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14 Maggio 2020


La Cassazione sull’omicidio aggravato dall’essere stato commesso dall’autore di atti persecutori: reato complesso o concorso di reati?

Nota a Cass., Sez. I, 14 maggio 2019 n. 20786, Pres. Casa, Rel. Santalucia, ric. P.G. C. App. Roma



1. Con la decisione in commento la Prima Sezione penale della Corte di cassazione è intervenuta sul tema dei rapporti tra il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. e l’omicidio aggravato di cui all’ art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p., escludendo che il primo possa ritenersi assorbito nel secondo, ai sensi dell’art. 84 c.p.

Tale decisione appare interessante nella misura in cui offre un’occasione per riflettere, in generale, sul ruolo da riconoscere alla disciplina del reato complesso e, più nello specifico, sull’ambito di applicazione dell’aggravante che prevede la pena dell'ergastolo qualora il delitto di omicidio venga commesso dall'autore del delitto di atti persecutori.

 

2. La vicenda portata dinnanzi ai giudici di legittimità riguardava diverse condotte poste in essere da P.V., il quale, incapace di accettare la rottura con la fidanzata D.P.S., dapprima la molestava e minacciava con assidui contatti telefonici e informatici e con ripetute richieste d’incontri, maturando poi la decisione di ucciderla, strangolandola, e di distruggerne il cadavere, una volta scoperto che la stessa aveva intrapreso una relazione con un altro uomo, G.A., del quale incendiava l’autovettura.

All’esito del giudizio di primo grado, celebrato nelle forme del rito abbreviato, l’imputato veniva condannato alla pena dell’ergastolo per il delitto di omicidio della ex fidanzata, aggravato ai sensi dell’ art. 576 co.1 n. 5.1 in quanto commesso dall’autore del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. nei confronti della medesima persona offesa, oltre che con premeditazione, approfittando della minorata difesa e per motivi abietti e futili; per il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. e per la distruzione del cadavere, nonché per il delitto di danneggiamento seguito da incendio dell’autovettura di G.A.

La Corte di assise di appello di Roma, tuttavia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riduceva la pena inflitta ad anni trenta di reclusione, alla luce del fatto che il delitto di atti persecutori dovesse ritenersi assorbito in quello di omicidio aggravato. Secondo i giudici d’appello, infatti, in base a quanto previsto dall’art. 84 c.p., non può trovare autonoma applicazione il delitto di atti persecutori in virtù del fatto che esso è contemplato come specifica circostanza aggravante del delitto di omicidio all’art. 576 co. 1 n. 5.1.  

Contro tale decisione proponevano ricorso per Cassazione tanto il difensore dell’imputato quanto il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma.

In particolare, quest’ultimo deduceva vizio di violazione di legge con riguardo all’assorbimento degli atti persecutori nel delitto di omicidio aggravato. Diversamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, secondo il Procuratore ricorrente, infatti, quel che aggrava il reato di omicidio non è la contestuale commissione degli atti persecutori, ma il fatto che l’autore del delitto di atti persecutori sia anche autore del delitto di omicidio, dovendo pertanto configurarsi un concorso reale tra i due reati.

 

3. Secondo la Suprema Corte, le censure espresse dal Procuratore generale sono fondate e meritano accoglimento: la tesi in base alla quale il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 assorbe il delitto di atti persecutori è da ritenersi errata, poiché l’art. 84 c.p. “regola esclusivamente il caso di interferenza tra fattispecie e specificamente tra i profili oggettivi del tipo normativo[1].

In particolare, con riferimento all’omicidio aggravato per essere stato commesso dall’autore del delitto di atti persecutori, la Prima sezione ritiene che non vi sia alcuna interferenza tra detta fattispecie e gli atti persecutori per due principali ragioni.

Da un lato, infatti, il disvalore aggiuntivo di cui si colora l’omicidio è posto in diretta derivazione dall’essere l’autore colui che prima ha oppresso la vittima con atti persecutori. L’aggravamento di pena previsto per l’omicidio dipende, dunque, da un elemento di natura soggettiva , non riguarda la condotta e le sue modalità di commissione e non può quindi porsi al centro di un rapporto di interferenza tra fattispecie.

