Cass., Sez. VI, 7 aprile 2022 (dep. 20 giugno 2022), n. 23794, Pres. Fidelbo, Rel. Calvanese
1. Con sentenza che qui si annota la Cassazione prende atto della parziale abolitio criminis realizzata dal “decreto semplificazioni” (art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) e afferma la sopravvenuta irrilevanza penale della violazione di disposizioni di principio, prive del requisito della specificità richiesto dall’art. 323 c.p., nella formulazione oggi in vigore. La pronuncia si segnala, inoltre, per due ulteriori profili: il primo è che essa è emblematica della difficoltà di individuare, nel caso dell’abuso d’ufficio, il soggetto intraneo autore del reato, e di provare il contributo causale offerto da terzi; il secondo è che, con essa, la Suprema Corte afferma che la parziale abrogazione di una disposizione extrapenale che detti al pubblico agente una regola di condotta (la cui violazione integra la condotta tipica del reato di abuso d’ufficio) non determina abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, c. 2, c.p., così implicitamente aderendo all’orientamento che vede nel sintagma «in violazione di […] regole di condotta […] previste dalla legge» un elemento normativo.
2. Partiamo, come di consueto, dalla descrizione dei fatti. Nel giugno 2009 Tizio, dirigente comunale del settore “Territorio e Ambiente” rilasciava ai privati richiedenti l’autorizzazione a costruire alcune opere di urbanizzazione primaria, per la cui realizzazione stipulava, per conto del Comune, una convenzione urbanistica. Con una delibera del 2011, Tizio nominava Caio Responsabile Unico del Procedimento e attribuiva a sé stesso la qualifica di collaudatore. Il 20 ottobre 2015 Caio, nella sua veste di RUP, liquidava a Tizio la somma di 4260,98 € come compenso per l’attività di collaudatore svolta; con una delibera di soli 15 giorni successiva (del 5 novembre 2015), Tizio, nella sua veste di dirigente del Comune, liquidava a Caio l’identica somma di 4260,98 € per il ruolo di RUP da questo ricoperto. La Corte d’Appello riscontrava nella condotta del RUP Caio – consistente nel liquidare e poi nel pagare a Tizio la somma di 4260,98 euro come compenso per l’attività di collaudatore – una violazione dell’art. 141, c. 5, cod. appalti, che vieta di attribuire la qualifica di collaudatore a colui che abbia svolto funzioni autorizzative, di controllo, di progettazione, di direzione, di vigilanza e di esecuzione dei lavori sottoposti a collaudo. Poiché la violazione di legge consentiva a Tizio di conseguire un vantaggio patrimoniale, ingiusto in quanto attribuitogli come corrispettivo per un’attività che non avrebbe potuto svolgere, la Corte d’Appello riteneva integrato, a carico di Caio, il reato di abuso d’ufficio; condannava per il medesimo reato anche Tizio, il quale, in quanto beneficiario del provvedimento, era ritenuto responsabile a titolo di concorso.
3. Le difese facevano valere, in primo luogo, che il codice degli appalti (e, in particolare, l’art. 141, che stabilisce un’incompatibilità tra la qualifica di collaudatore e colui che abbia svolto funzioni autorizzative, di controllo, di progettazione, di direzione, di vigilanza e di esecuzione dei lavori sottoposti a collaudo) non poteva trovare applicazione nel caso di procedimenti aventi ad oggetto la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria, a causa di una deroga prevista dall’art. 45 d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214; in secondo luogo, che comunque l’attività svolta da Tizio avrebbe dovuto essere qualificata come “alta sorveglianza” anziché “collaudo”. Quanto alla seconda censura, basterà osservare che la Cassazione la rigetta, ritenendo la decisione della Corte d’Appello sul punto logicamente motivata: i giudici di merito avevano valorizzato che la convenzione stipulata tra il Comune e i privati per la realizzazione delle opere di urbanizzazione prevedeva un “collaudo finale”; che Tizio stesso si era definito “collaudatore” e che in tale veste