benché non formalizzato e “liquido” – come è ormai la prassi in molte dinamiche relazionali contemporanee[25]il contributo del singolo all’associazione deve pur sempre essere attivo e causale rispetto alla realizzazione del programma criminale, in conformità con il principio di offensività.

Se consideriamo la finalità prettamente comunicativa delle associazioni punite all’art. 604-bis, co. 2, c.p., la valutazione delle interazioni sui social network tra singolo e gruppo può rivelarsi certamente importante dal punto di vista probatorio. Tuttavia, a parere di chi scrive, soltanto un’attività di comunicazione sostenuta e continuativa potrebbe essere indicativa di una partecipazione al gruppo: il singolo like – così come la singola ricondivisione – esprime apprezzamento e sostegno nei confronti di contenuti specifici, dai quali non pare che possa dedursi un’adesione alle finalità fondative di un’organizzazione. È piuttosto il pattern comunicativo complessivo che potrebbe fornire indizi di partecipazione: si pensi, ad esempio, ad un profilo Facebook dedito esclusivamente al “rilancio”, attraverso “mi piace” o repost, di contenuti razzisti e antisemiti.

D’altra parte, anche qualora si volesse condividere la qualificazione del like come condotta di propaganda ai sensi dell’art. 604-bis, co. 1, lett. a) c.p., non sarebbe corretto dedurre dalla realizzazione di un singolo delitto-scopo la partecipazione all’associazione – specie in un contesto, com’è quello dello spazio virtuale, in cui un contributo materiale alle attività del gruppo può derivare solo da una massiccia attività di propaganda.

 

 

5.3. Va infine sottolineato che, a parere di chi scrive, la prova della partecipazione all’associazione di cui all’art. 604-bis, co. 2, c.p. dovrebbe richiedere un particolare rigore, stante il modello di anticipazione della tutela penale “al quadrato” che caratterizza la fattispecie, in cui l’offesa al bene giuridico – già di per sé di difficile individuazione[26] – è appena percepibile in lontananza. Al paradigma di per sé anticipatorio della fattispecie associativa, si cumula infatti la finalità di commettere reati di pericolo («l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; sostanzialmente le fattispecie descritte al primo comma dell’art. 604-bis c.p.). Per non svuotare integralmente di contenuto offensivo la condotta di partecipazione, si pone dunque la necessità di un vaglio meticoloso dell’apporto del singolo nella realizzazione del programma criminoso, non essendo sufficiente la prova di una generica approvazione delle finalità e delle modalità con cui opera il gruppo.

 

 

[1] Il secondo motivo di ricorso, che contesta l'adeguatezza della misura cautelare applicata, non sarà oggetto di trattazione in questa sede.

[2] Cass., sez. V, 25 settembre 2017, n. 55418, Dibrani, in De Jure.

[3] In senso contrario, sempre in relazione al reato di cui all’art. 414, co. 4, c.p., vd. invece Cass., sez. I, 6 giugno 2019, n. 41635, Shabbi, in De Jure, in cui la corte di legittimità – nel rigettare il ricorso proposto dalla procura avverso una sentenza di assoluzione – sembra invece condividere le valutazioni della corte territoriale sul significato di mero gradimento del “mi piace”: «la mera apposizione di un like su commenti pubblicati in siti web era solo manifestazione di assenso e la prova che detta azione non era finalizzata a replicare la visualizzazione stava nel fatto che l'imputata ignorava i meccanismi di diffusività virale».

[4] Cass., sez. I, 13 dicembre 2019, dep. 2020, n. 1602, in De Jure; Cass., sez. V, 7 maggio 2019, n. 32862, in De Jure.

[5] C. Visconti, Il legislatore azzeccagarbugli: «le modifiche in materia di reati di opinione» introdotte dalla l. 24 febbraio 2006, n. 85, in Foro it., 2006, V, p. 223; in termini simili, G. Pavich – A. Bonomi, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a costituzione la normativa vigente, in Dir. pen. cont., 13 ottobre 2014, p.  21-22; F. Bellagamba, Dalla criminalizzazione dei discorsi d’odio all’aggravante del negazionismo: nient’altro che un prodotto della legislazione penale “simbolica”?, in DisCrimen, 2019, p. 3, che individua tra la previgente e la nuova disposizione un rapporto di specialità per specificazione. In giurisprudenza vd. Cass., sez. III, 13 dicembre 2007, dep. 2008, n. 13234, Bragantini ed altri, in CED, rv. 239461; Cass., sez. III, 7 maggio 2008, Mereu, n. 35781, in CED, rv. 241072.