Si tratta di due fattispecie che non si trovano in rapporto di specialità, perché la commissione degli atti persecutori, reato di natura abituale e a forma vincolata, non involge in alcun modo la commissione del fatto di omicidio, reato di natura istantanea e causalmente orientato.

Pertanto, secondo i giudici di legittimità, non operando nella materia del concorso apparente di norme criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., non si verifica l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in assenza di una qualsivoglia affinità strutturale tra fattispecie.

D’altra parte, secondo i giudici di legittimità, la clausola di riservasalvo che il fatto costituisca più grave reato”, contenuta nell’art. 612-bis c.p., non può riferirsi al rapporto con il delitto di omicidio, poiché la sua natura istantanea lo pone al di fuori dalla possibile area d’interferenza con il reato abituale di atti persecutori.

In conclusione, quindi, la sentenza viene annullata con rinvio ad altra sezione per nuovo esame sul trattamento sanzionatorio alla luce del principio di diritto secondo cui “l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 comma 1 n. 5.1 non assorbe, per difetto di una relazione di specialità tra fattispecie, il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p.[2].

 

4.  Le argomentazioni adottate dalla Corte per escludere l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co.1 n. 5.1 meritano alcune riflessioni. 

Ci pare opportuno, in particolare, focalizzare l’attenzione su due aspetti: da un lato, quello dei rapporti intercorrenti tra l’art. 576 co. 1 n. 5.1 e l’art. 612-bis c.p., nell’alternativa tra reato complesso e concorso di reati; dall’altro l’aspetto relativo all’ambito di applicazione dell’aggravante speciale.

 

5. Com’è noto, nell’ambito dell’alternativa tra concorso apparente di norme e concorso di reati si contrappongono, da un lato,  la posizione della giurisprudenza dominante – ribadita, da ultimo, nella pronuncia a Sezioni unite n. 20664/2017[3] – che risulta tradizionalmente assestata sul riconoscimento della specialità in astratto di cui all’art. 15 c.p. quale unico criterio, previsto dalla legge, in grado di escludere il concorso formale tra due reati e di suggerire all’interprete quale sia la norma applicabile nel caso in cui il medesimo fatto sia astrattamente riconducibile nell’ambito di applicazione di diverse fattispecie incriminatrici[4].

Al di fuori di tale regola, solo le clausole di riserva espressamente previste dal legislatore, che individuino la norma prevalente secondo una logica differente da quella di specialità, potrebbero derogare alla regola del concorso di reati.

 

6. D’altra parte, invece, la prevalente dottrina[5] appare maggiormente incline ad estendere l’ambito del concorso apparente di norme, a discapito di quello del concorso di reati, riconoscendo, oltre al criterio logico-formale di specialità, ulteriori criteri di valore.

In particolare, viene da più parti osservato che la presenza di un così rilevante numero di norme incriminatrici contenenti clausole di riserva conduce al riconoscimento di un più ampio criterio di sistema in grado di operare non solo nei casi di sussidiarietà espressa, ma anche nelle ipotesi di sussidiarietà tacita, ipotesi che si verifica qualora due norme incriminatrici, contemporaneamente applicabili al medesimo fatto concreto, individuino due figure di reato di diversa gravità delle quali l’una offenda, a fianco al bene tutelato dall’altra norma, anche un bene giuridico ulteriore ovvero reprima un maggior grado d’offesa al medesimo bene giuridico[6].  

Ad esso, si affianca, inoltre, il criterio di assorbimento o di consunzione, che conduce l’interprete ad escludere il concorso materiale tra reati tutte le volte in cui la realizzazione di un fatto sia strettamente funzionale alla commissione di un altro e più grave, che assorbe in definitiva l’intero disvalore del fatto concreto[7]; ovvero, secondo un’altra ricostruzione, esso va escluso quando la realizzazione di un reato comporta, secondo l’id quod plerumque accidit, la commissione di un reato meno grave, da ritenersi assorbito nel primo, con la conseguente applicazione esclusiva della norma che preveda il trattamento penale più severo[8].