aveva effettuato i controlli, che si erano conclusi con un “certificato di collaudo parziale”; infine, che era proprio la qualifica di collaudatore che Tizio faceva valere per ottenere la liquidazione del compenso. Le argomentazioni a rigetto della prima censura destano maggior interesse: la Cassazione, pur convenendo con la difesa che la L. 22 dicembre 2011, n. 214 abbia stabilito una deroga alla disciplina di cui all’art. 141, ritiene tale legge non applicabile al caso concreto, in quanto entrata in vigore successivamente alla realizzazione della condotta tipica del reato, ossia alla nomina di Tizio come collaudatore; con la conseguenza che al fatto oggetto della sentenza si dovrebbe ancora applicare la disciplina prevista dal codice degli appalti, vigente all’epoca in cui i fatti erano stati posti in essere. Tale affermazione, che la Corte non approfondisce, è, a nostro avviso, di estremo interesse. L’art. 323 c.p., nella versione vigente a seguito della riforma del 2020, descrive la condotta tipica nei termini di violazione di regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge; il rinvio – da parte dell’art. 323 c.p. – a fonti extrapenali ha sollevato un vivace dibattito giurisprudenziale e, soprattutto, dottrinale: secondo alcuni autori[1], la norma sull’abuso d’ufficio descriverebbe compiutamente il fatto, costituendo il sintagma «in violazione di regole di condotta previste dalla legge» un semplice elemento normativo della fattispecie, ossia un concetto che fa riferimento a un’altra norma giuridica e che contribuisce all’individuazione di un elemento del reato; secondo altri[2], invece, l’individuazione del comportamento penalmente rilevante sarebbe demandato, nel caso dell’abuso d’ufficio, alla legge extrapenale, dovendosi qualificare l’art. 323 c.p. come norma penale in bianco. Dall’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti esposti discendono importanti conseguenze in tema di successione nel tempo di norme extrapenali e abolitio criminis. All’accoglimento della prima tesi – in base alla quale il sintagma «in violazione di norme di legge o di regolamento» sarebbe un elemento normativo, e, quindi, le norme extrapenali in questione non integrerebbero il precetto, ma si porrebbero come semplici presupposti per comprendere se la condotta tipica del reato sia stata integrata – consegue che l’abrogazione di una norma extrapenale, non comportando una modifica della fattispecie astratta o un mutamento di disvalore del fatto tipico del reato di abuso d’ufficio, non darebbe luogo a un fenomeno di abolitio criminis, e quindi non consentirebbe di applicare l’art. 2, c. 2 c.p. Coloro che, invece, propendono per la seconda tesi ritengono che le norme di legge o di regolamento che, di volta in volta, prescrivano una data condotta al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio integrino il precetto penale, con la conseguenza che una loro totale o parziale abrogazione comporterebbe un restringimento dell’area del penalmente rilevante, con conseguente applicazione del principio di retroattività favorevole.[3] Anche la giurisprudenza è, sul punto, divisa: limitandoci alle sole sentenze massimate successive alla riforma del 2020, riscontriamo una sostanziale equivalenza tra il numero delle pronunce che ritengono che l’art. 323 c.p. sia una fattispecie costruita mediante elementi normativi[4], e quelle che inquadrano l’abuso d’ufficio come norma penale in bianco[5]. Con la sentenza in esame, la Corte esclude l’applicazione della L. 22 dicembre 2011, n. 214 (che sanciva, lo ribadiamo, l’inapplicabilità del Codice degli Appalti Pubblici ai procedimenti aventi ad oggetto opere di urbanizzazione primaria, e quindi introduceva una deroga all’art. 141 cod. app., violato dall’imputato) a fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore; così facendo nega, implicitamente, che la modifica della disciplina extrapenale comporti un’abolitio criminis e, quindi, esclude che l’art. 323 sia una norma penale in bianco.