[6] La natura di reato a dolo generico è stata confermata da Cass., sez. III, 7 maggio 2008, cit; Cass., sez III, 13 dicembre 2007, cit.; Cass., sez. III, 24 aprile 2013, n. 33179, Scarpino, in Foro it., 2014, II, 90, con nota di S. Di Paola; vd. però G. Pagliarulo, La tutela penale contro le discriminazioni razziali, in Arch. pen., 3/2014, p. 14, p. 9: «la propaganda è una diffusione “finalizzata”, dunque non è illogico affermare che nella rappresentazione e volizione dell'agente debba rientrare anche l'obiettivo di ottenere il consenso dei destinatari».

[7] Controverso, invece, è se – oltre alla verifica del requisito teleologico della condotta – sia necessario accertare, caso per caso, anche l’idoneità della divulgazione ad attrarre consensi e adesioni (e, dunque, la sussistenza di un pericolo concreto). Sulle due posizioni vd. diffusamente A. Galluccio, Punire la parola pericolosa?, Giuffré, 2020, p. 375 ss.

[8] Queste le scarne informazioni che fornisce Facebook, nella sua sezione informativa, in merito al funzionamento del feed «I post che vedi nel feed sono concepiti per farti rimanere in contatto con le persone, i luoghi e le cose che ti interessano, a partire dai tuoi amici e familiari. I post che vedi più in alto nel feed sono determinati dalle tue connessioni e attività su Facebook. Anche il numero di commenti, "Mi piace" e reazioni ricevuto da un post e il tipo di post (ad esempio foto, video, aggiornamento di stato) possono avere un impatto sulla visualizzazione del post più in alto nel feed. Ecco i post che potresti vedere più in alto nel feed:

- I "Mi piace" o i commenti di amici o familiari su foto o aggiornamenti di stato di altri amici

- La reazione di una persona a un post di un editore condiviso da un amico

- Le risposte di più persone ai rispettivi commenti su un video che hanno guardato o su un articolo che hanno letto nel feed».

[9] Vd. in questo senso, in materia di apologia di delitti di terrorismo, Cass., sez. I, 9 ottobre 2018, n. 51654, in De Jure: «Poco importa, ai fini dell'integrazione del reato, che il ricorrente abbia condiviso link a materiale già esistente sulle piattaforme in cui ha pubblicato e non già abbia postato e cioè pubblicato in via autonoma i link medesimi. In ogni caso ha potenziato la diffusione del materiale propagandistico, accrescendo il pericolo che altri potesse non solo emulare atti di violenza, il martirio e l'adesione alla jihad, ma anche solo che potesse aderire, in quelle forme aperte e fluide di cui si è detto, all'associazione terroristica».

[10] C. Edu, Melike c. Turchia, 15 settembre 2021, n. 35786/19.

[11] Nello specifico, il contratto collettivo di lavoro sanzionava qualsiasi atto volto a: «perturber la paix, la tranquillité et l’ordre du lieu de travail à des fins idéologiques et politiques, faire une boycotte ou une occupation, avoir des comportements visant à empêcher la conduite des services publics et provoquer et encourager ces actes» (§ 7).

[12] Vd. S. Seminara, La responsabilità penale degli operatori su internet, in Dir. informatica, fasc. 4-5, 1998, p. 765; G. Pagliarulo, La tutela penale contro le discriminazioni razziali, cit., p. 7.

[13] Vd. S. Seminara, La responsabilità penale degli operatori su internet, cit., p. 765: «I reati (di condotta) fondati su verbi modali come diffondere, divulgare ecc. si consumano nel momento in cui i contenuti illeciti sono resi accessibili da parte del loro autore». Il tema è trattato soprattutto con riferimento al reato di diffamazione commesso online vd. Cass., sez. V, 8 novembre 2018, dep. 2019, n. 12546, in Dir. pen. cont., con nota di C. Pagella; Cass., sez. V, 29 maggio 2015, n. 38099, in CED, rv. 264999; Cass., sez. V, 27 aprile 2012, n. 23624, in CED, rv. 252964; per una sentenza di senso contrario vd. Cass., sez. V, 27 dicembre 2016, n. 54946, in Giur. pen. web, 3 gennaio 2017, che – implicitamente – ritiene che la condotta diffamatoria si protragga per tutto il tempo in cui il contenuto rimane online e riconosce una responsabilità concorsuale omissiva a carico dell’internet service provider che abbia «mantenuto consapevolmente l'articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria»; su quest’ultima pronuncia vd., in senso critico, A. Ingrassia, Responsabilità penale degli internet service provider: attualità e prospettive, in Dir. pen. proc., 12/2017, p. 1621 ss; C. Curreli, La diffamazione su facebook, tra diritto sostanziale e profili probatori, in Resp. civ. e prev., 1/2017, p. 189 ss.; per un approfondimento dei diversi orientamenti vd. B. Panattoni, I riflessi penali del perdurare nel tempo dei contenuti illeciti nel cyberspace, in questa Rivista, 5/2020.