In particolare, costituiscono un’estrinsecazione di tale criterio gli istituti della progressione criminosa (riscontrabile ogni qualvolta si susseguano aggressioni di crescente gravità nei confronti del medesimo bene giuridico) e dell’antefatto e post fatto non punibili (che vengono in rilievo in quei casi in cui la commissione di un reato meno grave costituisce, nel primo caso, il mezzo ordinario di realizzazione del reato più grave ovvero, nel secondo caso, l’ordinaria prosecuzione di una condotta precedente che integra il reato più grave). Talvolta è lo stesso legislatore che espressamente esclude l’applicabilità della norma meno grave violata con la condotta antecedente ovvero di quella meno grave violata con la condotta successiva.

In ogni caso, al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, tali figure vengono evocate dagli interpreti ogni qualvolta ci si trovi di fronte a più azioni naturalistiche, che potrebbero essere ricondotte a diverse figure di reato, dando luogo ad un concorso reale, ma che in realtà sono riducibili ad un’azione giuridicamente unitaria, il cui disvalore è ben rappresentato dalla norma che prevede il trattamento sanzionatorio più grave.

 

7. In questo composito quadro, si inserisce l’art. 84 c.p., che prevede espressamente che non si applichino le disposizioni sul concorso di reati “quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”.

Secondo la prevalente giurisprudenza[9], esso rappresenta una mera ripetizione del principio di specialità: non vi sarebbe alcuna deroga ai principi generali in materia di concorso apparente, e in particolare al criterio di specialità,  nei casi in cui una fattispecie si presenti, già a livello astratto, come il risultato dell’unificazione di due reati quali elementi costitutivi di un terzo ovvero nei casi in cui gli estremi di un reato autonomo vengano attratti in funzione di circostanza all’interno di un altro reato.

L’indirizzo dominante in dottrina[10], invece, interpreta l’art. 84 c.p. proprio come espressione del principio di consunzione ed estende, pertanto, l’ambito di operatività del concorso apparente di norme – al di là dei casi di rigida unificazione legale di due reati autonomi – fino a ricomprendervi tutte quelle ipotesi nelle quali in concreto si fondono due fatti costituenti reato entro l’orizzonte di un reato dominante che viene ad assorbire l’altro in quanto fattispecie più grave Si parla in tal caso di reato eventualmente complesso[11].

 

8. Fatta questa breve premessa ricostruttiva, a noi pare che il richiamo della Corte all’art. 15 c.p. e all’assenza di un rapporto di interferenza tra fattispecie non sia del tutto condivisibile.

Nel caso di specie portato all’attenzione dei giudici di legittimità, infatti, è indubitabile che l’agente abbia posto in essere dapprima gli atti persecutori e, in seguito, l’omicidio dell’ex fidanzata, commettendo, dunque due fatti di reato strutturalmente e cronologicamente autonomi e distinti.

Proprio per tale ragione, l’art. 15 c.p. non è in questi casi in grado di fornire soluzioni al problema, essendo destinato ad operare solo laddove più norme incriminatrici siano apparentemente applicabili di fronte ad un unico fatto concreto[12].

Allo stesso modo, non ci sembra determinante il richiamo alla clausola di riserva contenuta in esordio all’art. 612-bis c.p., che espressamente stabilisce l’applicabilità della norma “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, poiché anch’essa – al di là della dibattuta questione circa l’accertamento della coincidenza o meno dei beni giuridici tutelati dalle due norme apparentemente applicabili[13] – è in ogni caso destinata ad operare solo a condizione che vi sia un unico fatto concreto che risulti astrattamente riconducibile nell’ambito di due diverse norme incriminatrici, ma non al cospetto di una pluralità di fatti concreti[14].

Al di là dei richiami formali all’art. 15 c.p. e alla clausola di riserva contenuta nell’art. 612-bis c.p., il ragionamento della Corte appare esclusivamente incentrato sulla constatazione che il disvalore aggiuntivo di cui si colora il fatto di omicidio derivi “dall’essere l’autore colui che prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori”[15].

Proprio per tale ragione, a parere della Corte, è da escludere l’esistenza di un  rapporto di interferenza tra l’art. 576 co. 1 n. 5.1 e l’art. 612-bis c.p.