4. La difesa di Caio sollevava poi una questione – accolta dalla Corte – in ordine alla corretta individuazione dell’autore principale del reato; individuazione che, nel caso di specie, risulta complessa in quanto sia Tizio (dirigente comunale) sia Caio (Responsabile Unico del Procedimento) sono pubblici ufficiali, e quindi possibili intranei del reato proprio di abuso d’ufficio. Riepiloghiamo brevemente il fatto: Tizio, dirigente comunale, attribuiva a sé stesso la qualifica di collaudatore e a Caio la qualifica di RUP; con successiva delibera, Caio, nella sua nuova veste di Responsabile del Procedimento, liquidava a Tizio il compenso per l’attività di collaudatore prestata. La norma che si presume violata è – lo ripetiamo per chiarezza – l’art. 141, c. 5, cod. appalti, che vieta di attribuire la qualifica di collaudatore a colui che abbia svolto funzioni autorizzative dei lavori sottoposti a collaudo: Tizio, infatti, come dirigente comunale, aveva autorizzato le opere di urbanizzazione oggetto della convenzione. La Corte d’Appello individuava in Caio l’autore principale del delitto, per aver liquidato a Tizio il compenso per il ruolo di collaudatore che non avrebbe dovuto assumere, e inquadrava Tizio, destinatario dell’atto, come concorrente. Ma Caio – osservava giustamente la difesa, e la Corte accoglie la censura – non ha attribuito a Tizio alcuna qualifica: è Tizio stesso ad essersi assegnato il ruolo di collaudatore, mediante la delibera del 2011. Ad aver violato l’141 cod. app. è, quindi, Tizio, e non Caio. La Corte d’Appello superava il problema affermando che, in ogni caso, Caio aveva violato l’art. 13 d.P.R. n. 3 del 1957 (norme di comportamento del pubblico dipendente) che impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio di prestare la sua opera “in conformità alle leggi”; la Corte – oltre ad osservare che l’art. 13 contestato non è applicabile al dipendente di un ente locale, che dovrebbe ritenersi, piuttosto, assoggettato all’art. 97 Cost., che prescrive il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. – afferma che nessuna delle due norme – né l’art. 13 d.P.R. n. 3 del 1957, né il 97 della Costituzione – detta al pubblico agente precise e puntuali prescrizioni; e che, quindi, poiché il “decreto-semplificazioni” (art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) ha abolito parzialmente l’art. 323 c.p., espungendo dal suo ambito di applicazione le condotte poste in essere in violazione di regole di condotta che non siano specifiche ed espresse, le violazioni tanto dell’art. 13 quanto dell’art. 97 devono ritenersi ormai penalmente irrilevanti[6]. Pur ritenendo assorbente l’osservazione in ordine alla sopravvenuta irrilevanza penale della violazione di norme di principio, la Corte aggiunge che la prova del concorso di persone nel reato non poteva essere dedotta – contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello – solo dal “comune interesse” che Tizio e Caio avevano nell’operazione, a causa della reciprocità delle rispettive liquidazioni (ricordiamo che Caio, nella sua veste di RUP, liquidava a Tizio la somma di 4260,98 € come compenso per l’attività di collaudatore svolta, e Tizio, nella sua veste di dirigente del Comune, liquidava a Caio l’identica somma di 4260,98 € per il ruolo di RUP da questo ricoperto). Dalle argomentazioni esposte la Corte riconosce l’insussistenza del fatto contestato e annulla senza rinvio la sentenza impugnata.
5. Ci sembra di poter formulare alcune brevi considerazioni in ordine alle soluzioni adottate dalla Corte. Ci pare senz’altro corretto affermare che la violazione dell’art. 13 d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 97 della Costituzione è ormai penalmente irrilevante. La tesi per la quale il “decreto semplificazioni” avrebbe operato un’abolitio criminis, espungendo dall’ambito di rilevanza penale la violazione di norme non specifiche ed espresse, oltre che di norme regolamentari e di norme dalle quali residuino margini di discrezionalità, avanzata fin da subito dalla dottrina[7], è oggi unanimemente accolta. Riteniamo altresì che non possano in alcun modo essere considerate “specifiche” le disposizioni di principio, per definizione vaghe e dalle quali non è possibile ricavare alcuna regola di condotta rivolta al pubblico agente. Non ci pare superfluo far notare al lettore che escludere che possa assumere rilevanza penale la violazione di norme di principio non equivale ad affermare che, a seguito della riforma, il c.d. eccesso o sviamento di potere ricada al di fuori dell’ambito applicativo della norma. La specificità e la vincolatività sono, infatti, due concetti distinti: generiche sono quelle disposizioni vaghe, dalle quali spetta all’interprete ricavare, di volta in volta, una regola di condotta indirizzata all’agente pubblico; “lasciano margini di discrezionalità”, invece, le norme che attribuiscono al funzionario un potere non vincolato, ossia gli consentono di bilanciare gli interessi in gioco in un modo che egli reputa – alla luce delle sue conoscenze e della sua esperienza – soddisfacente. Il problema delle norme generiche è che esse si pongono in contraddizione con il principio di legalità (sub specie di precisione, ma anche di tassatività) vigente in materia penale; quello del sindacato sulle norme non vincolanti è che, con esso, il giudice penale rischia di sconfinare nell’area del merito amministrativo e di sovrapporre le proprie valutazioni di opportunità a quelle effettuate dal pubblico agente. Nel caso in esame, gli artt. 13 d.P.R. n. 3 del 1957 e 97 della Costituzione pongono un problema di genericità, non di non vincolatività; in altre parole, non si verifica una situazione nella quale il pubblico agente avrebbe potuto addurre di aver compiuto una scelta insindacabile in quanto rientrante nella sua discrezionalità tecnica, bensì risulta difficile evincere, a partire dai principi di legalità, imparzialità e buon andamento, quale sia il comportamento che il pubblico ufficiale deve tenere. Con la sentenza in esame, quindi, la Corte non esclude la rilevanza penale dell’eccesso di potere, bensì afferma che le norme di legge di cui si contesta la violazione devono possedere i requisiti minimi di determinatezza e precisione che l’art. 25 Cost. richiede.