[14] Vd. Cass., sez. III, 24 aprile 2013, n. 33179, cit., sulla fattispecie associativa de qua; Cass., sez. III, 2 dicembre 2004, dep. 2005, n. 8296, in De Jure, in materia di associazione per delinquere finalizzata allo scambio di materiale pedopornografico.

[15] La Cassazione, inoltre, deduce la partecipazione all’associazione da alcune conversazioni intercettate, nelle quali conclamati membri dell’associazione criminale si compiacciono dell’adesione dell’indagato al gruppo e lo esortano ad adottare delle misure cautelative per evitare di essere scoperto.

[16] Il dibattito sulla confusione tra tipicità ed elementi probatori è sorto soprattutto con riferimento alla giurisprudenza in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso; vd. V. Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni unite, in questa Rivista, 5/2021; G. Di Vetta, Tipicità e prova. Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. pen., 1/2017; più in generale, sulle c.d. “fattispecie di contesto” vd. A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., in Arch. pen., 3/2018.

[17] Si vd., in materia di associazioni mafiose, ex multis, Cass., sez. VI, 24 giugno 2016, n. 40746, in CED, rv. 268325; Cass., sez. V, 14 febbraio 2014, n. 13071, in CED, rv. 260211; in materia di associazioni terroristiche, Cass., sez. I, 22 marzo 2013, n. 22719, in De Jure; Cass., sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 14503, in De Jure; Cass., sez. I, 15 giugno 2006, n. 30824, in De Jure.

[18] Cass., sez. I, 9 ottobre 2018, n. 51654, in De Jure.

[19] Cass., sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748, Mannino, in Foro it., 2006, II p. 79 ss., con nota di G. Fiandaca – C. Costantino.

[20] Cass., sez. V, 13 luglio 2017, n. 50189, Bekaj e altri, in CED, rv. 271647.

[21] Cass., sez. V, 13 luglio 2017, n. 50189, cit.; Cass., sez. I, 9 ottobre 2018, n. 51654, in De Jure.

[22] Cass., sez. V, 8 ottobre 2015, dep. 2016, n. 2651, Nasr Osama, in CED, rv. 265925; Cass., sez. I, 9 ottobre 2018, n. 51654, in De Jure; Cass., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 22163, in De Jure; per un esame più analitico degli indici di partecipazione all’associazione terroristica si vd. L. Giordano, Associazione con finalità di terrorismo: l’interpretazione giurisprudenziale di una fattispecie problematica, in Dir. pen. proc., 2, 2019, 274 ss.; F. Viganò, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica e art. 270-bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., fasc. 10, 2007, p. 3953B.

[23] Sulla fattispecie associativa di cui all’art. 604-bis, co. 2, c.p. vd. più diffusamente C.D. Leotta, (voce) Razzismo, in Dig. disc. pen., 2008, § 6; G. Pagliarulo, La tutela penale contro le discriminazioni razziali, cit., p. 14.

[24] C.D. Leotta, (voce) Razzismo, cit., § 6.

[25] La metafora dello “stato liquido” della società post-moderna si deve, com’è noto, a Zygmunt Bauman, di cui si vd. ex multis Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2002; Id., Vita liquida, Laterza, 2006.

[26] L’attuale collocazione sistematica della norma tra i Delitti contro l'eguaglianza (Sezione I-bis del Capo III - Dei delitti contro la libertà individuale) induce la dottrina a ritenere che il bene giuridico tutelato sia la pari dignità, vd. A. Galluccio, Punire la parola pericolosa?, cit., p. 348. Sulla sfuggevolezza del bene giuridico così identificato si vd. per tutti A. Spena, La parola-odio. Sovraesposizione, criminalizzazione e interpretazione dello hate speech, in DisCrimen, 2018, passim.