L’impostazione accolta dai giudici di legittimità, favorevole a restringere il raggio d’azione del concorso apparente di norme in tale specifica ipotesi, subisce, forse, l’influenza dei principi espressi in materia dalla precedente giurisprudenza, secondo cui la formulazione usata per indicare il presupposto necessario per la sussistenza dell’aggravante in esame – l’essere il colpevole di omicidio o lesioni “autore del delitto di cui all'art. 612-bis c.p.” – indica la chiara volontà del legislatore di sganciare l'applicazione dell'aggravante alla condanna per il delitto di atti persecutori. Ad avviso di tale orientamento, infatti, si può essere autori di un reato anche senza essere per esso processati o processabili, potendo il giudice risolvere incidentalmente la relativa questione, ai sensi dell’art. 2 c.p.p., in modo tale da pervenire ad una decisione circa la sussistenza dell'aggravante in parola[16].

Riteniamo però che l’infelice formulazione della norma non possa in alcun modo arrivare al punto di giustificarne un’interpretazione soggettivistica, che intenda sganciarla dalla commissione di un fatto, poiché tale lettura si pone in contrasto con il principio di offensività: ciò che aggrava il delitto di omicidio non è il fatto che esso venga commesso dallo stalker in quanto tale, ma il fatto che esso venga preceduto da condotte persecutorie effettivamente commesse.

Tanto chiarito, a noi pare che l’art. 576 co. 1 n. 5.1 debba essere considerato, a tutti gli effetti, un reato complesso in senso stretto, ai sensi dell’art. 84 c.p.[17].  

Lo stesso legislatore ha infatti espressamente provveduto all’unificazione normativa dei fatti di omicidio e di quello di atti persecutori che, altrimenti, costituirebbero sicuramente reati a sé stanti – integrabili con autonome condotte, produttivi di eventi diversi, offensivi di beni giuridici eterogenei e riconducibili sotto due distinte norme incriminatrici – e, quindi, potenzialmente in concorso materiale tra loro,  in assenza di tale specifica norma. Ed infatti, l’art. 612-bis c.p. compare, in tutti i suoi elementi, in funzione di specifica circostanza aggravante del delitto di omicidio.

Posto che la funzione pratica dell’istituto[18], anche nella sua interpretazione più restrittiva, è proprio quella di evitare che l’interprete sia indotto ad applicare il regime sul concorso di reati laddove vi sia una rigida unificazione normativa di due distinti fatti di reato, non si comprendono le ragioni per le quali la Suprema Corte abbia scelto di  non misurarsi con l’argomento, avallando piuttosto un’interpretatio abrogans dell’art. 84 c.p.

Se è pur vero che possono esistere condotte persecutorie che non sfociano nell’omicidio della vittima e, d’altra parte, omicidi che non sono anticipati da condotte di tal tipo, tuttavia, con l’introduzione dell’art. 576 co. 1 n. 5.1[19], la volontà del legislatore era proprio quella di reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento il numero di omicidi consumati ai danni delle vittime di atti persecutori e tale obiettivo è stato perseguito con l’introduzione di una specifica aggravante comportante la pena dell’ergastolo[20].

In altri termini, nelle intenzioni del legislatore, l’applicazione della risposta sanzionatoria più grave prevista dal nostro ordinamento, da un lato, era considerata l’unica potenzialmente dissuasiva e, allo stesso tempo, esprimeva ed esauriva l’intero disvalore del comportamento del soggetto agente che, nella già predeterminata decisione di uccidere la vittima, dapprima pone in essere comportamenti persecutori e poi in seguito l’omicidio.

A nostro parere, dunque, operando un’interpretazione prettamente letterale dell’art. 84 c.p., l’art. 576 co. 1 n. 5.1 costituisce un reato complesso in senso stretto e il delitto di atti persecutori, contemplato in funzione circostanziale, deve ritenersi assorbito in quello di omicidio aggravato tutte le volte in cui – come accaduto nel caso di specie portato all’attenzione dei giudici di legittimità – la condotta omicida costituisca il punto d’arrivo della condotta persecutoria posta precedentemente in essere[21].

Tale conclusione ci pare, del resto, l’unica rispettosa del principio del ne bis in idem sostanziale, posto a fondamento della disciplina del reato complesso, che vieta che uno stesso fatto venga addossato giuridicamente due volte alla stessa persona, nei casi in cui l’applicazione di una sola norma incriminatrice assorba il disvalore del suo intero comportamento.