Passando a un diverso profilo della sentenza, ci sembra di poter osservare che la questione della specificità delle norme di principio e quella relativa alla prova del concorso di persone avrebbero potuto essere, forse, più chiaramente distinte. Proviamo a spiegarci meglio. La sentenza ha ad oggetto un reato di abuso d’ufficio realizzato mediante la violazione dell’art. 141, c. 5, cod. appalti, che vieta di attribuire la qualifica di collaudatore a colui che abbia svolto funzioni autorizzative dei lavori sottoposti a collaudo; l’autore principale del delitto è individuato in Caio – per aver liquidato, con delibera, il compenso a chi non ne aveva diritto – mentre Tizio sarebbe concorrente, in quanto beneficiario del provvedimento. Non c’è dubbio, tuttavia, che a violare l’art. 141 sia stato, nel caso concreto, Tizio, mediante l’attribuzione a sé stesso della qualifica di collaudatore, e che quindi il reato di abuso d’ufficio commesso mediante la violazione di questa norma non possa che essere contestato, in via principale, a lui. Ora, se a Caio – liquidatore del compenso – potesse essere contestata – come riteneva la Corte d’Appello – la violazione dell’art. 13 d.P.R. n. 3 del 1957, oppure dei principi di buon andamento e d’imparzialità di cui all’art. 97 Cost., allora si dovrebbe ritenere Caio colpevole di un autonomo delitto di abuso d’ufficio, la cui condotta tipica consisterebbe nella violazione non dell’art. 141 cod. app. ma, appunto, dell’art. 13 d.P.R. n. 3 del 1957 o dell’art. 97 Cost. L’istituto del concorso di persone nel reato, infatti, svolge una funzione incriminatrice, ossia consente di attribuire rilevanza a comportamenti atipici ai sensi delle norme che delineano i singoli reati[8]; ma, nel caso in esame, sia Tizio sia Caio avrebbero realizzato la condotta tipica di abuso d’ufficio, sebbene mediante la violazione di norme diverse. Se, al contrario, si ritiene – come correttamente ritiene la Cassazione – che la violazione dell’art. 13 del d.P.R. e dell’art. 97 Cost. non possano più assumere rilevanza penale, si deve escludere che Caio sia autore principale del reato di cui all’art. 323 c.p., ma rimane aperta la possibilità di condannarlo a titolo di concorso nel reato di abuso d’ufficio commesso da Tizio. Si potrebbe infatti qualificare Tizio come autore principale del reato di abuso d’ufficio (per aver nominato sé stesso collaudatore) e sostenere che, dando esecuzione alla delibera di Tizio – e, quindi, liquidando a suo favore le somme per l’attività di collaudo da quest’ultimo prestata – Caio abbia posto in essere una condotta atipica che è stata condizione necessaria per la realizzazione dell’evento previsto dalla norma incriminatrice, ossia l’attribuzione di un ingiusto vantaggio a Tizio. A noi pare che una simile inversione di ruoli (Tizio, qualificato come concorrente in quanto destinatario della delibera con la quale il compenso per l’attività di collaudatore da lui prestata veniva liquidato, diverrebbe autore principale per aver attribuito a sé stesso la qualifica di collaudatore, così violando l’art. 141 cod. app.; Caio, individuato nei giudizi di merito come autore del reato per aver liquidato a Tizio il compenso come collaudatore, diverrebbe concorrente, per aver eseguito la delibera di Tizio) avrebbe potuto essere operata dalla Corte, in quanto non avrebbe dato luogo a un fatto diverso. Riprendendo il capo di imputazione – sintetizzato nel provvedimento qui in commento – si legge che la condotta contestata consiste nella violazione dell’art. 141 cod. app. (disposizione senz’altro specifica ed espressa), attribuita però erroneamente a Caio, anziché a Tizio. L’errore è rilevato dalla difesa, che lo fa valere nei motivi di Appello; la Corte di secondo grado, pur accogliendo il rilievo difensivo, risponde non invertendo i ruoli di autore e concorrente, bensì