Accogliendo il ragionamento sostenuto dalla Prima sezione della Corte di cassazione e applicando la disciplina sul concorso di reati, si perviene infatti al concreto risultato che gli atti persecutori vengono addossati all’agente tanto a titolo di reato autonomo, ai sensi dell’art. 612-bis c.p., quanto a titolo di specifica circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 576 co.1 n. 5.1, sebbene il disvalore del suo comportamento sia già integralmente ed adeguatamente espresso da quest’ultima norma, che, come abbiamo anticipato, commina la pena dell’ergastolo.

Né, d’altra parte, l’assorbimento degli atti persecutori nell’omicidio aggravato comporterebbe un ammorbidimento della risposta sanzionatoria, perché, resterebbe comunque ferma l’applicazione dell’ergastolo per l’omicidio aggravato e la mancata applicazione del 612-bis c.p. come delitto autonomo escluderebbe al più soltanto l’applicabilità dell’isolamento diurno, ai sensi dell’art. 72 c.p.

Non vi è poi dubbio che dall’applicazione della sola aggravante di cui all’art. 576 co.1 n. 5.1 discende comunque un trattamento sanzionatorio più severo di quello che si otterrebbe dall’applicazione del cumulo delle pene previste dall’art. 575 per l’omicidio volontario non aggravato e dall’art. 612-bis c.p. per il delitto di atti persecutori.

 

9.  Chiarito che tra gli art. 576 co. 1 n. 5.1 e l’art. 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme e che, pertanto, il delitto di atti persecutori non possa trovare autonoma applicazione nei casi in cui l’omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie, occorre ora definire l’ambito di operatività della singola aggravante.

Da un punto di vista strettamente letterale, l’art. 576 co. 1 n. 5.1 si limita a richiedere che autore e vittima degli atti persecutori e dell’omicidio siano i medesimi, senza però stabilire alcun legame o collegamento di tipo eziologico o cronologico tra le due condotte[22].

La Prima Sezione della Cassazione, nel caso in esame, per arrivare ad escludere l’applicabilità dell’art. 84 c.p., fa proprio leva sulla differente formulazione dell’aggravante di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1, in cui il legislatore ha posto l’accento sulla mera identità soggettiva dell’autore e della vittima degli atti persecutori e dell’omicidio, rispetto a quella contemplata dall’art. 576 co. 1 n. 5, in cui si fa riferimento al vincolo di occasionalità esistente tra il delitto di omicidio e i delitti previsti dagli artt. 572, 583-quinquies, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies e quindi alla relazione tra i fatti commessi.

A noi pare però che tale lettura, pur possibile in base al dato meramente letterale, conduca ad esiti irragionevoli, nella  misura in cui rende ugualmente applicabile l’ergastolo, tanto nelle ipotesi di omicidio commesso all’esito di un’attività persecutoria, quanto nei casi in cui la commissione dell’omicidio sia svincolata dalla condotta di stalking e il disvalore del comportamento dell’agente risulti quindi diversamente connotato.

Così come interpretata dalla Suprema Corte, infatti, essa risulta potenzialmente applicabile anche a chi abbia già scontato interamente una condanna per gli atti persecutori ed uccida in seguito la vittima, anche a notevole distanza di tempo, per ragioni che nulla hanno a che vedere con la precedente condotta di persecuzione.

Al fine di neutralizzare il risultato irragionevole cui conduce una siffatta impostazione, riteniamo che ben possa operarsi un’interpretazione sistematica, che tenga in considerazione proprio l’art. 576 co. 1 n. 5.  La giurisprudenza, in linea con la prevalente dottrina, ritiene applicabile tale aggravante (e solo quella) non solo nei casi di contemporaneità delle condotte di omicidio e violenza sessuale, ma anche nei casi in cui l’omicidio si verifichi successivamente alla violenza sessuale, purché, appunto, entro un ridotto lasso di tempo, senza che si verifichi una netta e consistente cesura temporale tra i due fatti[23].

Ebbene, a noi sembra che la mancata previsione, all’interno dell’art. 576 co. 1 n. 5.1, del vincolo di occasionalità esistente tra gli atti persecutori e il successivo omicidio, possa in realtà solo condurre ad applicare l’aggravante nel caso in cui l’omicidio avvenga anche a distanza di tempo rispetto agli atti persecutori e difetti dunque la contestualità tra le due azioni. Ci pare, però, irragionevole ritenere applicabile tale aggravante anche qualora l’omicidio, pur commesso a distanza di tempo dallo stesso soggetto nei confronti della medesima vittima, non avvenga “a causa” o “nel contesto” della precedente condotta persecutoria.

Si pensi, per fare un esempio, al caso di un omicidio commesso, a distanza di anni, dopo aver scontato una condanna per stalking, nei confronti della vittima di precedenti atti persecutori, finalizzato, però, ad ottenere il pagamento di un’assicurazione dal suo decesso. In tal caso, in effetti, non solo difetta  la contestualità tra le due azioni, ma manca anche un qualsiasi collegamento tra lo stalking e l’omicidio, essendo quest’ultimo non determinato dalla precedente condotta. Se non si accerta l’esistenza di questo rapporto – che non può essere costituito esclusivamente dalla circostanza che si tratti dello stesso autore di reato e della stessa vittima – si finisce per applicare all’omicidio la pena dell’ergastolo, anche quando manchi la ratio dell’aggravamento di pena, che è appunto quella di punire più severamente l’omicidio nei casi in cui rappresenti “l’ultimo atto” degli atti persecutori.

Proprio per tale ragione, così come auspicato dalla dottrina sin dal momento in cui tale aggravante venne introdotta[24], ci sembra opportuno circoscrivere l’ambito operativo dell’aggravante, limitandone l’applicabilità ai soli casi in cui l’omicidio rappresenti l’esito finale del delitto di atti persecutori, ed escludendola, invece, quando l’omicidio possa trovare motivazione in ragioni diverse dalla persecuzione.

 

 

[1] Cfr. par. 1.1 della sentenza in commento.

[2] Cfr. par. 2 della sentenza in commento.

[3] Cfr. Cass., Sez.Un., sent. 23 febbraio 2017, n. 20664, con nota di S. Finocchiaro, Il buio oltre la specialità. Le Sezioni unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione, in Dir. pen. cont., 8 maggio 2017; Cass., Sez. Un., sent. 28.10.2010 , n. 1235, , con nota di P. Caccialanza, Le Sezioni Unite escludono il concorso fra reati fiscali e truffa aggravata ai danni dello Stato, in Dir. pen. cont., 28 gennaio 2011; Cass., Sez. Un., sent. 20 dicembre 2005, n. 47164,; Cass., Sez. Un., sent. 9 maggio 2001, n. 23427.

[4] Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente, una norma può dirsi speciale rispetto ad un’altra quando, in base ad un confronto strutturale tra le fattispecie astratte di reato, essa contenga tutti gli elementi costitutivi previsti dalla fattispecie generale e inoltre uno o più elementi specializzanti. Anche all’interno della stessa giurisprudenza di legittimità non sono mancate, però, interpretazioni contrapposte del concetto di “stessa materia” contenuto nell’art. 15 c.p.: secondo alcune pronunce, esso andrebbe interpretato come sinonimo di “stesso bene giuridico” e pertanto l’applicazione del principio di specialità andrebbe limitata alle sole ipotesi in cui le due norme, apparentemente in conflitto, tutelino lo stesso bene giuridico (v., in tal senso, Cass. Sez. III. sent. 20 novembre 2015, n. 3539); secondo altri, invece, il principio di specialità potrebbe trovare applicazione, escludendo così il concorso tra reati, anche quando il medesimo fatto concreto, in virtù delle sue concrete modalità di realizzazione, sia riconducibile nell’ambito di più norme incriminatrici tra le quali però non ricorre in astratto un rapporto di genere a specie (v., in tal senso, Cass. Sez. II, sent. 13 dicembre 2011, n. 9541).

[5] In questo senso cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2019, pag. 557 ss; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014, pag. 716 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, X ed., Vicenza, 2017, pag. 461 ss.; F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, VII ed., Torino, 2018, pag. 536 ss.; per un’accurata ricostruzione delle variegate posizioni dottrinali, si rinvia a L. Masera, Concorso di norme e concorso di reati, in S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, vol. II, 2006.

[6] In questi termini, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 564.

[7] Così G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., pag. 568.

[8] In tal senso, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., pag. 722.