rilevando la violazione, a carico di Caio, anche dell’art. 13 d.p.r. 3/57, disposizione di principio la cui violazione il Supremo Collegio non può che ritenere – dopo la riforma del 2020 – penalmente irrilevante. Se non vediamo male, la Corte di cassazione avrebbe forse potuto rilevarlo mediante il meccanismo di cui all’art. 619 c.p.p., che consente di correggere l’errore di diritto nella motivazione della sentenza impugnata quando questo non abbia avuto un’influenza decisiva sul dispositivo, evitando così l’annullamento. Sarebbe rimasto da dimostrare, ovviamente, che Caio conosceva l’illegittimità della delibera adottata da Tizio, e si rendeva conto di contribuire, mediante l’adozione del proprio provvedimento, all’attribuzione al dirigente di un emolumento cui non avrebbe avuto diritto[9]. La reciprocità delle retribuzioni, ossia la circostanza che Caio, nominato da Tizio Responsabile Unico del Procedimento, abbia da questi ricevuto, a titolo di emolumento per l’attività di RUP, la stessa identica somma da lui versata a Caio solo poche settimane prima per il ruolo di collaudatore, ci sembra senz’altro sintomatica di un’intesa intercorsa tra i due. Addirittura, a noi sembra che la reciprocità delle corresponsioni avrebbe potuto fondare il sospetto di un accordo corruttivo di cui, però, mancava, evidentemente, la prova. Se ciò è vero, allora trova conferma l’idea, alquanto diffusa, di come l’abuso d’ufficio finisca spesso per essere contestato quando non sia raggiunta la prova di un più grave reato contro la Pubblica Amministrazione.
[1] G. L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 81 e p. 595 ss.; M. Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità amministrativa, Giuffrè, Milano, 2002, p. 289 ss.; T. Padovani, L’abuso e il sindacato del giudice penale, cit., p. 86; C. Benussi, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, cit., p. 58.
[2] N. Pisani, Abuso d’ufficio, in Manuale di diritto penale, PtS, Delitti contro la pubblica amministrazione, (a cura di) Canestrari, Cornacchia, De Simone, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 285, C. Cupelli, L’abuso d’ufficio, in Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, (a cura di) M. Romano e A. Marandola, Utet giuridica, Milano, 2020, p. 280.
[3] Lo spiega benissimo G. L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 595 ss.
[4] Cass. Sez. III, 8 settembre 2020 (dep. 28 settembre 2020), n. 26834, Rv. 280266, imp. Barletta e Cass., sez. VI, 17 settembre 2020 (dep. 12 novembre 2020), n. 31873, Rv. 27988, imp. Pieri, di cui dà conto G.L. Gatta, Riforma dell'abuso d'ufficio: note metodologiche per l'accertamento della parziale abolitio criminis, in Sist. Pen., 2 dicembre 2020, nonché Cass., sez. V, 2 ottobre 2020 (dep. 28 dicembre 2020), n. 37517, Rv. 280108, imp. Danzé.
[5] Cass., sez. VI, 11 novembre 2021 (dep. 17 gennaio 2022), n. 1606, Rv. 282663, imp. Iovine; Cass., Sez. VI, sent. 16 febbraio 2021, (dep. 8 settembre 2021), n. 33240, imp. Del Principe; Cassazione, sez. VI, 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, Rv. 280296, imp. Garau, con nota di A. Alberico, Le vecchie insidie del nuovo abuso d'ufficio, in Sist. Pen., 1 aprile 2021 e C. Pagella, La Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, in Sist. Pen., 19 maggio 2021.
[6] Ad analoghe conclusioni era giunta anche Cass., sez. VI, 17 febbraio 2022 (dep. 6 aprile 2022), n. 13136, Pres. Fidelbo, Rel. Aprile.
[7] G. L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis, in Sist. Pen., 2 dicembre 2020.
[8] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, X ed., Giuffé, 2021, p. 555.
[9] Sottolinea l’importanza dell’accertamento in ordine all’elemento soggettivo G. Tellone, Il concorso di persone nel reato, in La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, Giuffré, Milano, 1997, p. 153 ss.