[9] Cfr. par. 1 del “considerato in diritto”, Cass., SSUU, sent. 23 febbraio 2017 (Stalla), in cui la Corte afferma che l’art. 84 c.p. informa le correlazioni tra gli elementi eventuali del reato nei medesimi termini previsti dall’art. 15 c.p.

[10] Cfr., per tutti, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., pag. 569; S. Prosdocimi, Reato complesso, in Digesto disc. pen., 1994, pag.7.

[11] Nell’intento di chiarire meglio la capacità di estensione della disciplina di cui all’art. 84 c.p. a tutti i casi di applicazione del principio di consunzione sono state adottate in dottrina diverse classificazioni: si parla di reato complesso in senso stretto, nei casi in cui l’indole complessa del reato emerge già a livello astratto perché i diversi reati vengono unificati quali elementi costitutivi nella cornice di un terzo reato (reato complesso del primo tipo) ovvero l’uno viene contemplato in funzione circostanziale dell’altro (reato complesso del secondo tipo); la nozione di reato eventualmente complesso viene riservata a quelle ipotesi nelle quali la fusione di due fatti costituenti reato si realizza, seppur in modo eventuale, nell’ambito di un terzo reato, in quanto tale ultimo reato comporta in parte la realizzazione di una condotta necessariamente corrispondente ad un’ipotesi criminosa e solo in parte eventualmente corrispondente ad un’altra ipotesi di reato (ad es., nel delitto di rapina impropria si sommano due condotte, quella di furto e quella violenta, e quest’ultima può, solo eventualmente, integrare un’autonoma fattispecie di reato, quale le percosse o la violenza privata); infine, viene individuata una figura di reato complesso in senso lato, all’interno della quale possono essere ricomprese quelle situazioni nelle quali un reato attrae ed assorbe un altro reato autonomo, essendo la sua concreta realizzazione soltanto eventuale (ad es., in alcuni reati a dolo specifico, il contegno attraverso il quale viene realizzato il fine ulteriore corrisponde ad un autonomo reato che, se in concreto realizzato, è da ritenersi assorbito nel reato base). Cfr., S. Prosdocimi, Reato complesso, cit., pag.13. 

[12] Si pensi, ad esempio, al caso di un soggetto che ponga in essere reiterate condotte vessatorie nei confronti di un familiare. Il fatto è unico ma risulta astrattamente riconducibile tanto all’art. 612-bis c.p. quanto all’art. 572 c.p. Prima della legge n.69/2009 (cd. codice rosso), la giurisprudenza risolveva il concorso apparente di norme in virtù della clausola di riserva di cui all’art. 612-bis c.p., applicando esclusivamente la più grave fattispecie di cui all’art. 572 (cfr. Cass. Pen., sez. II, sent. 5 luglio 2016, n. 3933). La legge 69/2019 ha innalzato il trattamento sanzionatorio di entrambi i reati e la fattispecie di cui all’art. 612-bis co.2 risulta ora punita più gravemente. Pertanto, non potendo più operare la clausola di sussidiarietà, la giurisprudenza risolve il concorso apparente di norme alla luce del principio di specialità: da un raffronto strutturale tra fattispecie l’art. 612-bis co.2 è speciale rispetto ai maltrattamenti alla luce del triplice evento previsto dalla prima norma. Alla luce della giurisprudenza costituzionale e convenzionale, l’identità del fatto deve essere valutata con riferimento alla sola “corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato” e pertanto potrà essere esclusa solo qualora l’azione o l’omissione dell’agente dia luogo ad un diverso evento materiale, cfr. sul punto C. Cost., 31 maggio 2016, n. 200. 

[13] La clausola di riserva contenuta in esordio all’art. 612-bis c.p. è assolutamente indeterminata, quindi potenzialmente in grado di operare nei confronti di qualunque norma incriminatrice, compreso l’art. 576 co.1 n. 5.1. Proprio per tale ragione, secondo parte della giurisprudenza, l’operatività di clausole di tal tipo deve essere subordinata alla verifica dell’omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle due norme che entrano in conflitto, poiché altrimenti non si spiegherebbe l’inutilità dell’applicazione della sanzione prevista dalla norma sussidiaria. A tale posizione, si contrappone però quella della dottrina, che ritiene che tale tipo di verifica circa l’identità o eterogeneità dei beni giuridici tutelati debba essere riservata ai casi in cui, una volta esclusa la presenza di clausole di riserva espresse e l’esistenza di un rapporto di specialità, nondimeno possa ritenersi esistente tra le norme incriminatrici un rapporto di rango, poiché individuano due figure di reato di diversa gravità, che offendono diversi beni giuridici o rappresentano due stadi diversi di offesa ad un medesimo bene. Per un approfondimento sul ruolo delle clausole di riserva indeterminate, anche alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale, si rinvia a  Cass., Sez. VI, sent. 28 febbraio 2017, n. 13849, , con nota di S. Bernardi, La Suprema Corte alle prese con il “principio di assorbimento” in una recente sentenza in materia di abuso d’ufficio, in Dir. pen. cont., 9 giugno 2017.

[14] Qualora ci si trovasse effettivamente di fronte ad un unico fatto, la clausola di riserva ben potrebbe essere riferita al delitto di omicidio, non ostando a tale conclusione la diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme.

[15] Cfr. par. 1.3. “motivi della decisione” della sentenza in commento.

[16]  Cfr., sul punto, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4133 del 15 dicembre 2015 – dep. 1 febbraio 2016,; Cass. Pen., Sez. I, 21/11/2019, , n.7893.

[17] S. Larizza, Art. 576 c.p., in E. Dolcini – G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Giuffrè, 2015, Tomo III, p. 78; A. Valsecchi, Art. 612-bis c.p., in Codice penale commentato, cit., pag. 557.

[18] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., pag. 727.

[19] L’aggravante dell’omicidio commesso “dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612-bis nei confronti della stessa persona offesa” è stata inserita al n. 5.1 dell’art. 576 co.1 dall’art. 1 co. 1 lett. b) del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge 23 aprile, n. 38.

[20] cfr. XI Legislatura, Lavori Assemblea, Seduta n. 123, giovedì 29 gennaio 2009, www.camera.it.

[21] S. Larizza, Art. 576 c.p., in Codice penale commentato, cit., p. 78.

[22] Circa la formulazione dell’aggravante di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1 vi è stato un ampio dibattito in sede parlamentare, incentrato proprio sulla mancanza di un qualsiasi collegamento tra il fatto degli atti persecutori e quello dell'omicidio ai fini dell’applicazione dell’aggravante. Analoghe critiche erano state formulate nel corso dell'esame dell'A.S. 1348 da parte della Commissione giustizia del Senato, ove si era lamentato che la formulazione in questione non chiariva esplicitamente la necessità che vi fosse coincidenza fra la vittima dell'omicidio e la parte offesa dal reato di stalking, e che l'omicidio stesso avvenisse in esito all'attività persecutoria. Il disegno di legge (A.S. 1505) in esame, come modificato dalla Camera, risolve la questione della coincidenza tra vittima dell'omicidio e persona offesa dal fatto di stalking, ma non prevede anche che l'omicidio debba avvenire in esito all'attività persecutoria. Cfr., XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 1505, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, aprile 2009, Servizio studi del Senato, n. 114.

[23] S. Larizza, Art. 576 c.p., in Codice penale commentato, cit., p. 78; cfr., in giurisprudenza, Cass. Pen., Sez. I, 26 maggio 2017, n. 29167, in cui si afferma che “Quando, invece, difetti la contestualità tra le condotte violente e quella omicida - perchè per esempio posta in essere ai danni di terzi (…) o nei confronti della medesima vittima, ma in un momento successivo agli atti di violenza - trova spazio autonomo la circostanza aggravante in discorso la quale richiede unicamente un nesso di occasionalità tra la violenza sessuale (o le altre condotte illecite ivi descritte) e l'omicidio. E, in difetto di contestualità delle condotte, la mera occasionalità tra l’omicidio e i reati indicati non può determinare l’applicazione dell’art. 84 c.p.,, ma piuttosto dell’art. 81 c.p. (par. 2.5.2 del considerato in diritto).

[24] S. Larizza, Art. 576 c.p., in Codice penale commentato, cit., p. 78; A. Valsecchi, Art. 612-bis c.p., in Codice penale commentato, cit., pag. 557.